Orfani: nuovo mondo #7 – Una recensione dantesca

La seconda metà della terza stagione del fumetto di Roberto Recchioni segna una rinascita, per certi versi una vera e propria ripartenza. Non è la prima della serie, ma ci sono tante cose che sembrano resettarsi, insieme a qualche sorpresa inaspettata…

Pugni chiusi
non ho più speranze
in me c’è la notte
la notte più nera

Occhi spenti
nel buio del mondo
per chi è di pietra come me

Pugni chiusi,
per tutto, per sempre,
non ha più ragione la vita…
(Pugni chiusi, I Ribelli, 1967)

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Leggo Orfani dal numero 1 della prima serie, prima curioso, poi preso da una storia in cui volevo capire che fine avrebbero fatto quei bambini. Mi ricordavano ovviamente gli Starship Troopers in addestramento, ma avevano un non so che di Oliver Twist, richiamandomi alla mente una specie di immenso orfanotrofio alla Dickens.

E ogni tanto qualcosa di simile a una fine, ma sempre seguito da un nuovo inizio.

Anche qui, dopo il pugno nello stomaco narrativo, grafico, cromatico, del numero precedente, sembra tutto finito. Al punto che l’inizio di questo numero sembra finto, lontano da quanto abbiamo visto e vissuto finora. Stavolta il pugno nello stomaco è l’idillio delle prime due tavole, che però si spegne immediatamente, con la stessa fastidiosa sensazione dei vecchi televisori a raggi catodici con il puntino luminoso al centro.

In quel puntino ritroviamo Rosa, non a caso in posizione fetale, raggomitolata su se stessa, pronta a seguire, nella (ri)nascita, lo «sgorbietto» che ha da poco messo al mondo. E il protagonista di queste nascite è sempre il buon vecchio Ringo, che continua a manifestarsi in modo sottile, strisciante ma sempre presente. È presente nei sogni di Rosa, è presente nel DNA dello «sgorbietto», poi piano piano si riprende la scena, è il vero eroe della storia. Rosa è in un certo senso in sua balia, guidata passo per passo nell’inferno della base della Juric. Come Dante da Virgilio.

Il precipizio di pathos e violenza (stavolta fra uomini, senza mostri, Corvi o altro) che percorriamo in tutta la storia e che prelude ai prossimi numeri è perfettamente preparato nella sua ambientazione infernale e anche nelle premesse. Infatti Rosa, salvatasi con la (sola?) forza della disperazione dalla violenza del traditore Armin, si ritrova solamente umana, come dice lei stessa. Come Dante nell’inferno più volte deve scontrarsi con la sua umanità, anche fisica, come quando la barca di Caronte affonda nelle acque dell’Acheronte a causa del suo peso. Lei che finora non aveva dovuto fare i conti con il suo corpo, che non le era pesato neppure con un figlio in grembo. Ma con la guida di Ringo-Virgilio, anche lui, come il suo alter ego nella Commedia, guida non solo fisica, scopre quel qualcosa che ha dentro e trova la forza di serrare i pugni e risalire l’intero inferno, per uscire a riveder le stelle. Quelle del cielo, ma soprattutto quelle del suo io, preso a pugni dagli eventi e dalle scoperte.

È quasi paradossale: Rosa, che è stata l’unica superguerriera del gruppo, che grazie alla sua superumanità è arrivata viva fin qui nonostante la gravidanza, si ritrova ad essere l’unica solamente umana in una storia dove, a parte i comprimari, compaiono solo figure che di umano hanno poco. Uno spirito, due bambini con il DNA modificato, un assassino feroce e freddo, l’ultimo Corvo, e la Juric, che umana non è mai stata.

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L’inferno dantesco è anche il luogo (solo onirico?) da cui Rosa rinasce un’altra volta, dopo aver riscoperto la sua umanità, di cui finora, almeno in questa terza stagione, non avevamo avuto segno. E infatti tra le malebolge ricompaiono per un attimo anche Nuè e Seba, che certamente non a caso cita il sommo poeta. Anche geograficamente siamo nell’Inferno dantesco: il posto dove si sveglia Rosa all’inizio non è distante dalla dantesca «natural burella»; quello della sua ulteriore rinascita ci fa vedere uno schema della base della Juric a gironi concentrici. Però il viaggio è all’inverso, a partire dai più dannati, su, su, attraverso i dannati comuni, fino all’esterno.

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E prima di avviarci verso la resa dei conti, c’è una catarsi. Che viene veicolata da una creatura appena nata.

La nascita di un figlio è un punto di rottura SEMPRE. E ogni bambino è un uomo in potenza con cui dobbiamo confrontarci. Un figlio ci toglie qualcosa e ci mette di fronte a noi stessi, perché è altro da noi, pur essendo parte di noi. Un bambino appena nato ci fa riscoprire la fragilità, anche nostra, e ci interroga su come accogliamo quella altrui.

Così è per Rosa, che riscopre la sua umanità (forse non è lei ad avere nelle vene il DNA di Ringo, ma solo il figlio che gli ha dato uno tra Seba e Nuè, che quindi è il vero figlio di Ringo), e decide di perderla di nuovo con l’aiuto della droga. Con la quale rinasce di nuovo, per la seconda volta, dall’oscurità e nella posizione dei neonati, ma stavolta da una visione infernale e non idilliaca. E infatti non è la stessa umanità spensierata e positiva con cui l’abbiamo conosciuta sulla terra. Diventa una umanità ferita, difficile, con cui, suo malgrado, si trova a fare i conti dopo essersi illusa di essere altro.

Così è per Sam, che piano piano, dopo tanto tempo, sembra ritrovare una coscienza, proprio quando la Juric le offre di prendere il bambino. Tutto quel sangue nella sua testa, e alla fine ne ha coscienza e ritrova l’immagine di ogni persona uccisa, in una mente che sembrava poter essere svuotata a piacere dalla Juric.
Che peraltro non pare meravigliarsi…
E si rende conto di essere uno scherzo, e, sopraffatta da questo pensiero, decide di abbandonarsi e abbracciare la trasformazione, stavolta coscientemente: tornando un soldato, non più per timore o per condizionamento, ma per scelta, perché con la sua umanità non vuol fare più i conti.

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In tutto questo, il lavoro dell’affiatata coppia Dell’Edera-Niro sottolinea con forza i passaggi della storia. Dal luminosissimo incipit, all’oscurità dominante interrotta dal rosso del gas lacrimogeno, o dell’inferno, dai colori pastello del sogno che diventerà realtà.

Come dicevamo, si sale verso la luce, infatti gli ambienti diventano via via più luminosi. Il tratto è pulito, le ombre riempiono e disegnano i volumi, ma su due passaggi che mi hanno colpito voglio soffermarmi.

  1. la pagina, che riempie dello stesso sangue, che è nella testa di Sam, gli occhi di chi legge, è una esplosione che non potrebbe essere raccontata in altro modo;
  2. la pagina di narrazione continua che, per chi come me è cresciuto anche con i fumetti di Gianni De Luca, è stato un bellissimo regalo.

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Ho cercato lungo tutto il fumetto i pugni serrati del titolo: in effetti ci sono tantissimi primi piani di mani, anche Sam fa presente che con le sue mani non può prendere il bambino, quasi non c’è pagina dove le mani siano comunque ben in evidenza. Non ho trovato però una chiara immagine dei pugni serrati…

..perché alla fine i pugni chiusi di un guerriero che non ce la fa più, si serrano, trovano nuova energia e diventano quelli di Rosa che, quando era sul punto di arrendersi, ritrova la voglia di lottare.

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