Fumetto o graphic novel: questo (non) è il problema – Intervista ad Andrea Tosti
Abbiamo intervistato Andrea Tosti, autore ascolano del saggio Graphic Novel, di cui siamo particolarmente fieri perché con questa e altre opere ha già dato prova di grande talento.
Più vado avanti con gli anni e più mi pare che ogni incontro non sia casuale, ma tracci una pennellata in un punto preciso del quadro variegato della mia vita che acquista una forma sempre più definita. Ogni volta che conosco persone nuove mi chiedo quale tocco aggiungeranno al dipinto, se sarà di un rosso impastato di affetto o di un blu intriso di generosità o di un grigio denso di ostilità o di un bianco soffuso di indifferenza. Talvolta mi capita di imbattermi lungo la strada in qualcuno che ho incrociato in passato e poi non ho più rivisto per tanto tempo, e anche questo ritrovarsi mi pare non privo di senso. Così è accaduto che un bambino dagli occhi verdi che abitava vicino a casa mia sia diventato un giovane scrittore e io abbia partecipato alla presentazione del suo libro collegando in un cortocircuito temporale gli anni in cui l’ho salutato tante volte per strada con sua madre o nel laboratorio di ceramica vicino alla sua abitazione, al momento in cui ho condiviso con lui la soddisfazione per il suo saggio.
Ho avuto il grande piacere di leggere la sua opera durante l’estate scorsa e di prenderne numerosi spunti per il corso di fumetto che ho tenuto a Belmonte Piceno, al punto da portarla sempre con me a ogni lezione come una coperta di Linus. Insomma, questo incontro è stato per me particolarmente significativo ed è stata una fortuna ritrovare dopo un lungo tragitto quel bambino dai grandi occhi pieni di curiosità.
Sto parlando di Andrea Tosti, autore di Graphic Novel, un’imponente opera che tratta un ampio ventaglio di temi, dai protofumetti alla critica sul fumetto, dal rapporto del fumetto con il romanzo a quello con la musica, dalla relazione tra parola e immagine all’uso didattico dei fumetti, dai graphic novel europei a quelli italiani. La arricchiscono ulteriormente la prefazione di Marco Pellitteri, una testimonianza finale di Igort e numerosi contributi: di Matteo Piccioni su William Hogart, di Federica Lippi sulla storia del fumetto giapponese, sul kamishibai, sul gekiga, sulla serialità in Giappone, di Giulia Menzietti sul collegamento tra architettura e fumetto, di Vitantonio Troiani sulla “vignettizzazione”, sulla caricatura, sul fumetto diagrammatico, su arte e fumetto. Il libro risulta dunque un testo a tutto tondo sul fumetto e non solo sulla categoria commerciale diffusasi di recente in modo esponenziale, ovvero quella di “graphic novel”, una sorta di “veste buona” che alcuni vogliono fare indossare al fumetto per venderlo a un pubblico più colto, con un travestimento verbale per cui un serio, impegnato “graphic novel” è più accettabile e accattivante di un semplice, infantile “fumetto”.
La lettura dei capitoli, al di là della mole di pagine, è molto fruibile e interessante grazie alla ricchezza di informazioni, citazioni, esempi, immagini, riferimenti bibliografici e allo stile elegante e piacevole, in felice contrasto con la pesantezza erudita di molti altri saggi. Cercando di cogliere tra le pieghe del volume la personalità di chi lo ha scritto ho avuto l’impressione di una sincera passione e di un incessante lavoro di ricerca, quasi di una saggezza antica unita per rara combinazione con una giovane mente. L’assunto di fondo per cui chi legge i fumetti li adora proprio perché sono fumetti, oltre ogni tentativo di catalogazione, denominazione o interpretazione, mi è sembrato la più profonda e vera dichiarazione d’amore per questo medium.
Graphic Novel ha illuminato con un giallo solare i giorni delle mie vacanze, tanto che ho deciso di contattare Andrea per fargli sapere quanto ho apprezzato il suo lavoro e chiedergli un’intervista; la cordialità con cui ha accettato la mia richiesta e l’esaustività delle sue risposte hanno contribuito ad accrescere la mia simpatia e la mia stima nei suoi confronti.
