Wednesday Warriors #32 – Da Doomsday Clock a Heroes in Crisis

In questo numero di Wednesday Warriors:

Bam’s Version

DOOMSDAY CLOCK #10 di Geoff Johns e Gary Frank

«Sto pensando a come il nostro universo debba apparire da una prospettiva super-dimensionale. Piatto. Completo. Eppure con infiniti inizio e fine. Sempre diverso.  La storia è lineare, ma posso saltare da una pagina all’altra. Seguendo un ordine e una direzione qualsiasi. Avanti nel tempo, verso la Conclusione. Indietro, verso la scena iniziale. I personaggi non sembrano consapevoli di essere osservati da me, ma i loro pensieri sono trasparenti, contenuti in nuvolette senza peso. È così che il continuum bidimensionale appare ai vostri occhi. Immaginate come deve sembrare il vostro mondo 3-D a me.
Le vostre pagine già scorse, le vostre continuity future. Conosco le vostre origini. Le identità segrete che nascondete persino ai vostri cari. Posso leggere i vostri balloon di pensiero. So cosa avete in mente di fare

Parlare di Doomsday Clock #10 con una citazione tratta da Multiversity #4 dev’essere una sorta di contorto loop mentale – due opere scritte da autori profondamente diversi, accomunati dall’incredibile rilevanza storica e narrativa dei propri contenuti. Entrambe le opere sono altrettanto accomunate, però, dal loro punto d’origine, dall’analisi e cura nella dissezione delle formule, tematiche e strutture del colosso del fumetto che li ispira, Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons.

Ma se la Pax Americana di Grant Morrison e Frank Quitely propose una ri-narrazione di Watchmen, una sua visione alternativa, una distorsione dell’opera prima, Doomsday Clock ha saputo evolversi e camminare lontano dal tracciato di Moore e Gibbons, offrendo un vero e proprio seguito ad un fumetto che, di sequel, non ne aveva bisogno. Il giorno del suo annuncio, Doomsday Clock spaccò il pubblico in due: l’inserimento dei personaggi di Watchmen e soprattutto del Dottor Manhattan nella continuity tradizionale DC Comics fece gridare allo scandalo – ultima mossa di una disperata (?) direzione editoriale senza più inventive ed idee; allarmismi e dichiarazioni sciocche, figlie di chi legge di fumetto ma, concedetemi il termine, non lo capisce mai fino in fondo.

Con soli due numeri a separare la storia dalla conclusione, Geoff Johns e Gary Frank pongono il Dottor Manhattan al centro del palcoscenico, assoluto protagonista di questo imponente decimo numero. La storia comincia con una delle tante sottotrame che il team creativo ha costruito lungo il corso della storia – la vita di Carver Coleman, attore della Golden Age Hollywoodiana ed interprete del personaggio Nathaniel Dusk, investigatore pulp degli anni ‘30. Fino ad oggi, Coleman non aveva avuto particolari interazioni con l’Universo DC. La sua presenza nella trama sembrava marginale e, in certi passaggi, addirittura invadente – eppure, l’arrivo del Dottor Manhattan nel “nostro” Universo DC cambia la vita di Carver Coleman. Come un angelo custode, Manhattan sfrutta la sua onniscienza multiplanare per ritoccare la vita di Coleman, guidandolo nel suo percorso.
Johns semina i primi indizi: Manhattan misura i suoi poteri, mettendoli in diretto contatto con elementi esterni al suo mondo. “La galassia meno complicata” diventa alterabile e malleabile e, lontano dal giogo di Moore e Gibbons, Manhattan assume un ruolo metanarrativo andando ad intervenire direttamente nella vita di un personaggio reale, basato e rielaborato a sua volta da una creazione a fumetti di Don McGregor e Gene Colan. “Nathaniel Dusk” assume dunque un ruolo fondamentale in “Doomsday Clock”.

