Ragazze distopiche – Di come le nuove fumettiste raccontano il futuro
Quattro fumetti per quattro storie distopiche scritte e disegnate da giovani fumettiste.
Non sono al corrente di filoni particolarmente trendy nel mondo del fumetto, forse a causa del mio disinteresse verso ciò che va di moda, nel mondo del fumetto. Ogni fumettista è a sé, così come lo è ogni storia. Di sicuro alcuni generi hanno una presa più forte sul pubblico, non mi chiedete quali però, non ho dati statistici alla mano e la risposta che mi viene più semplice di fronte a questa domanda è: dipende.
La verità è che non esiste IL lettore di fumetti, ma molti lettori di fumetti. Perché il fumetto non è un genere, ma un medium, e questo ce lo siamo detti mille volte, quindi va da sé che i lettori di fumetti horror non ameranno particolarmente le graphic novel intimiste e i fan degli shōjo manga non si recheranno nelle edicole tutti i mesi per acquistare il nuovo numero di Tex. Ma forse non è vero neanche questo e scriverlo è la solita generalizzazione frutto di intuizioni preconcette. Ci sarà di sicuro là fuori, e forse anche tra chi sta leggendo queste righe, un appassionato di Spiderman che ride a crepapelle con le strisce di Sio e contemporaneamente inorridisce per la situazione iraniana letta nei libri di Marjane Satrapi. Insomma tanti pubblici, tanti generi, tanti fumetti.

Io che sono avido lettore di quelle che vengono chiamate graphic novel, fumetti lunghi e autoconclusivi, e particolarmente di graphic novel d’autore (e anche qui capire cosa significa fumetto d’autore è faccenda perniciosa), mi sono accorto di una cosa: che alle giovani fumettiste e autrici contemporanee piace il futuro. Sì, ma non il futuro fatto di robot e mondi da salvare, ma un futuro orwelliano o bradburyano (l’aggettivazione di questi nomi mi costerà cara) in cui il mondo evolve e lo fa, solitamente, in peggio.
Tutti, ormai, abbiamo imparato a chiamare questo genere di racconto distopico. Le serie di enorme successo come Black Mirror su Netflix o Scissione su Apple TV ci hanno ormai fatto familiarizzare con questa parola e con questo modo terrificante, tanto più perché verosimile, di guardare al futuro. Alcuni film capolavoro come I figli degli uomini di Alfonso Cuaròn o Non lasciarmi dal bel libro del premio Nobel Kazuo Ishiguro o ancora The Lobster dell’acclamato Yorgos Lanthimos ci hanno aperto orizzonti inaspettati e stranianti che ci hanno fatto ingoiare un boccone molto amaro.

Prevedere il futuro, pensarlo, ripensarlo, immaginare le sue infinite declinazioni è stato però lavoro da maschi, almeno fino a non molto tempo fa. Dai già citati Bradbury e Orwell, fino a Dick, Burgess e McCarthy, solo per nominare i più famosi, in tanti hanno raccontato, e fatto storia con i loro scritti, cosa succederebbe se. Cosa succederebbe se ci fosse un Grande Fratello che ci spia continuamente? Cosa succederebbe se i libri fossero proibiti, così come le forme di pensiero non conformi? Cosa succederebbe se gli androidi avessero una coscienza? E se la terra fosse devastata da un cataclisma? Le risposte non sono mai troppo felici e ottimiste a dire il vero, che ti viene una gran voglia di non essertele mai poste quelle domande.
Poi succede che nel 1985 Margaret Atwood, scrittrice canadese, a 46 anni pubblica Il racconto dell’ancella e il mondo cambia. A dire il vero il mondo non cambia, ma di sicuro il femminile entra a far parte del discorso distopico e lo fa in maniera prepotente e scioccante. Un libro talmente incisivo da diventare un manifesto politico femminista e creare una vera e propria scuola di racconti distopici con al centro la donna. Abbiamo già detto del film I figli degli uomini tratto dal romanzo della scrittrice britannica P.D. James o il più celebre, e forse meno bello, Hunger Games di Suzanne Collins.
Sono dunque figlie di Margaret Atwood, Silvia Righetti, Léa Murawiec, Eleanor Davis, Bim Ericsson? Bisognerebbe chiedere a loro, ma posso scommettere che almeno una volta nella vita hanno avuto in mano I racconti dell’ancella o ne hanno visto la fortunata trasposizione TV.