Ed ecco il nostro dialogo a distanza.
Come ti sei appassionato ai fumetti, che pure sono considerati da alcuni «un mezzo dannoso, maledetto, banale e incapace di produrre senso»?
Innanzitutto grazie dell’attenzione e delle domande. Spero di riuscire a dare delle risposte sensate e, soprattutto, sintetiche, su dei temi che mi hanno tenuto impegnato per alcuni, intensi anni.
La storia del come mi sono appassionato ai fumetti è, in realtà, molto banale e, credo, comune a tanti. Ho avuto la fortuna di crescere in una casa piena di libri e, anche se in misura nettamente minore, di fumetti. Quindi, essendomi sviluppato, sull’esempio dei miei genitori, come “lettore”, il salto ai fumetti è stato naturale e nient’affatto traumatico. Naturalmente sto parlando principalmente di quei fumetti considerati, spesso erroneamente, da bambini o ragazzini, come Topolino e le altre riviste di fumetti disneyani, Braccio di Ferro, Asterix ecc. Pur convivendo nella stessa casa non posso dire assolutamente che libri (intesi principalmente come romanzi) e fumetti godessero fra gli adulti della stessa considerazione, culturale e pedagogica. Eppure, alcuni divieti che mi sono stati giustamente posti, per esempio quando, troppo piccolo, prendevo in mano alcuni volumi di Crepax, mi hanno probabilmente convinto del fatto che il fumetto potesse essere considerato anche un mezzo adulto. Poi una serie di avvenimenti: l’apertura della prima fumetteria ad Ascoli, la mia città, l’incontro con altri appassionati, la scoperta delle classiche opere di “passaggio” (Watchmen, Maus, ma anche Tezuka o Otomo ecc.) e una passione che si è trasformata prima in domande, poi in studio.
Quali sono i fumetti che sono stati fondamentali per te e per quali motivi li ritieni significativi?
Questa è una domanda cui è impossibile rispondere brevemente. Intervengono molti fattori, alcuni che fanno parte di un’esperienza condivisa da più di una generazione, come la scoperta di Maus o anche di Palestina, che ci hanno convinto (più o meno tutti, diciamo) del fatto che il fumetto è una roba seria. Però questi titoli, e altri continuamente citati in contesti simili, rischiano di trasmettere l’idea che si tratti di casi unici, quasi delle eccezioni o, come ho spiegato anche nel mio saggio, dei non-fumetti, qualcosa che ha un valore formale così alto da non poter essere considerato fumetto. I titoli che mi hanno segnato personalmente, per così dire, sono moltissimi. Posso citare i primi che mi vengono in mente, in ordine strettamente non cronologico.
I fumetti di Barks, la Trilogia della spada di ghiaccio, di Massimo De Vita, La storia del topo cattivo, Teknophage, Ranma ½, tutto quello che quando ero adolescente era reperibile di Tezuka, Cybersix, Dylan Dog, From Hell… Questo per limitarmi ai fumetti letti fino alle superiori, diciamo. Ognuno mi ha colpito per un motivo diverso. Anche se ero molto piccolo quando lo lessi, per esempio, alcune scelte grafico-narrative degli episodi de La saga della spada di ghiaccio ancora mi tornano in mente come pietra di paragone quando leggo fumetti considerati più “seri”. La storia del topo cattivo, che oggi forse non rileggerei, mi insegnò come si potesse essere delicati nel trattare temi importanti anche con un mezzo apparentemente così caciarone, per lo meno per come era avvertito nell’opinione comune e in parte anche nella mia.
La tua opera è dedicata al graphic novel ma in realtà ha una struttura articolata e imponente, che si evince già dal sottotitolo: «Storia e teoria del romanzo a fumetti e del rapporto fra parola e immagine». Come è nato il progetto e quanto hanno influito sulle tue scelte le richieste della casa editrice Tunué?
