Wednesday Warriors #34 – da Silver Surfer a Hulk

In questo numero di Wednesday Warriors: IMMORTAL HULK #19, SILVER SURFER: BLACK #1 e l’arrivo di FIRST ISSUE!

TEAM UP!
Attenzione fedele lettore dei Guerrieri del Mercoledì, ti attende una eccezionale novità!
Da questo numero i Wednesday Warriors si alleano all’altra grande tribù di True Believers del web italiano: gli amici di First Issue, rubrica de Lo Spazio Bianco dedicata ai “numeri uno” del fumetto USA.
ASSEMBLE!

In questo numero di Wednesday Warriors:

Gufu’s Version

IMMORTAL HULK #19 di Al Ewing e Joe Bennett

Esistono diversi modi di declinare l’orrore, inteso come genere narrativo, che possono essere sintetizzati in due tipi di approcci: c’è chi predilige un racconto più ricco di sottotesti, psicologico, che lascia intendere senza mostrare e che preferisce instillare inquietudine – quel prurito alla nuca – facendo leva sull’immaginazione e sulle paure più intime del lettore; c’è chi invece preferisce darci un pugno nello stomaco, che punta a disgustare, spettacolarizzando la narrazione esplicitandola in un crescendo gradguignolesco di elementi splatter.

All’interno di questi due estremi si colloca l’Hulk di Al Ewing e Joe Bennett.

Sin dalla sua nascita Hulk è sempre stato una metafora del rapporto conflittuale tra ragione e istinto, tra umanità e inumanità, tra le istanze sociali di Banner e gli istinti puramente autoconservativi e asociali di Hulk: un orrore visto come metafora del conflitto interiore uomo/mostro dentro ognuno di noi.
Questo conflitto si è sviluppato, allargandosi su più fronti, grazie alla tanto lunga quanto seminale gestione di Peter David che ha legato indissolubilmente ogni aspetto del Golia di Giada a un frammento della complessa psiche di Bruce Banner.
Al Ewing, che non è uno sprovveduto, ha giustamente deciso di radicare il suo Hulk proprio nel lavoro di Peter David per approfondirlo e ribaltarlo: laddove David aveva utilizzato Hulk per esplorare l’umanità di Banner, Ewing esplora il concetto stesso di mostruosità. Cos’è un mostro? Come lo identifichiamo?

Un’indagine sulla mostruosità che Ewing non limita a Banner/Hulk ma che viene estesa al cast di comprimari, storici e non.
Con una riflessione molto simile a quella che Robert E. Howard fa con Conan – contrapponendo un ideale barbarico alla civilizzazione contemporanea – gli autori di Hulk si interrogano sul concetto di non-umanità ritornando a quel conflitto di cui sopra, quell’istinto autoconservativo che in qualche modo stride con le istanze etiche di un’umanità comunemente intesa. Un istinto che si incarna in questa ultima, incredibile, versione dell’Abominio: un “mostro” minaccia e chiede morte allo stesso tempo.

Questa esplorazione viene declinata dal team creativo in maniera volutamente sopra le righe, urlata: Joe Bennett riprende lo stile che portò la EC Comics a dominare il mercato dei comics durante gli anni 40/50, integrandolo a un tratteggio fitto che rimanda agli incisori del XIX secolo,  come William Blake e Gustave Doré, il tutto inserito in una composizione contemporanea che vede il multiquadro delle vignette come fattore narrativo determinante. Una soluzione che conferisce alle immagini una tridimensionalità terribilmente efficace e che dona profondità al racconto orrorifico costringendo l’occhio a indugiare sui particolari più raccapriccianti.

L’orrore di Ewing e Bennett si colloca quindi più dalle parti del pugno dello stomaco che non da quelle del racconto più psicologico ma utilizza la forza delle sue immagini per veicolare una serie di riflessioni che sono ben lontane dall’essere concluse.

Bam’s Version

SILVER SURFER: BLACK #1 di Donny Cates & Tradd Moore.