Se Davis, statunitense, classe 1983, è forse quella che osa di meno a livello di ambientazione e in Il futuro non promette bene (Rizzoli Lizard) dipinge degli USA sin troppo realistici e contemporanei, Murawiec, francese, nata nel 1994, è di sicuro quella che si spinge più in là, creando per il suo Il grande vuoto (Comicon Edizioni), una megalopoli alla Blade Runner. La riminese Silvia Righetti gioca invece con lo sci-fi e crea, per il suo esordio nel fumetto lungo, Cervello di Gallina (Coconino Press – Fandango), un mondo altro, in cui i protagonisti indossano scarpe potenziate per fare running e hanno case governate dalla domotica. Bim Eriksson infine, vive in Svezia e ha 32 anni, il suo primo fumetto tradotto in Italia, Baby Blue (Add) è proprio ambientato nel suo Paese natale, ritratto in maniera del tutto verosimile.
Come sono dunque i futuri di queste quattro fumettiste? C’è poco da stare sereni, ve lo dico subito, d’altronde è proprio questo il ruolo di chi fa letteratura distopica: prevedere, descrivere o rappresentare situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi, sulla base delle tendenze avvertite nel presente.
Davis, la più “anziana” delle quattro, forse proprio a causa dei suoi dati anagrafici, ancora crede nella lotta, nei movimenti politici, nelle proteste di piazza e nelle comunità sovversive e antigovernative. Hannah, la protagonista del suo fumetto, scende in piazza a volto scoperto e lotta per la libertà contro un governo autoritario e spione, il cui presidente è nientedimeno che Mark Zuckerberg. Avevo scritto più approfonditamente di Il futuro non promette bene qui.
Betty, la protagonista di Eriksson, al contrario è costretta a indossare una maschera, a cambiare nome addirittura, e a vivere in segretezza, insieme a un gruppo di ribelli che lottano contro un governo fascista che è quasi una dittatura, capace solo di imporre regole e limitare la libertà del cittadino. Non si può ascoltare un certo tipo di musica, non si può soprattutto essere triste o depresso, non integrato e quindi non produttivo.
Anche Manel Naher, l’eroina de Il grande vuoto (per saperne di più vai qui), fatica a conformarsi, il suo problema però è il suo nome, che nessuno pronuncia più e questo nella società in cui vive è una faccenda scandalosa. Chi non è riconosciuto dagli altri, chi non è chiamato, è destinato a rimanere solo, ad ammalarsi e scomparire.
Solitudine e malattia sono anche due temi fondanti del libro di Silvia Righetti. Rebecca, la protagonista, vive da sola in una vecchia casa di famiglia ipertecnologica, non ha amici, ha un fidanzato, ma è chiuso in un bunker e da lì non vuole uscire perché ossessionato da una possibile invasione aliena. Suo fratello Enzo sbuca improvvisamente dal passato e dal nulla con in braccio una gallina e in testa molti segreti.
Le pagine di Righetti sono intrise di paranoia e di complottismo, così come quelle della Davis e della Eriksson. Nei loro libri i personaggi sono diffidenti, ossessionati, guardinghi, in perenne stato di allerta. Ritratti allarmante di una società contemporanea sempre più consapevole che il sistema non è un posto idilliaco in cui sentirsi protetti e integrati, ma un’entità di cui diffidare. Ne sono esempio massimo due personaggi specchio, uno nel libro di Davis l’altro in quello di Righetti, Tyler e Lino. Due maschi, bianchi, che hanno deciso di isolarsi dalla società e di prepararsi ad affrontare la minaccia ognuno a proprio modo. Il primo, perdendosi nei boschi e costruendosi una vera e propria artiglieria di guerra, il secondo chiudendosi in un bunker da cui non uscire più. Gli echi delle cronache sono assai evidenti in questi due ritratti. Negli USA vengono chiamati preppers, persone, perlopiù maschi bianchi, che si costruiscono veri e propri fortini in cui rifugiarsi in attesa di una catastrofe.
Hannah e Betty hanno individuato e riconosciuto la minaccia e in qualche modo si sono organizzate per combatterla. I regimi dittatoriali in cui vivono, capaci delle peggiori nefandezze, come eliminare fisicamente il dissidente o imbottirlo di medicinali attraverso trattamenti sanitari obbligatori, sono pericoli ben visibili contro i quali è naturale ribellarsi se non si è allineati.