Se si considera il numero di pagine esplicitamente dedicate alla nascita e all’affermazione del graphic novel il titolo del saggio potrebbe sembrare quasi un inganno. Ma, ovviamente, nulla nasce dal nulla, e più sono andato avanti nella progettazione del libro, prima, e nella scrittura dello stesso, poi, più ho sentito l’urgenza di allargare il discorso, di delineare non dico una consequenzialità (la storia del fumetto è anche notevolmente frammentaria) ma per lo meno una direttrice che collegasse il fumetto alla precedenti forme artistiche e narrative visuali e verbo-visuali. Il progetto nasce da una richiesta della casa editrice, che voleva mettere in catalogo un testo che facesse il punto su un contenitore, su di un’etichetta che negli ultimi anni aveva riscosso grande e trasversale successo, il graphic novel appunto. Il testo che ho consegnato alla fine credo andasse ben oltre le aspettative, anche semplicemente sotto il profilo della foliazione. Devo ringraziare soprattutto il curatore del volume, Marco Pellitteri, che mi ha sostenuto e incoraggiato nel realizzare un testo di sicuro non facile, soprattutto sotto il profilo dell’impegno personale.
Consideriamo l’idea centrale di tutto il tuo saggio: che cos’è il graphic novel? E perché in certi casi si usa l’espressione “graphic novel” piuttosto che “fumetto”?
A questa domanda, a dispetto delle quasi mille pagine del mio libro, è molto facile dare una risposta diretta. “Graphic Novel” è semplicemente un modo diverso, più chic, più accettabile, di dire fumetto. È una definizione che alcuni autori hanno adottato per far sì che le loro opere potessero distaccarsi da una percezione comune, storicizzata, stratificata di questo medium, che vede il fumetto come forma di arte bassa (se di arte si può parlare) se non specificatamente dannosa. Un’etichetta che gli editori, ben contenti di penetrare nel più ampio mercato costituito dai consumatori di narrativa romanzesca, hanno accolto e promosso di buon grado. Ma è importante sempre ricordarsi che di fumetto stiamo parlando. Si parla di graphic novel come di un “fumetto lungo”, con “ambizioni romanzesche”, che tratta “temi importanti” e che permette di raggiungere un pubblico più alto. Tutte prerogative, queste che, come spiego nel mio saggio, il fumetto possedeva prima dell’invenzione di questo nuovo contenitore più adatto alle librerie e agli scaffali dei consumatori borghesi e colti. Un’etichetta nuova per un prodotto vecchio, se non antico, la cui adozione ha portato certo alcuni vantaggi: l’accendersi di un dibattito culturale sul fumetto che prima avveniva, quando avveniva, solo in ambiti più ristretti, la diversificazione del pubblico dei fruitori, la penetrazione nei luoghi precedentemente deputati solo alla narrativa verbale come scuole, biblioteche pubbliche ecc. Però, come sostengo anche nel saggio, questo apparentamento insistito al romanzo, al novel, con la conseguente focalizzazione su un numero ben preciso di temi e generi (il racconto bio-autobiografico, quello intimista ecc.) a lungo andare potrebbe, se non è già successo, portare come conseguenze l’indebolimento di alcune delle prerogative narrative più peculiari del fumetto, cioè quelle basate sulla narrazione principalmente visuale.
Nell’introduzione del tuo libro parti da una domanda che genera molte risposte: «Che cos’è il fumetto?», e più volte sostieni che il fumetto sfugga a leggi classificatorie. È dunque impossibile definire in modo esaustivo le caratteristiche di questo medium?
La questione credo sia più sottile. È impossibile, credo, ma non capisco perché se ne debba sentire questa grande necessità, fornire una definizione concisa di fumetto, come succede nel caso di altre forme artistiche: cinema, scultura, pittura. La pittura e la scultura, ad esempio, vengono definite dal gesto, dall’azione, dall’atto pratico che le genera. Nel fumetto convivono l’arte dello scrivere, del disegnare, del narrare spazialmente sulla stessa pagina ma anche la narrazione pagina dopo pagina. Si tratta di un dispositivo modernissimo, estremamente complesso, variegato e duttile. Una indagine storico-critica paragonabile a quella che è stata nei secoli dedicata alle altre arti o forme narrative avrebbe aiutato a definirlo sicuramente meglio, ma questa sua natura sfuggente è sicuramente componente intrinseca e affascinante di quello che il fumetto è e del modo, in parte altrettanto misterioso, attraverso cui lo fruiamo.