La griglia a nove vignette Watchmen-iana sembra, mai come in questo numero, stare stretta a Gary Frank, che gioca con le inquadrature, il movimento dei personaggi e il loro posto nell’Universo proprio come Manhattan. La narrazione diventa serrata, la mente dell’Uomo elevato a Dio fugge in continuazione attraverso il flusso temporale, risucchiato e attirato dall’arrivo del primo Supereroe. Il 18 Aprile 1938, un Uomo d’Acciaio distrugge un’auto contro una roccia, un’immagine che tutti abbiamo impressa nella mente, che decora la copertina di “Action Comics” #1, la prima apparizione di Superman. Quel giorno, il Dottor Manhattan era presente. Il lettore volta pagina ed assiste alla nascita di un Universo, ancora al fianco di Manhattan. Nasce la Justice Society Of America: Alan Scott, Jay Garrick, Jim Corrigan, Wesley Dodds assumono le loro identità segrete, ispirate dall’arrivo dell’Azzurrone. Qualche vignetta dopo, più nulla. L’Uomo d’Acciaio debutta ancora – 1956, poi 1986, poi ancora, avanti con gli anni, osserviamo Superman rinascere dopo il Flashpoint. Il Dottor Manhattan di Geoff Johns e Gary Frank è testimone di ogni singolo avvenimento…e non riesce a darsi una spiegazione.

Come un lettore frustrato, incapace di venire a capo di un mistero multidimensionale, Manhattan osserva l’Universo fermarsi e ripartire, annullarsi e trasformarsi, Crisi dopo Crisi, evento dopo evento, Superman dopo Superman: l’unica costante di un mondo in costante cambiamento. Per un essere che ha trasceso il concetto di umanità, osservare l’Uomo d’Acciaio potrebbe sembrare quasi un affronto. Perché tutto sembra tornare a Superman? Perchè, nonostante i più grandi cambiamenti e le più piccole divergenze, Superman resta al centro di un intero Multiverso.

Come il Capitan Atom di Grant Morrison in Pax Americana, il Dottor Manhattan di Geoff Johns e di Doomsday Clock osserva l’Universo DC come il lettore sfoglia le pagine di un fumetto. Ma Pax Americana lavorava nei termini Multiversali istituiti da Morrison e perdipiù non veniva apertamente sfidato dalla sola presenza di un Superman. In Doomsday Clock, Manhattan si dimostra umano e capriccioso: gioca con la linea temporale, disfa un Universo in suo nome per osservarne la reazione scientifica. Come l’orologiaio che rappresenta, Manhattan smonta i pezzi di un meccanismo perfetto per riposizionarli a suo piacimento, osservando gli ingranaggi incastrarsi, incepparsi e smettere di funzionare per poi ripartire, trovando la loro quadratura.
La creazione del concetto di Metaverso non è da sottovalutare – le teorie postulate da Johns in questo numero cambiano radicalmente la visione del Multiverso DC Comics. L’autore sfrutta il suo ruolo e, in questo costante via-vai metanarrativo, agisce tramite Manhattan. Deduzioni e ritocchi di una penna che scrive un fumetto ancora non pubblicato diventano azioni tangibili ed esperimenti di un personaggio su carta. Le forme, i muscoli e i movimenti della matita di Gary Frank incontrano il risultato e la reazione una volta inseriti all’interno delle vignette.

Doomsday Clock #10 arriva dopo giorni, mesi di ritardo nelle fumetterie statunitensi – il lettore non sa che, una volta aperto, la propria concezione delle macrostrutture di un universo narrativo a lui caro stanno per essere rivoluzionate. Sebbene possa sembrare esagerato parlare così di sole trenta pagine, Johns e Frank consegnano alla storia un numero eccezionale, narrato sapientemente, che chiude fili lasciati sospesi anni addietro, spiega con maestria e dovizia di particolari la storia di uno scontro destinato a scuotere le fondamenta di quello stesso universo narrativo. L’Oggetto Inamovibile contro la Forza Irresistibile, il Dio Inerte contro l’Uomo d’Azione. Il Dottor Manhattan contro Superman… sublimazione e legittimazione della fan-fiction.

