Orfani: Nuovo Mondo #6 – Non esattamente una recensione

…Sarà stato forse un tuono
non mi meraviglio
è una notte di fuoco
dove sono le tue mani
nascerà e non avrà paura nostro figlio
e chissà come sarà lui domani
su quali strade camminerà
cosa avrà nelle sue mani.. le sue mani” (Futura – L. Dalla)

coverCon E non avrà paura la terza stagione di Orfani arriva al giro di boa e, come si suol dire, lo fa col botto. Roberto Recchioni e Mauro Uzzeo danno una svolta drastica alla serie con il largamente annunciato parto di Rosa e con un altro paio di sorprese che sono destinate a diventare il punto di partenza per la seconda parte di Orfani Nuovo Mondo.

Ma non è su questo punto che voglio soffermarmi. Ci sono e ci saranno altre recensioni, migliori di questa, che sapranno approfondire tutte le implicazioni a livello di intreccio, macrotrama e coerenza del racconto.

Quello che invece mi ronza per la testa da un po’ di tempo è una frase scritta, forse distrattamente, da Recchioni in uno dei suoi millemila post di Facebook… o era un commento… oppure era un commento al post di qualcun altro… vabbè, poco importa. Fatto sta che Recchioni ha scritto: «Orfani è uno Shonen».

Da lì, nel mio animo di lettore onnivoro, sono partiti in automatico i confronti tra Rosa e Kenshiro, Ringo e Akira Fudo e così via. A essere del tutto onesti i collegamenti che sono stato in grado di trovare erano piuttosto labili: ci sono l’azione, i bassi tempi di lettura, i dialoghi secchi e la ricerca di un dinamismo continuo. Su Nuovo Mondo poi la concatenazione degli eventi lega gli albi in maniera molto più stretta di quanto non sia stato fatto in precedenza, si tratta di un’unica lunga corsa, sulla falsariga dei manga di Jump. D’altra parte però si nota l’assenza di molti espedienti narrativi tipici degli shonen manga: il tratto iconico, personaggi studiati per far scattare il processo di identificazione, la canonica sequela di avversari sempre più potenti e il conseguente power-up del protagonista, il bianco e nero e l’uso di un unico disegnatore. Da questo punto di vista quindi il massimo che potevo accordare all’osservazione di Recchioni era che sì, ci provava, ma che Orfani era uno “shonen zoppo”, sempre al guinzaglio di una casa editrice storicamente conservatrice.

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Ma ecco che arriva il numero 6: quello scritto a quattro mani e disegnato a otto. L’albo che si racconta su due piani differenti: da una parte abbiamo Alessio Avallone che prosegue con l’estetica canonica della serie e racconta le vicende che si svolgono nel mondo reale (che poi, vabbè, è un racconto per cui sono finzione anche quelle. Ma ci siamo capiti) e dall’altra abbiamo degli interventi “d’autore” nei quali Werther Dell’Edera, Arturo Lauria, Aka B. e Fabrizio Des Dorides esplorano le ripercussioni emotive e psicologiche del parto nell’animo di Rosa. Un parto, mi dicono, non è propriamente l’evento più rilassante nella vita di una donna e le condizioni in cui lo sta vivendo la nostra protagonista (in una giungla, senza dottori e attrezzature, braccata, incosciente delle complicazioni che il suo DNA modificato possano portare) non possono far altro che acuire la drammaticità della situazione. Questo dramma è sapientemente sottolineato dalla bicromia e dall’uso preponderante del color rosso sangue.

Questi inserti però, a prima vista, cozzano con il concetto di shonen che avevo in mente, quello dallo stile uniforme e che poco concede a certe declinazioni stilistiche, e il pensiero è stato subito quello di “ecco Recchioni che vuol dare un tono di autoralità alla sua serie e infila nella storia degli elementi che poco c’entrano con tutto il progetto portato avanti fino ad ora”.

E invece avevo torto (per soli cinque/dieci minuti sia chiaro).

Qui Recchioni porta al culmine tutto il suo progetto sul Fumetto, il Fumetto come lo intende lui.

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La “Recchioni’s way to comics” è descritta perfettamente in quest’albo. Quando diciamo che “i tempi di lettura si abbassano” spesso e volentieri intendiamo dire “il pubblico pigro non ce la fa a reggere la verbosità di una tavola di  E.P. Jacobs per cui si cerca di ridurre al minimo il testo scritto”. E invece non è così. Almeno qui. Credo.

Il punto è invece che per Rrobe, e per le persone che lavorano con lui, il Fumetto è un mezzo narrativo che deve lavorare per immagini. La natura del mezzo stesso richiede una preponderanza dell’immagine sul testo: sia dal punto di vista più strettamente narrativo che da quello estetico. Il racconto non è (solamente) frutto del contenuto dei baloon, gli scrittori di fumetti non si misurano in base al numero di parole usate, il racconto è principalmente espresso tramite i disegni, il layout e l’impaginazione stessa. Girare pagina e trovare, ad esempio, le silhouette inquietanti delineate da Lauria è già un’esperienza emotiva che preesiste a qualunque testo si voglia inserire e che non ha bisogno di altre spiegazioni. Lo stesso approccio delle tavole più canoniche, dal taglio spiccatamente cinematografico, denota una scelta estetica e narrativa ben precisa: quella di inserire il lettore in un contesto familiare da “film d’azione”. Questa scelta giustifica l’insistenza di Recchioni nel voler fare un fumetto Bonelli a colori. Diversamente non si sarebbe potuto portare avanti questo discorso.

Allora cosa c’entrano gli shonen (che tra l’altro sono pure in bianco e nero)? C’entrano perché la differenza fondamentale tra il fumetto occidentale e quello giapponese è che, laddove la nostra cultura ha sempre assegnato il posto più alto nella gerarchia comunicativa al testo scritto, nei manga, e negli shonen in particolare, l’immagine è investita della responsabilità narrativa maggiore (d’altra parte gli ideogrammi altro non sono che disegni, per cui il mezzo di comunicazione principale nipponico è proprio quello) esattamente come il trauma di Rosa è espresso tramite l’uso del rosso e delle scelte stilistiche degli autori ospiti. Orfani è uno shonen in quanto tutto quello che può essere narrato per immagini viene narrato per immagini.

Si tratta di una scelta giusta? Chi lo sa? Dopotutto è una filosofia d’approccio che può essere valida come un’altra. Probabilmente una prosa ben calibrata avrebbe raggiunto lo stesso effetto. Da parte mia però mi limito a far notare che un fumetto in Occidente viene considerato un successo quando supera le 100.000 copie (o anche meno) mentre il numero 80 di One Piece ha venduto quasi tre milioni di copie in Giappone.

P.S. Pare che alla fine mi sia dimenticato di scrivere se E non avrà paura sia o meno un bel fumetto. Cose che succedono.

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