In che senso ci sono fumetti “standardizzati” o “addomesticati”?
Ci sono fumetti standardizzati o addomesticati, ma questo accade ed è sempre accaduto in tutti i campi della produzione artistica o letteraria. Non sempre è, necessariamente, un male. Ci sono prodotti di largo consumo che presentano delle caratteristiche fortemente standardizzate (penso, solo per fare un esempio, alla gabbia bonelliana) dentro i cui limiti imposti alcuni artisti, particolarmente intelligenti o creativi, riescono a creare piccoli gioielli. Non ricordo di aver usato questa terminologia specifica nel mio saggio, ma se l’ho fatto credo che abbia voluto rifermi a una certa normalizzazione che l’etichetta graphic novel ha introdotto nel campo della produzione fumettistica, normalizzazione cui ho accennato rispondendo a una domanda precedente di questa intervista.
Come dovrebbe essere, secondo te, un fumetto “fatto bene”?
Qui si entra ancora una volta nel campo dei gusti soggettivi. Ragionando a freddo, preferisco fumetti in cui la narrazione proceda soprattutto per invenzioni e stratagemmi narrativi visivi, cioè in cui la pagina sia utilizzata come uno spazio compiuto e autonomo in cui le vignette e i disegni nelle vignette dialoghino costantemente fra loro al di là della sequenzialità di matrice verbale. Detto questo, ci sono molti fumetti, in cui la componente di narrazione in prosa è preponderante e che si avvicinano più al campo dei libri illustrati, che ho amato molto. Sempre nell’ottica dell’indefinibilità del fumetto, è difficile definire uno standard. Sicuramente un fumetto in cui i disegni non “raccontano” ma “illustrano” mi interessa poco.
Anche la fruizione del fumetto suscita interrogativi e risposte non univoche: il fumetto “si guarda”? E in che senso invece il graphic novel “si legge”?
Mi ricollego alla domanda precedente, specificando ancora che i graphic novel altro non sono che fumetti. I fumetti si guardano quando la pagina viene concepita (penso ai fumetti di Chris Ware, ma anche a quelli di McGuire o David Aja) come un dispositivo temporale e narrativo, in cui è possibile passare dal totale (la pagina) al particolare (la vignetta o anche il singolo disegno nella vignetta) in un dialogo ininterrotto fra leggere e guardare.
La frammentarietà del racconto sequenziale per vignette, frammentarietà che il lettore, attraverso modalità ancora in parte misteriose, ricompone in una narrazione, può trovare compiutezza e unità nel tutto della pagina. Il guardare e il leggere possono coordinarsi per comporre un racconto comune, ma anche giocare di contrasto, di opposizione. Un fumetto in cui la “lettura” mima eccessivamente le strategie verbali procedendo un po’ troppo pigramente da sinistra a destra, riga dopo riga, pagina dopo pagina, lo ripeto ancora una volta, mi interessa meno. Ci sono diversi modi in cui l’occhio si muove attraverso le informazioni che un fumetto organizza come narrazione. Abbiamo già citato il passaggio, non univoco e non unidirezionale, dal tutto della pagina al dettaglio della vignetta, ma naturalmente anche la lettura sequenziale sx-dx ha un valore importantissimo, che però non andrebbe del tutto subordinato alla pagina. Poi, nel caso di fumetti costituiti da più di una tavola, anche il parziale “reset” introdotto dall’atto, ormai antico, di “voltare pagina” ha un valore narrativo tutto particolare. Per non parlare delle splash-page, ecc. Insomma, un bel casino, creativo e fecondo.
Nei confronti del fumetto esistono ancora pregiudizi e diffidenza. In quali modi e in quali contesti credi che si possa superare il perdurante atteggiamento di «imbarazzo culturale»?