Gufu’s Version

HEROES IN CRISIS #9 di Tom King e Clay Mann

Perché SÌ

Una crisi che non è una Crisi
Un fumetto con i supereroi che non è un fumetto di supereroi
Un evento che non è un Evento.

O, quantomeno, Heroes in Crisis non è quel tipo di evento che l’ufficio marketing di una casa editrice come la DC Comics è preparato a gestire.

Il nono e conclusivo numero della miniserie di Tom King e Clay Mann ha decisamente diviso pubblico e critica, contando una significativa maggioranza di pareri e commenti negativi. Al momento in cui scrivo, infatti, raccoglie un poco edificante 5.6 su Comicbook Round Up (il Rottentomatoes dei comics) e diversi commenti negativi dei fan sui social (uno dei quali lo abbiamo fatto articolare proprio qui sotto da Alessandro Altosole).

I motivi di tale scontento sono molteplici e, a volte, anche argomentati ragionevolmente, ma possono essere riassunti in due parole: aspettative tradite.

Abbiamo una storia che è stata pubblicizzata come il più classico dei maxi eventi proposti periodicamente dalle major; la stessa parola “Crisis” in DC è sinonimo di conflitti epocali e trame dalle proporzioni ciclopiche. Generalmente queste storie vengono precedute da un’intensa campagna promozionale che introduce e spiega gli eventi a venire, una serie di introduzioni che preparino il pubblico: miniserie, anteprime, tie-in e tutto il corollario che il fan del fumetto supereroistico conosce bene.
In questo caso è stato invece anticipato davvero poco: l’esistenza di questa struttura supersegreta, chiamata Sanctuary, destinata al trattamento psichiatrico di eroi e criminali vittime della loro stessa vita sopra le righe.
Ad aggiungere sconcerto e confusione, il primo albo si apre con la distruzione della stessa e ci mostra i risultati di una carneficina: non vengono spese pagine per spiegarci i dettagli sul funzionamento del santuario, né, come le regole del whodunit imporrebbero, ci vengono dati indizi sulla scena del delitto e sui possibili colpevoli. E questa “mancanza di appigli” procede per tutti i successivi otto albi. A complicare ulteriormente il tutto abbiamo una trama principale imperniata sui viaggi nel tempo e che vede protagonisti due versioni identiche dello stesso personaggio. Un vero e proprio mal di testa.

Questa anticonvenzionalità ricercata si riflette anche nell’uso che i King e Mann fanno del linguaggio fumetto, una fuga dalla descrizione didascalica in cerca di un racconto imperniato sull’ellissi, o se preferite sulla Closure. In questo caso valgono anche qui le considerazioni già fatte precedentemente per Batman QUI .

Il risultato finale è così destabilizzante da far scrivere a uno dei miei contatti social, uno dei detrattori di cui sopra, la seguente frase:
“…non mi sento a casa, non esiste alcun punto di riferimento, è tutto straniante, distorto, rielaborato. Ma nessun grande fumetto supereroistico degli ultimi decenni è stato scritto in questo modo.”