Più subdolo è invece il pericolo che si trova ad affrontare Manel Naher. La protagonista de Il grande vuoto non abbraccia la lotta, non se la prende con il governo o con la polizia, in effetti in tutto il fumetto non viene mai spiegato per quale motivo esiste una regola tanto bizzarra. Perché la minaccia viene dalla società in cui vive, l’inferno sono gli altri diceva Sartre e lei lo sa bene. Come si può farsi amare? Farsi riconoscere? Essere continuamente al centro dell’attenzione con il solo scopo di aumentare le proprie possibilità di sopravvivere? La sua diventa una battaglia personale per la sopravvivenza. Ancora più sfumato e impalpabile invece è il pericolo che minaccia Rebecca. La possibile invasione aliena, prefigurazione dell’apocalisse, riempie di paranoia le due persone a cui tiene di più, suo fratello Enzo e il suo fidanzato Lino. Lei rimane ferma a guardare, incapace di capire e incredula di fronte a tanto ossessionante pensiero.
I quattro fumetti, pur essendo molto diversi fra di loro e pur proponendo quattro punti di vista unici, hanno una cosa in comune. Hanno come protagoniste delle donne sull’orlo di una crisi di nervi, sopraffatte da un mondo che le esclude, le isola, le denigra. Sono donne sole, con pochi rapporti sociali (l’unica ad avere una relazione stabile è Hannah) e che non riescono a integrarsi con la società. La loro incapacità però non deriva dal loro caratteraccio, dal loro essere particolarmente burbere o scontrose o “difficili”, ma è il frutto di un non riconoscersi più nella società in cui vivono, improvvisamente diventata aliena e altra da loro. Come si può stare bene in mezzo a persone che non ti somigliano più? Come si può ricercare la propria felicità in un mondo che fa di tutto per escluderti e renderti infelice, anche se dichiara il contrario?

Ci sono soluzioni? Forse no, per questo motivo le quattro autrici hanno scelto finali aperti che lasciano al lettore la possibilità di concludere le vicende secondo la propria sensibilità. Davis decide che l’unico modo che ha la sua protagonista di essere felice è quello di credere nel futuro per cui lotta, e quindi di dare al mondo una creatura, che è l’atto più incosciente e ottimista che si possa fare, nel futuro dipinto da Davis, ma tutto sommato anche oggi. Murawiec costringe la sua Manel alla fuga dalla megalopoli opprimente, verso la natura più idilliaca e selvaggia. Solo un ritorno al primordiale, alla madre terra può realmente guarire questa società malata. Anche Eriksson opta per la fuga, ma non ci garantisce un happy ending, Betty/Baby sarà salvata da una sicura lobotomizzazione, ma cosa l’aspetta in futuro? Forse davanti a sé non ha altre scelte possibili se non continuare a lottare. Righetti ci lascia di sicuro il boccone più dolceamaro. Il suo finale intimista, quasi poetico, abbraccia il fallimento e l’incerto, non riesce a consolare ma è pervaso da una certa remissività e rassegnazione in cui è difficile trovare tracce di speranza.

Il futuro forse non promette bene e se ascoltate i telegiornali o scrollate i social lo capite anche da voi. Guardare i video recenti di senatori degli Stati Uniti d’America che danno fuoco a pile di libri con il lanciafiamme, in nome di una non meglio specificata battaglia culturale contro la pornografia, non so se mi fa più sorridere o tremare. Perché la distopia è in mezzo a noi, la distopia siamo noi. Forse leggere Fahrenheit 451 (l’avranno poi fatto?), non ha distolto i già citati senatori a compiere un gesto tanto patetico, anzi forse li avrà addirittura incitati. Forse la realtà sta prendendo spunto dalla distopia per far avverare le fosche profezie di scrittori defunti o forse si sta avverando una sorta di distopia della distopia?
In fin dei conti compito della distopia non è prevedere il futuro ma mettere in guardia il pubblico su ciò che accade nel presente. Leggere Davis, Eriksson, Murawiec e Righetti è di sicuro un ottimo modo per comprendere la contemporaneità, magari guardandola con occhi nuovi e da punti di vista che non avevamo ancora considerato.
Un saggio prima di me ha scritto: non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi. Si chiamava William Shakespeare e più di quattrocento anni fa ha detto più o meno tutto quello che si poteva dire sull’umanità.