Alias 3, ovvero: come Jessica Jones uccise la Marvel Comics
Oggi tutti parlano di Jessica Jones, ma pochi ricordano che la sua serie a fumetti è stato il primo passo verso un nuovo modo di intendere la narrativa supereroistica. Oggi noi cerchiamo di spiegare come con lei Bendis abbia di fatto ricreato la Marvel, attraverso l’analisi di un albo in particolare.
Era il Gennaio dell’anno del signore 2001 d. C. e sugli scaffali delle fumetterie americane faceva la sua comparsa l’ultimo vagito della Marvel degli anni ’90.
Uno dei peggiori crossover a memoria d’uomo, Maximum Security faceva il rumore di una palata di terra sulla tomba della Marvel.
La Casa delle Idee non se la cavava niente bene, in quegli anni: la grande sbornia degli anni ’90, fatta di cover alternative, zinne e pistole, aveva portato i suoi postumi peggiori. La bancarotta era ormai diventata ufficiale e si respirava aria di crepuscolo.
Come una fenice, però, nelle proprie ceneri la Marvel covava i semi di una rinascita: e questa rinascita aveva già da un anno preso il nome di Bill Jemas.
Jemas veniva da una controllata della Marvel, la casa produttrice di figurine Fleer, e piombò nel bullpen come un alieno. E non un alieno puccioso con gli occhioni, ma una cosa più simile a questa:
Jemas pensò semplicemente che se la Marvel era in bancarotta la colpa non era soltanto del destino cinico e baro. Forse, e diciamo forse, un po’ di colpa ce l’avevano anche gli scrittori e i disegnatori che non erano più stati capaci di produrre storie degne.
Chissà se aveva ragione. Fatto sta che la sua furia iconoclasta, la sua sistematica distruzione di tutti i cliché artistici e produttivi del settore trovò, per fortuna, un filtro in Joe Quesada. I due divennero una sorta di Giano bifronte che seppe sperimentare in diecimila nuove direzioni. Novantanovemila di quelle si rivelarono assurde, insensate, stupide e inutili; ma altre salvarono la Marvel.
Una di queste iniziò nel mese di Novembre del 2001. Maximum Security era finito da poco e le pernacchie dei rivenditori ancora riecheggiavano nell’aria. Fu allora che, nell’ambito di un’etichetta creata a posta, la Marvel MAX, fece il suo esordio una serie scritta da Brian Michael Bendis e disegnata dallo sconosciuto Michael Gaydos.

Chi si ferma alla superficie dirà che non è mettendo un sacco di “fuck” in bocca ai personaggi o mostrando il sesso anale tra supereroi che si salva una casa editrice. A noi però piace andare in profondità.
Prenderemo quindi un numero in particolare, ed esattamente il numero 3, e cercheremo di dimostrare come esso contenga in sé tutto ciò che sarebbe poi successo al fumetto di supereroi Marvel.
Alias n. 3, Gennaio 2002
L’albo si apre con 9-pagine-9 di dialogo tra due persone, sedute una di fronte all’altra, nello stesso ambiente.
Nove pagine, praticamente metà albo. Ora, se la cosa non vi sconvolge, è perché forse non avete una grande idea di come possa essere difficile gestire un’impresa del genere. Lo stile Marvel classico non lesinava in dialoghi, di certo, ma faceva uso di una serie di distrattori ben precisi che servivano a scandire il tempo e a dare al lettore l’impressione che qualcosa stesse accadendo.
La tattica più grossolana (e, per questo, la più usata) era quella di “stendere” il dialogo su una serie di vignette action: mentre i personaggi lottavano, si prendevano a cazzotti o volteggiavano sui tetti, si scambiavano minacce, aneddoti o profonde riflessioni filosofiche.
Bendis, ai tempi ancora in forma smagliante, e Gaydos, con una padronanza della tavola da far invidia a gran parte dei disegnatori più blasonati di lui, si impegnano a mostrare cosa si può fare con dei dialoghi ben scritti e la capacità di metterli in scena.