Questa, che vuole essere una dura reprimenda nei confronti delle scelte del team creativo di Heroes in Crisis, si trasforma ai miei occhi in una delle più edificanti chiavi di lettura della serie e di questo ultimo numero potenzialmente rivoluzionario.
Al netto dei citati errori grossolani di promozione e del nostro gusto personale che ci fa apprezzare o meno questo fumetto, non si può non ammettere il fatto che Heroes in Crisis abbia, di fatto, introdotto un nuovo paradigma nel fumetto supereroistico.
Il super-eroe è anche super-vulnerabile e il suo destino, il dato che lo definisce in quanto eroe, non è più quello del sacrificio quanto quello di venire a patti con le proprie debolezze.
C’è qui un bizzarro parallelo con il Captain America di Endgame: anche lì l’eroe smette di essere tale, di sacrificare i propri bisogni sull’altare di un bene superiore, e sceglie di concludere la sua vita in maniera completamente umana. Parimenti, nella miniserie di King e Mann, l’eroe viene convinto a non commettere il sacrificio finale ma a confrontarsi con le conseguenze della propria fallibilità.
“Convinto” qui è la parola chiave: non c’è un villain classicamente inteso e la risoluzione della trama non passa per una scazzottata più o meno grossa. Siamo di fronte a una dinamica inusuale – sebbene non inedita – che trova il suo precedente nell’Identity Crisis di Brad Meltzer e Rags Morales. Non a caso anche quest’opera, alla sua uscita, ricevette critiche durissime (che convinsero Meltzer a tornare alla narrativa) per poi essere rivalutata ai nostri giorni.
Se Watchmen aveva postulato l’impossibilità per il supereroe di essere sano di mente Heroes in Crisis propone la possibilità di una cura: che consiste nel tornare pienamente umani. Che è sostanzialmente una delle chiavi di lettura di un’altra opera di Tom King: Mister Miracle
Non si faccia però l’errore di considerare Heroes in Crisis come “l’opera di Tom King”, il lavoro di Clay Mann e Tomeu Moray è ben più di una semplice interpretazione dello script ma si distingue come determinante nella resa finale tanto da “costringere” due artisti di rilievo come Lee Weeks e Mitch Gerads, ospiti in alcuni capitolo della serie, ad attenersi alla linea impostata dal talentuoso disegnatore di Orlando.
Clay Mann, finalmente svincolatosi dal fardello delle influenze di Oliver Coipel, riesce a modulare i canoni del fumetto supereroistico in funzione di una narrazione più compassata ed emotiva facendo leva sul linguaggio del corpo e sull’espressività dei volti – fondamentali nelle sequenze del confessionale – e sfruttando la profondità di campo per illustrare dei campi lunghi alla John Ford. Il lavoro di Morey, sopratutto in questo ultimo numero, parte quasi sempre da una base giallo/arancio caratterizzata da forti luci e ombre sfumate, che amplificano il tono crepuscolare della storia.
Heroes in Crisis è una storia che avrebbe potuto fare La Storia, che avrebbe potuto operare un cambiamento determinante nel raccontare il fumetto supereroistico, ma che non lo farà, così come non l’ha fatto Identity Crisis. Il motivo principale, a mio parere, è che manca un determinante primo livello di lettura, quello più superficiale ma non per questo meno importante, fondamentale al lettore per “entrare” nell’opera, che lo convince a rileggere per poterne poi afferrare i significati profondi.
Ma fu Howard Chaykin in un’intervista di una ventina di anni fa a dire “chi l’ha detto che un fumetto deve essere facile da leggere?”

Extra Version

Perché NO (di Alessandro Altosole)

“Puddlers skin the molten metal, remove the impurities so the iron can be strong”
“Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e non esistono.”

La trinità DC è nata durante la Golden Age, periodo in cui i supereroi erano esseri perfetti che dovevano non solo salvare vite ma anche e sopratutto essere fonti di ispirazione per il comune cittadino. Dopo gli anni 40 si è sentita l’esigenza di andare oltre quella formula e si è spinto sempre più verso l’umanizzazione del supereroe, arrivando oggi a quello che il buon Gufu ha definito in varie occasioni come “nuovo umanesimo supereroistico”.
Ma i supereroi vogliono essere umanizzati? Possono permetterselo? O diventare troppo solo simili a chi devono salvare finisce per danneggiarli? Queste sono le domande che Tom King si è posto nel corso della sua personale Crisi DC, nel mentre ci mostra cosa succedeva dentro il Santuario e come mai si è arrivati ad un massacro dei suoi pazienti.