Si può solo immaginare quanto sia difficile approcciarsi ad un personaggio complesso come Silver Surfer – specialmente nell’anno della scomparsa di Stan Lee, il suo creatore, che lo ha spesso indicato come uno dei suoi personaggi preferiti e senz’altro come il suo più profondo. Il Surfer era portavoce delle visioni filosofiche di Lee, delle sue idee più mature ed elaborate, complicate. Nato dalla matita, estensione della mente geniale di Jack Kirby, stanco di disegnare navicelle spaziali, l’Araldo di Galactus squarciò la tela immacolata della cultura pop e dell’Universo Marvel come faceva Lucio Fontana. Da parte i supereroi con superproblemi, il Surfista Argentato divenne la grande figura tragica in un mondo colorato e apparentemente spensierato, un filosofo dotato di immensi poteri cosmici, disgraziatamente separato dalla vastità del cosmo, dalle innumerevoli galassie. Il suo amore e la sua pietas per i Terrestri – che lo guardano dal basso e lo disprezzano, lo temono, alieno com’è – lo condannarono ad una vita lontana dalle stelle. Un sentimento malinconico, triste, nobile, come quello di un surfista separato per sempre dalle sue onde.

Dal 1966 al 2019 sono trascorsi 53 anni e di correnti cosmiche, sotto i ponti, ne sono passate abbondantemente. Per un personaggio che ha vissuto il proprio “Omega” ben due volte – nel 1988 con Parabola di Stan Lee e Jean “Moebius” Giraud e nel 2007 in Requiem di J. Michael Straczynski e Esad Ribic – il Surfista d’Argento ha ancora molto da dire. Sarà perché l’industria a fumetti risulta spesso più vasta ed indecifrabile dei misteri spaziali che Surfer affronta. Dopo la lunga gestione firmata Dan Slott & Mike e Laura Allred, una reinterpretazione a la Doctor Who del personaggio, e la breve parentesi-reunion dei Defenders di inizio 2019, Silver Surfer passa nelle mani dell’autore più caldo del momento, il nuovo golden boy della Casa delle Idee Donny Cates, scrittore Texano che guida il suo Venom verso territori inesplorati e, allo stesso tempo, si sta impegnando nel ricostruire il panorama di testate cosmiche Marvel.

Nella sua pluri-acclamata Thanos, Cates scrisse un Norrin-Radd da un futuro remoto impugnava Mjölnir e dominava l’Onda Annihilation, ammantato non più d’argento ma di nero; in Guardians Of The Galaxy, invece, il Silver Surfer tornò al suo tradizionale incarnato, prendendo parte al concilio galattico tenutosi dopo la dipartita di Thanos – il “la” alla già citata operazione di ricostruzione cosmica dell’universo Marvel. Per Donny Cates approfondire il suo discorso riguardante il Surfista Argenteo era solo questione di tempo e Silver Surfer: Black rappresenta il momento adatto per fornire la sua interpretazione del personaggio. Idealmente posta a metà proprio tra il suo Thanos e Guardians Of The Galaxy, Silver Surfer: Black si pone l’obiettivo di colmare un gap di continuity fondamentale alla visione d’insieme dell’autore – e di raccontare una meravigliosa, distruttiva e folle storia cosmica nel frattempo.

Attenzione a non sottovalutare l’importanza della personalità di un autore in fase di lavoro. Cates è un bad boy dal cuore d’oro, capigliature poco pettinate, giacche in jeans e t-shirt, tatuaggi, barba ispida. Il suo approccio e il suo modo di fare ricorda quello delle rockstar. Ama far propri i personaggi che scrive, modificandone la storia, toccandone la continuity nei punti salienti. Cates sa diventare protagonista sottolineando quanto siano affascinanti e complessi i personaggi che scrive. A fargli da contraltare, troviamo l’artista scelto per Silver Surfer: Black, Tradd Moore. Artista dalla personalità timida e sommessa, Moore vive le sue origini ad Atlanta, Georgia, sognando Takashii Mike, gli X-Men, Matrix e Silver Surfer (che coincidenza). A questa figura esile da ragazzone pacifico e geek, Moore preferisce far parlare la sua esplosiva personalità artistica, l’energia unica dei suoi movimenti fluidi, delle sue linee curve, la potenza del suo vibrante storytelling. Cates e Moore si completano come poche altre coppie attuali nel mondo del fumetto: le prime venticinque pagine di Silver Surfer: Black mostreranno uno splendido equilibrio creativo. Questo Silver Surfer prende la sua pesante eredità e si rinnova.