Utilizzando tavole come questa, praticamente demoliscono nell’arco di poche pagine un canone narrativo che in ambito supereroistico era durato decenni. E lo fanno con una grazia tale che nemmeno ce ne accorgiamo.
Il dialogo scorre senza mai appesantire. Jessica viene interrogata a lungo, finchè qualcuno non fa irruzione nella stanza.
Chi sarà mai questo tizio?
Ovviamente l’uomo si presenta al poliziotto. Noi lo sapevamo già: è Matt Murdock. Qualificandosi come l’avvocato di Jessica, la porta fuori dalla stazione di polizia.
Altre due pagine di dialogo fuori dalla stazione di polizia. Matt Murdock non dice una sola volta di essere Devil.
La cosa, per l’epoca, era semplicemente sconvolgente. Alla Marvel si faceva di tutto, sin dagli anni ’60, per assicurarsi che il lettore fosse completamente informato su tutto quello che c’era da sapere sui personaggi che comparivano nelle pagine.
Claremont avrebbe inserito cinque o sei baloon di spiegone, Stan Lee invece se la sarebbe cavata con qualche didascalia, ma quello che è certo è che mai, mai, mai avrebbero corso il rischio che un solo lettore potesse non sapere che quell’avvocato cieco vestiva panni rossi per salvare gli innocenti nelle strade di Hell’s Kitchen!
E invece no, Bendis non ce lo dice. Un po’ perché, in fondo, è irrilevante ai fini della storia, e un po’ perché il paradigma è veramente cambiato. Bendis non scrive per un ragazzino che potrebbe aver preso l’albo in mano per la prima volta; scrive invece per l’uomo che ha letto di supereroi per decenni e che forse, chissà, queste cose le sa già e quello che cerca ora è ben altro.
A oggi mi chiedo se questo cambio di paradigma sia stato una sconfitta o una vittoria.
Una sconfitta, perché è un po’ un gettare la spugna, come se si stesse pian piano rinunciando all’idea di poter di nuovo essere quello che la Marvel era un tempo: una gran figata per i ragazzini.
Una vittoria, perché quei lettori rimasti ragazzini non erano più, ed erano stufi di essere comunque trattati come tali.
La storia prosegue quando Jessica decide di andare a chiedere aiuto alla sua amica Carol Danvers. E la trova così.
Carol inizialmente si riufiuta di aiutare la sua vecchia amica Jessica. La tratta molto male, e solo alla fine decide di aiutarla.
Poi più tardi le manderà un’email per scusarsi e per spiegare il suo comportamento:
Ebbene sì, anche le supereroine hanno le mestruazioni.
Questo modo estremamente realistico di trattare i supereroi trovava in Alias una delle sue prime manifestazioni. Potremmo chiamarlo il “realismo supereroistico”. Il mondo Marvel viene affrontato in maniera più adulta: la sospensione dell’incredulità non è più un argomento valido per giustificare qualsiasi sciocchezza venga in mente agli autori. Ciò che è importante ora non è tanto mostrare il combattimento tra i supereroi, ma le conseguenze reali che il ripetersi di tali eventi può causare nel mondo; così come viene portato in primo piano il loro vissuto come persone dotate di superpoteri, piuttosto che le loro vicende tra i pianeti. Saghe come Civil War e House of M partono dritte dritte da qui.
Così Alias appare come il manifesto programmatico della Marvel che sarebbe seguita, e che, non a caso, ha avuto in Bendis uno dei suoi principali animatori.
Oggi non ci dobbiamo sorprendere se Jessica Jones diventa la protagonista di una serie TV di successo e acclamata dalla critica. È esattamente quel tipo di personaggio adatto a mostrare le potenzialità del genere supereroistico declinato a uso e consumo del pubblico adulto dei serial televisivi.
E fa un po’ specie che un personaggio con tante potenzialità sia degno di 15 episodi di un’ora in televisione e non sia abbastanza degno di una sua serie, adulta, a fumetti.