La trinità di King si rivela figlia succube del proprio tempo. Non può concepire l’esistenza del difetto perché il supereroe deve essere perfetto se vuole salvare vite e ispirare i più deboli.
E se poi il problema emerge lo stesso bisogna essere capaci di non farlo percepire, perché se la sostanza manca quantomeno si può compensare con l’apparenza.
Si può quindi capire molto bene quanto affidare la realizzazione di una struttura di aiuto psicologico a Batman, Superman e Wonder Woman sia l’equivalente di far costruire un palazzo ad un criceto. Magari ci riesce, ma è molto probabile che le fondamenta crollino al primo soffio di vento.

Ed il santuario che ci presenta Tom King è appunto prodotto di tutte queste distorsioni.
La struttura è isolata, il personale medico assente ed il contatto umano inesistente.
Ogni eroe è lasciato in balia di se stesso, alla ricerca autonoma di una soluzione al proprio problema, nel mentre l’unico contatto che ha è con dei robot e un’IA. L’esatto opposto di ciò che dovrebbe essere un vero servizio di assistenza psicologica insomma e per questo destinato ad essere teatro di una tragedia.
Una tragedia che però non smuove più di tanto la situazione. La JL fa partire subito la caccia all’uomo, perché necessita di un cattivo da punire. “our hope for redemption is now another hunt for vengeance” dice Batman, a dimostrazione del fatto che la trinità in un primo momento non riesce a fare autocritica.
E quando poi Superman decide di rivelare l’esistenza del santuario, appare evidente quanto si trovi a disagio nel farlo e nello spiegare che anche gli eroi hanno a volte bisogno di aiuto, arrivando addirittura a bloccarsi a metà discorso.
Nemmeno il “killer” sfugge a questo destino. Unico/a che si accorge delle contraddizioni alla base del Santuario, non riesce comunque ad aprirsi al confronto con altre persone, finendo per farsi la psicanalisi da solo/a, in un’ultima degenerazione di questa incapacità chiedere ogni tipo di aiuto.

In questo senso il lavoro di King è ottimo. Approfondisce quanti più pazienti possibili, cerca di dare il giusto spazio a ogni vittima e fa capire poco a poco al lettore che qualcosa non va, anche se probabilmente pecca nel mostrare troppo spesso un certo personaggio, facendo capire troppo presto chi possa essere stato.
C’è poi apparentemente un’eccessiva fretta con cui King tratta il miglioramento dei due sospettati.
Booster e Harley infatti trovano persone disposte ad aiutarli, a sentire il loro punto di vista, a far loro da spalla su cui appoggiarsi, e come se nulla fosse stato tornano magicamente alle loro vecchie personalità, come se si fosse premuto il bottone del reset.
La spiegazione finale poi usa/abusa di Booster, riempendo l’ultimo terzo di questa storia con viaggi nel tempo, paradossi e tecnologie futuristiche, che complicano la trama in modo inutile senza nemmeno che riesca poi a tornare effettivamente tutto in modo esatto (come è ovvio che sia quando si fa operazioni di questo tipo in continuity), giusto per darci un punto fermo in attesa di capire dove, come e quando qualcuno porterà avanti quanto narrato in queste miniserie.

Tutti questi difetti però hanno come minimo comune denominatore la fretta, il voler infilare tante roba, forse troppa, in una miniserie di solo nove numeri, palesemente inadatta a contenere insieme tutti i temi e le linee narrative che King e la DC hanno cercato di spremere.
Emblematica in questo senso è l’esplosione di confessioni che vediamo nel numero finale, con decine di eroi che compaiono e che dicono cose che nemmeno sono traumi (Catwoman dice solo “meow” ).
Probabilmente in una forma diversa King avrebbe potuto approfondire il tema in maniera decisamente diversa, prendendosi il giusto tempo e dando a ogni personaggio ed a ogni linea narrativa lo spazio che si meritava.
Ma come ci dice King a fine storia, dobbiamo guardare a quello che abbiamo, e Heroes In Crisis è un po come il Santuario di cui racconta la fine. Tante belle intenzioni che per un motivo o per un altro finiscono per portare a chi lo ha ideato più grane che lodi.

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