La minacciosa e meravigliosa sequenza iniziale si staglia in un momento non precisato del tempo. Adombrato dalla gigantesca figura di Galactus, Silver Surfer riflette sulla sua natura e sul suo ruolo di Araldo per il Divoratore di Mondi. Le onde curve della fisionomia aliena, i movimenti sinuosi della figura del Surfista lo staccano dalle interpretazioni classiche di John Buscema o di alcune iconiche illustrazioni di Joe Jusko. Quello di Tradd Moore è un Surfer alieno, vibrante e fluido – un corpo di mercurio che a stento contiene l’energia Cosmica al suo interno, ne riflette le imperfezioni e i tremori. Lo stile adottato da Donny Cates è pomposo, regale ed egregio. Silver Surfer espone il suo dramma e il fuoco che gli brucia la mente: essere associato alla morte, a Galactus, marca lo spirito del Surfista, che sente sempre di più il peso della sua inerzia, del suo essere spettatore dei terrificanti banchetti cosmici del suo padrone. L’Araldo Argentato di Galactus non si perde d’animo, fa della sua tragicità scudo e motore e, in un pianto disperato, diventa un piccolo punto bianco in una vignetta nera, accompagnando il lettore nel presente, introducendolo al vero nucleo del fumetto.

Personaggi più o meno noti del cosmo Marvel vengono risucchiati da un buco nero, evento raccontato dallo stesso Cates nel già citato #1 di Guardians Of The Galaxy. La fitta continuity dell’autore non limita, tuttavia, la narrazione, che apre una finestra sulla mente del Surfista, costretto ad attingere ad ogni goccia del proprio potere cosmico per salvare i suoi alleati. Mentre Cates descrive di atomi che si spezzano, vortici galattici che si avvolgono intorno ai personaggi e di “scaglie di realtà che esplodono in detriti di fantasia”, Moore mette in scena la deflagrazione con ineguagliabile energia, un tripudio di forme e colori, scelti dal maestro veterano Dave Stewart – scelta peculiare e praticamente perfetta. Le onde cinetiche, la cura per i dettagli, le anatomie piegate al movimento universale della tavola diventano impossibili da ignorare, impossibili da non osservare al microscopio, in alcuni casi: Moore unisce le minuzie della tavola di Katsuhiro Otomo a Kirby Krackles, la ricerca del movimento costante e fluido dell’azione non costringe al sacrificio la dovizia di particolari nelle espressioni del viso, con un Surfista che, piano piano, sente lo sforzo e le energie abbandonare il suo corpo argenteo.
Sullo sfondo, un costante turbine di colori si sostituisce allo spazio bianco tra le vignette – la storia occupa tutto lo spazio possibile, illustrando al meglio l’esplosione pop Marvel-style di una faglia spazio-temporale.

Nell’oscurità che avviluppa le pagine successive, il Surfista si risveglia, cullato dalle parole di Cates, mai come in questo fumetto sommesso, malinconico, eppure nobile e determinato, come il Silver Surfer che cerca di portare a galla dall’oscurità. Anche Moore, fuori dal delirio cosmico, lascia spazio al protagonista di ricomporsi; la gestione del nero e del bianco, contrastanti, diventano funzionali alla trama, ne rispecchiano la dicotomia. Silver Surfer, cosa porta con sé, la luce o l’oscurità? La morte o la speranza? Alla base di Silver Surfer: Black c’è una domanda ontologica, rispettosa del personaggio originale di Kirby e Lee, che si interroga sulla propria natura in maniera matura, conscia, sebbene immerso in un mondo straordinario, spettacolare, rumoroso e vivace.

L’arrivo del Surfer su un nuovo pianeta apre ad una seconda sequenza action, possibilmente ancor più stupefacente della precedente. La Tavola del protagonista diventa un’arma leggiadra e devastante, che vola da una vignetta all’altra, una master class in sequenzialità raccontata dalla ritrovata risoluzione del Surfista di Donny Cates. Una volta rivelata la peculiarità della trama e il mistero che farà da filo conduttore a tutta la mini-serie, Silver Surfer: Black #1, albo d’esordio perfetto, ha il tempo e lo spazio per un’altra, enorme splash page, che sembra richiamare l’inizio dell’albo. Sia luce o buio, bianco o nero, il Surfista non sembra in grado di staccarsi dall’ombra della Morte.

First Issue!

BATMAN: LAST KNIGHT ON EARTH #1 di Scott Snyder e Greg Capullo (di Simone Rastelli)

La messa su tavola di questi mondi e di questi straniamenti costituisce largamente la componente più solida di questo debutto: Capullo, Glapion e Plasciencia lo rendono con plasticità dei corpi e materialità degli ambienti, così da creare un contrasto fra questa e la componente di irrealtà della vicenda. In conclusione, un racconto solido ma costruito per accumulo lineare e pedissequo di elementi, che accompagna il lettore passo dopo passo e, così facendo, crea sì momenti di stupore momentaneo, ma mai di sorpresa profonda, che cioè mettano in crisi il lettore.
LEGGI LA RECENSIONE COMPLETA QUI

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