Settimana Canicola Bambini 3 – Gli autori: Nicolas Robel, Michelangelo Setola, Alessandro Tota

A conclusione della terza Settimana Canicola Bambini, intervistiamo i tre autori Nicolas Robel, Michelangelo Setola e Alessandro Tota sui loro tre volumi e sulla letteratura a fumetti per l’infanzia.

Dimensione Fumetto in collaborazione con Canicola presenta la terza Settimana Canicola Bambini: un vasto approfondimento sugli ideatori, gli autori e le opere della collana intitolata a Dino Buzzati che l’editore bolognese dedica ai suoi giovani lettori. Gli articoli delle precedenti Settimane Canicola Bambini sono disponibili nei menu di navigazione in fondo alla pagina o cliccando qui.

In questo quinto e ultimo articolo: tre interviste tripartite con immagini, presentazioni e tre domande ai tre autori dei tre volumi recensiti dai nostri tre redattori.

DF desidera ringraziare gli autori e la casa editrice per la loro grande disponibilità.


Nicolas Robel

Tavola inedita da "Come scomparire" di Nicolas Robel.
Una tavola inedita da Come scomparire esclusa dall’opera finita e qui pubblicata in esclusiva su gentile concessione dell’autore.

Sono nato in Québec, in Canada, nel 1974. Mio padre è figlio di immigrati austriaci ed è nato nella costa ovest del Canada in una cittadina chiamata Merritt, circa 300 chilometri a nord-est di Vancouver. Mi sono trasferito con i miei genitori e mio fratello a Ginevra, in Svizzera, dove attualmente abito, quando avevo intorno ai tre anni. Sono cresciuto con un mix di cultura nord-americana canadese e, al contempo, di cultura europea passatami da mia madre in forma di letteratura, storie, musica e film.

Ho passato la giovinezza leggendo fumetti, disegnando, suonando, e dopo essermi diplomato in una scuola superiore a indirizzo scientifico, ho studiato comunicazione visiva conseguendo una laurea triennale all’istituto di design HEAD di Ginevra. Da allora divido il mio tempo fra la mia famiglia, le mie illustrazioni e libri, i miei due progetti editoriali B.ü.L.b comix and bülbooks, il mio studio di design (che è anche il mio lavoro principale, e dove mi occupo di arte, fotografia, libri, architettura, segnaletica e tipografia) e il mio studio di manipolazione dell’immagine. Suono la batteria e strumenti elettronici per curare le mie ossessioni, e nel frattempo spacco legna e costruisco muretti a secco per mantenere un equilibrio fra la mia mente e le mie mani.

(Nicolas Robel)

Intervista a cura di Mario Pasqualini.

Nella prima tavola di Come scomparire si dichiara che l’ambientazione della storia è un “giardino” anche se del giardino, almeno apparentemente, ha ben poco, assomigliando più a un bosco selvaggio e primordiale. Entro poche pagine dall’inizio, però, appare chiaro al lettore che l’ambientazione della storia è in realtà uno spazio astratto che sembra ricollegarsi al concetto archetipico, diffuso da millenni fra tutte le civiltà del mondo, dai giardini pensili di Babilonia in poi, di giardino come “spazio interstiziale” fra il mondo naturale e quello antropizzato, ovvero uno spazio che è paradossalmente insieme naturale e artificiale. La scelta del giardino è stata il punto d’inizio da cui hai iniziato a elaborare l’opera, o al contrario il punto d’arrivo del tuo processo creativo?

Il concetto di “giardino” qui è molto vasto. Mi ha aiutato ad allestire l’intera narrazione e tutto quello che volevo includervi in termini di idee e teorie.

