Macumba: ancora i fantasmi di Mattia Iacono
Opera seconda di Mattia Iacono, che torna, sempre per Tunué, con un’altra storia di demoni, che vengono dalla quotidianità e dagli oggetti di tutti i giorni.
Macumba: denominazione di particolari riti, proprî dei culti spiritistici del Brasile, di natura sincretistica, derivati da tradizioni sia africane sia amerindie: sono volti a ottenere la liberazione dal male e consistono in danze accompagnate da musiche e canti spinti fino al parossismo, per giungere a stati di estasi o trance ritenuti prova della possessione da parte della divinità o degli antenati.
(da www.treccani.it)
Per primi erano stati i libri a condizionare la vita delle persone, e a farle incrociare in modo strano, attraverso uno strano carretto che vende volumi usati (e non solo).
All’incirca dallo stesso carretto il signor Bellini, un archeologo che insegna storia all’università, di cui non sapremo mai il nome di battesimo, compra tre strane pietre, la cui aura fucsia collega il mondo reale a qualcos’altro.
Dell’acquisto scopriamo solo alla fine, quando il carrettino, simile a quello che vendeva le copie di Babadush, compare e, con un improvviso flashback, ripropone e compendia tutte le sensazioni che abbiamo trovato nella storia.
Alcune positive, come quelle percepite nel negozio del russo Boris, che ha una cicatrice che gli attraversa tutta la faccia (e oltre) ed è proprietario di una parafarmacia non dissimile dall’antro di una fattucchiera.
Altre meno, come quelle emanate dal vecchio e inquietante mendicante con la pelle viola che lancia (lui sì) la sua macumba al nostro protagonista (anche se il suo biri-biri inizialmente non sembra così pericoloso).
Una storia quotidiana che incrocia la banalità della donna delle pulizie o dei bollettini per pagare il condominio con un sentore di soprannaturale, graficamente caratterizzato dal colore fucsia.
Con questo soprannaturale si scontra il professore universitario, arrabbiato con il mondo, perché ha dato tutto al lavoro e non ha avuto in cambio nulla, visto che l’archeologia gli ha chiuso la porta in faccia, dopo che lo aveva fatto anche la sua donna, proprio a causa del lavoro.
Oltre a non fare il lavoro che sognava, vive giorni tutti uguali, e, all’interno di uno di questi giorni banali, dopo il solito tram, la solita pizza, a causa di una sbornia fuori programma, improvvisamente si trova in una escalation di eventi che avrà un epilogo inatteso.
Una storia come tante, fatta di frustrazioni esistenziali («sono diventato una mozzarella»), solitudini, pseudonotizie e film nella TV ancora più opaca della realtà (splendida la citazione de I soliti sospetti), pizze con le acciughe.
Una storia che improvvisamente cambia (per i biri biri del vecchio?) e che si alterna tra i colori smorti e pastello di una esistenza grigia, e la tricromia (bianco-nero-fucsia) di un mondo parallelo, più vivido di quello reale, che però porta alla morte.
Una storia che sembra uscire dal grigiore nel modo più semplice, con una serena giornata trascorsa con il Dottor Cabrera, una sorta di custode del condominio, dottore solo per soprannome, che nel suo consueto giro di personaggi inconsueti (Boris, Lafayette) sembra rappacificare il protagonista con il tran-tran quotidiano che per lui è stato finora solo fonte di frustrazione.
E quando tutto sembra a posto, quando la normalità sembra ormai acquisita, anzi, sembra vicina una vera e propria catarsi del protagonista, l’imponderabile diventa ineluttabile.
Quando ormai la maledizione sembra aver mancato il suo effetto e Bellini sembra aver aggirato o superato ogni ostacolo, è la banalità del male a colpire, la pochezza e la piccolezza di un evento (anzi, la concatenazione di eventi banali) che forse con la macumba non ha nulla a che fare, o forse sì…
Così il destino colpisce, e colpisce duro. Portando a compimento le piccole storie che si sono incrociate fino al… merluzzo arrosto. Lasciandoci in fondo il dubbio se la macumba sia causa di questo male o cerchi di portarlo via.
L’opera di Mattia Iacono è ancora una volta interessante. L’autore ha mescolato in modo accattivante tanti elementi nella trama: la solitudine e la quotidianità dei personaggi con la magia e il soprannaturale, tra l’altro pescando da diverse tradizioni culturali (An Puch è una divinità Maya della morte). Le persone sono interessanti nella loro semplicità, con relazioni significative. Dolcissima quella tra Cabrera e la moglie Guendalina.
Iacono evidenzia anche la pazzia che permea la vita di ciascuno di noi, dentro e fuori. Ma accanto a questa pazzia intrinseca veleggia l’imponderabile, e anche un po’ onirico, mondo trascendente, con cui tutti dobbiamo avere a che fare, alla fine anche il razionalissimo e previdente “Dottor” Cabrera.
Graficamente Iacono usa il colore per separare i due piani del reale e dell’onirico/magico, non delinea le vignette, che vengono squadrate direttamente dai colori delle scene. Il disegno è stilizzato, ma non per questo meno completo o dinamico. Anzi. Gioca con i dettagli e le inquadrature.
La sensazione di essere in un film è forte. Un film che ricorda un po’ quella vena intimista che ha caratterizzato larga parte del cinema italiano a cavallo dell’anno 2000, ma con un respiro in fondo più positivo. Come era accaduto anche nell’opera precedente, pur senza un finale e vissero tutti felici e contenti, l’uomo è alla ricerca delle sue energie migliori e le trova.
Anche se un giorno qualunque può succedere che sia l’ultimo.