Gli atteggiamenti di imbarazzo culturale nei confronti del fumetto sono, per fortuna, sempre più rari. Il fatto di poterlo chiamare con un più innocuo e disinnescante termine, “graphic novel”, invece che fumetto ha di certo aiutato. Manca però, per quanto riguarda le istituzioni culturali, pubbliche e private (testate giornalistiche generaliste, musei, corsi universitari, scuole ecc.) la formazione di figure specifiche che si possano occupare con precisa consapevolezza di questo medium. Prevale invece ancora un approccio da opinionisti per quanto riguarda i fumetti (e non solo, ahimé). Di questo argomento pare se ne possa occupare chiunque. Nel migliore dei casi, ma non sempre questo è il minore dei mali, chi parla di fumetto viene da contesti considerati attigui: penso a storici e critici dell’arte o della letteratura. Il confronto con altri ambiti è sempre auspicabile e, sulla carta, fecondo, ma si corre il rischio che il fumetto continui a essere giudicato attraverso filtri parziali: la sua artisticità, la “bellezza” dei disegni, la “letterarietà” delle sceneggiature e dei testi verbali. Tutti elementi che il fumetto contiene o può contenere, ma che non bastano sicuramente a definirlo. Il fumetto non deve essere “bello”, né “elegante”, se mi si passa una semplificazione nell’utilizzo di queste “categorie”, né dovrebbe essere giudicato per il suo valore pittorico o letterario. È quello che succede, in ambito cinematografico, quando si loda la “bella” fotografia di un film, o si pone l’attenzione in particolare su una sceneggiatura particolarmente ben scritta. Ci sono brutti film meravigliosamente scritti e magnificamente fotografati. In tempi anche recenti, inoltre, ci sono stati ancora episodi, nati soprattutto in ambito politico o giornalistico, in cui il fumetto ha destato scandalo perché si è occupato di temi (la morte, l’eutanasia ecc.) non considerati a questo adatti. Scandalo che proviene dalla percezione, si spera non più maggioritaria, che vede ancora il fumetto come un “qualcosa per bambini”. Ecco, come detto, questi casi sono sempre più rari, eppure si potrebbe persino rimpiangere la capacità perduta del fumetto, soprattutto nella sua nuova veste di “graphic novel” di generare scandalo. In fondo per molti anni, se non decenni o secoli, il fumetto ha dato ottime prove da una posizione minoritaria, bastarda, si è permesso sberleffi e affondi in quanto, appunto, poco considerato, preso sottogamba, fruito da minoranze, per lo più proletari o bambini e adolescenti. Oggi, che si affaccia quasi da pari sul palcoscenico del dibattito culturale pubblico, questa sua dimensione si sta un po’ perdendo.
In quali forme la scuola potrebbe dare il suo contributo allo sviluppo di una cultura visuale in cui rientrino anche i fumetti?
Semplicemente introducendo i fumetti come testi scolastici. Ce ne sono di adattissimi allo scopo. Inoltre sarebbe auspicabile, come si fa con i temi, spingere gli studenti a realizzarne di propri. Questo a volte avviene, ma per far sì che la cosa abbia un valore apprezzabile, bisognerebbe che gli insegnanti che promuovono, spesso con fatica, queste attività, siano formati per quanto riguarda questo campo così particolare o che, per lo meno, vengano coadiuvati da specialisti del settore. Non si tratta di un vezzo. Il fumetto, pur con una lunga storia alle spalle, ha davanti un futuro ancora molto interessante, grazie anche alla frontiera non solo del fumetto digitale ma anche di quello multimediale, spesso utilizzato per la comunicazione da grandi aziende.
Le nuove frontiere dei fumetti digitali possono cambiare o addirittura far perdere alcune caratteristiche proprie del fumetto?
Alcune caratteristiche proprie si perderanno, ma la cosa non è necessariamente un male. Il fumetto convive già da moltissimi anni, e molto bene, con il web, ma il più delle volte ci si è limitati a impaginare per un formato nuovo strategie e dispositivi narrativi consolidati. Ci sono però anche tantissimi esperimenti interessanti che sfruttano al massimo le possibilità del nuovo contenitore (o dei nuovi contenitori, considerano l’eterogeneità dei device). All’atto di sfogliare la pagina si è sostituito lo scroll, le vignette non sono più solo delle monadi immutabili ma sono diventate dei dispositivi multimediali che possono non solo contenere animazioni e musica, ma anche link ad altri siti, altre pagine, altri disegni, altri contenuti. Come sempre accade il futuro è tutto da scrivere e disegnare.