Ad esempio, nel capitolo intitolato Eterotopia, concetto che ho preso a prestito dal filosofo francese Michel Foucault, luoghi e spazi dell’alterità (opposto di “identità”, l’essere altro, N.d.R.) non sono né qua né là e sono mentali e fisici al tempo stesso. Ho cioè giocato con le definizioni di “geografia”, “bordi”, “limiti”, tutte nozioni inventate dagli esseri umani dato che in natura questi concetti non esistono. Invece, nel capitolo Res nullius, introduco nel giardino il concetto di proprietà privata: il giardino è un parco giochi dove tutto è possibile e ogni soggetto o idea può essere messo in discussione. Un luogo dove tutto è possibile all’interno di un mondo artificiale creato esclusivamente dagli uomini.

In diversi punti della storia compaiono, piccoli ma riconoscibili, alcuni riferimenti ai nativi americani: c’è qualcosa di autobiografico o comunque in qualche maniera legato alla tua terra natale, il Québec?

Sono riferimenti specifici a storie che mio padre mi raccontava quand’ero bambino. Mio padre è nato nel 1939 nella Columbia Britannica, ha vissuto la sua infanzia un po’ come Huckleberry Finn e ha condiviso molte esperienze con i nativi del posto. Quando ho iniziato a scrivere questa storia, ogni volta che mi imbattevo in qualcosa del nostro “mondo moderno”, mi chiedevo: che cosa avrebbero fatto i nativi americani in questa situazione? Avevo alcuni libri di mio padre sui nativi come riferimento e mi sono appassionato davvero tantissimo al loro approccio con la natura, la vita e la morte, a come tutto è connesso e il bilanciamento delicato.

Noi bambini europei giocavamo agli indiani & cowboy e i film hollywoodiani, intrisi di suprematismo bianco, glorificavano il coraggio degli europei che si trasferivano in America. Eppure, i miei nonni paterni erano entrambi immigrati austriaci e io stesso sono nato in Québec da una madre svizzera, di Ginevra, il che mi mise in una posizione spinosa nei confronti dei nativi. In breve, penso che l’idea stessa del nazionalismo bianco americano sia veramente disturbante e priva di significato, e che dovremmo invece rivolgere quel rispetto tanto a lungo negato ai nativi americani, un gruppo di popoli saggi che ha lasciato solo una piccola impronta ecologica nel loro ambiente.

Il potere dell’immaginazione dei bambini protagonisti non può non far venire in mente quello del Narratore di Alla ricerca del tempo perduto (d’altronde citato esplicitamente) in cui ogni personaggio, oggetto, luogo o evento viene descritto attraverso metafore e paragoni spesso di straordinaria potenza. Che tipo di rapporto hai con il romanzo di Proust?

Il capitolo intitolato Alla ricerca del tempo perduto è interconnesso con altri capitoli e relative teorie del libro, fra cui La macchina per fermare il tempo, La teoria dei nodi e altri. Il concetto che ho preso in prestito da Marcel Proust è che eventi casuali sbloccano memorie sensoriali casuali, e l’una provoca l’altra in una sorta di reazione a catena di ricordi. I ricordi sono come macchine del tempo, e come teorizza Henri Bergson nel suo saggio Durata e simultaneità, il passato e il presente sono interconnessi.

Nella mia storia, i bambini hanno 11 anni e stanno per addentrarsi molto presto in una nuova fase della crescita, una fase mediana che, come nel ciclo vitale dell’Ephemera danica, è instabile. La storia stessa di Come scomparire fluisce in un’altra storia in un loop e i bambini, quando “lasciano” il morente mondo “moderno”, seguiranno il percorso di questo loop infinito, segnalato alla fine del libro nel nastro di Möbius. Come nel romanzo di Proust, i bambini capiranno che la fine è in realtà l’inizio di qualcosa di nuovo: nella scena della grotta, guidati dalle lucciole, i bambini capiscono che, come per l’Ephemera danica, “qualcosa” sta cambiando.


Michelangelo Setola

Tavola inedita da "Teatro di natura" di Miochelangelo Setola.
Una tavola inedita da Teatro di natura esclusa dall’opera finita e qui pubblicata in esclusiva su gentile concessione dell’autore.

Se proprio devo vivere, che sia senza timone e nel delirio.

(Mario Santiago)

Intervista a cura di Pamela Marinucci.

Questa è la prima volta che ti cimenti nella realizzazione di un’opera per ragazzi, unita alla sperimentazione del colore. Come l’hai vissuta? Pensi di ripetere l’esperienza in futuro o questa è un’eccezione particolare?

È un’eccezione particolare, che però penso di voler ripetere. Non credo a breve mi cimenterò nella produzione di un altro fumetto per bambini, troppo faticoso, ma di sicuro l’esperienza mi ha lasciato la voglia di lavorare ancora col colore. Di conseguenza non escludo che questa ricerca possa poi essere declinata alla produzione di libri per bambini.

Tornando alla prima parte della domanda, l’ho vissuta molto bene. Inizialmente ho trascorso un lungo periodo di studio, molto entusiasmante, forse troppo perché mi ha un po’ distratto e portato anche se piacevolmente fuori strada. La ricerca iniziale era indispensabile perché ero digiuno dal colore da molto tempo, moltissimo, poi perché avevo bisogno di trovare una soluzione tecnica che mi permettesse di portare avanti la lavorazione con un buon compromesso fra resa e tempi esecutivi. Da quel momento in poi il lavoro su Teatro di natura è stato molto controllato: avendo individuato la tecnica con cui procedere mi ci sono dovuto attenere per tutto il libro ovviamente, e i tempi di lavorazione non davano spazio a ulteriore sperimentazione. Così, man mano che procedevo, covavo sempre più la necessità di sperimentare col colore in direzioni opposte a quella che stavo percorrendo, avvicinandomi di più alla pittura, abbandonando il segno che solitamente è la mia casa.

Teatro di natura ha vinto il BRAw 2022: congratulazioni! Ne vai fiero più come autore o come cittadino di Bologna che vanta un personaggio tanto illustre come Ulisse Aldrovandi? Qual è il tuo rapporto con questo personaggio storico che ha lasciato un’impronta evidente nella tua città?

Grazie. Sinceramente non mi aspettavo il premio, non sapevo nemmeno di essere candidato. Certamente mi ha fatto piacere riceverlo, e se devo scegliere, mi prendo il premio come autore, anzi soprattutto come fumettista.

Il mio rapporto con Aldrovandi è di amore incondizionato. Come disegnatore conoscevo l’immaginario visivo a lui legato e l’ho guardato a lungo negli anni di formazione. Oggi, pensandoci bene, mi rendo conto che è stato anche inconsciamente, uno dei miei riferimenti rispetto al mio modo di disegnare e al mio gusto per un certo tipo di segno e di soggetto.

Lavorando a lungo su questo libro, leggendo le varie biografie, sfogliando lettere, materiali visivi fatti eseguire grazie alla sua volontà o raccolti da lui personalmente nel mondo e fatti giungere fino a noi, si è creato un legame. Un legame del tutto immaginario, ma ugualmente molto forte. Quando ci si immerge nello studio della vita di un personaggio, o almeno in quella che viene riportata come tale, sebbene non ci sia una matematica certezza che gli elementi riportati siano del tutto reali, si accetta il mistero, e si crea una sorta di relazione. Si immagina di avere un legame particolare con il soggetto in questione come se lo conoscessimo realmente e come se a noi e solo a noi sia dato il privilegio di avere quel tipo di relazione, così speciale. Ovviamente sono tutte suggestioni che svaniscono in una rielaborazione più lucida, ma che hanno comunque una forza e un’influenza non trascurabili.

Nella realizzazione hai sperimentato le trasparenze del colore acquerellato, che rievocano le illustrazioni naturalistiche del XVI secolo. Come è nata quest’idea che ha fatto la differenza nella buona riuscita dell’opera?

Dovendo lavorare alla biografia disegnata di Ulisse Aldrovandi, persona che ha contribuito, anche se indirettamente, alla produzione di una mole inesauribile di materiali visivi, sapevo che non mi sarei dovuto scostare più di tanto dalla fonte. Sarebbe stato supponente, ma anche insensato. Volendo restare stilisticamente il più vicino possibile ai materiali di riferimento, mi sono inizialmente orientato sui dipinti. Tavole a tempera fatte eseguire a uno stuolo di pittori che lavoravano alla sua corte e che dovevano riprodurre tutto lo scibile sublunare. Tavole a guazzo di minerali, insetti, mammiferi, vegetali, animali o vegetali deformi, apparati umani o animali ancora poco conosciuti da studiare, pesci, molluschi, conchiglie…

Durante la fase iniziale di prove, però, mi sono presto reso conto che portare avanti un fumetto interamente a tempera, sebbene molto stimolante, a un novizio come me avrebbe richiesto un tempo di cui non avrei potuto disporre.

La svolta in questa direzione è stata la riscoperta, durante la documentazione, delle opere a stampa di Aldrovandi. Copie grafiche delle tempere di cui parlavo, tradotte su tavolette lignee mediante tecnica xilografica per poter essere stampate serialmente e riprodotte su volumi divulgativi. Io ricordavo di averne viste solo in bianco e nero, invece moltissime di queste stampe venivano poi colorate in un secondo momento, e sono quelle a cui mi sono ispirato per produrre il risultato formale definitivo delle tavole del libro. Sono disegni incredibili, purtroppo poco diffusi e conosciuti. La loro caratteristica è che sebbene sia presente il pigmento, la parte grafica, il segno, ossia la tecnica con la quale sono più abituato a esprimermi, rimane predominante.


Alessandro Tota

Illustrazione da "Caterina e i Capellosi" di Alessandro Tota.
Versione integrale dell’illustrazione di copertina per Caterina e i Capellosi qui pubblicata in esclusiva su gentile concessione dell’autore.

Alessandro Tota è un autore di fumetti. I suoi libri sono pubblicati in Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Vive e lavora a Bologna.

(Alessandro Tota)

Intervista a cura di Andrea Cozzoni.

Caterina e i Capellosi è una fiaba d’altri tempi, scanzonata e divertente. Sembra quasi scritta da Astrid Lindgren o Roald Dahl. Quali sono stati i punti di riferimento durante la stesura del fumetto e come è nata questa storia?

Il mio unico punto di riferimento è Tomi Ungerer, senza il quale non avrei fatto libri per bambini. Per il resto sono stato sicuramente influenzato dai fumetti che leggevo da bambino, Topolino, Tiramolla, Pugacioff… e chi più ne ha più ne metta. In realtà volevo far contento il bambino che sonnecchia nell’adulto.

La tua carriera di fumettista non è di certo focalizzata sul fumetto per i più piccoli. Quanto Caterina e i Capellosi è stato un esperimento in tal senso? Che differenza c’è, se c’è, tra scrivere e disegnare per i ragazzi rispetto al disegnare un fumetto per un pubblico adulto?

In realtà la mia carriera nel libro per l’infanzia è abbastanza strutturata, solo che i libri non sono tradotti in Italia. Caterina è una serie in due volumi, ho scritto e disegnato due libri illustrati (President! e Joseph et le Magicien) per L’Ecole des Loisirs, che è l’editore simbolo del libro per bambini in Francia, e un libro per Coconino Press in collaborazione con gli Uffizi, dal titolo Margherisba e il drago. Se i nuovi libri per bambini in cantiere non sono ancora usciti in Francia, è solo perché il mio nuovo romanzo a fumetti per adulti si mangia tutto il tempo.

Caterina e i capellosi è un fumetto perfetto per la serialità. In Francia sono uscite due avventure, la prima nel 2014 e la seconda nel 2015. In Italia esce solo ora grazie a Canicola. Come mai questa edizione italiana tardiva, e soprattutto pensi sia un discorso concluso o c’è la possibilità che nuove storie vedano la luce?

Non ci saranno altre storie perché sono al lavoro su un’altra serie, e farne due alla volta è molto difficile. Per quanto riguarda l’edizione tardiva… meglio tardi che mai!

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