Ta-Nehisi Coates: Between the Wakanda and me
Analisi su Ta-Nehisi Coates, l’intellettuale nero americano di riferimento sul tema della discriminazione e del razzismo, da quest’anno sceneggiatore della testata di Black Panther, passando per le divisioni interne degli Stati Uniti e il multiculturalismo della Marvel.
Siamo in America nel 1966. I fumetti Marvel sono molto letti nei quartieri neri e nei ghetti, e la gente di colore ha un disperato bisogno di modelli positivi nei quali i ragazzini possano identificarsi. Stan Lee, cogliendo lo scenario in fase di trasformazione, tira fuori l’ennesimo coniglio dal cilindro: un eroe nero, forte, nobile ed orgoglioso delle sue origini africane, l’incarnazione dell’emancipazione dai ghetti. Stiamo parlando di Black Panther, alias T’Challa, sovrano dell’immaginifico Wakanda. E dai ghetti, dalla periferia segregata di una città difficile come è Baltimora, nasce Ta-Nehisi Coates, giornalista e scrittore che negli ultimi anni è emerso come una delle penne più taglienti, originali e seguite sul tema delle discriminazioni e del razzismo. Ma che collegamento c’è tra Ta-Nehisi Coates e il noto eroe Marvel, da poco apparso anche nella pellicola Capitan America: Civil War? Oltre a essere cresciuto come tutti noi leggendo i fumetti che «rappresentavano una sorta di fuga e di libertà» e rivedendosi nella ricerca di un ruolo nel mondo di Peter Parker, è l’attuale sceneggiatore delle storie di Black Panther. Scelta tutt’altro che scontata quella della Casa delle Idee, essendo Coates estraneo al mondo del fumetto, ma premiato per ora da critica e pubblico, risultando ad aprile Black Panther#1 l’albo più venduto superando le 250.000 copie.
Di Ta-Nehisi Coates da un anno in America si parla come del nuovo intellettuale nero di riferimento, rappresentando ciò che ideologicamente in passato, senza che possa essere considerata un’esagerazione, ha incarnato Malcom X e diventando la voce della faccia disillusa della comunità nera, che sperava nell’ingresso nella fase post-racial, auspicata da molti dopo le elezioni di Barack Obama. Negli Usa, infatti, ormai è lunga la scia di sangue dei neri uccisi dalla polizia: il caso che ha portato alla ribalta la disparità di trattamento nei confronti degli afroamericani è quello di Trayvon Martin, diciassettenne nero ucciso in Florida il 26 febbraio del 2012. Il ragazzo camminava con il cappuccio della felpa in testa, atteggiamento che ha insospettito George Zimmerman, vigilante volontario della zona. Tra i due è scoppiata una lite e a un certo punto Zimmerman ha sparato, a bruciapelo. L’uccisione del teenager ha scatenato manifestazioni in tutto il Paese con migliaia di proteste, riprese anche l’anno successivo dopo l’assoluzione del vigilante. Ma ci sono anche i casi di Michael Brown a Fergusson nel febbraio del 2014, Loquan McDonald a Chicago nell’ottobre sempre del 2014, Tamir Rice a Cleveland nel novembre del 2014 e Freddie Gray proprio di Baltimora dell’aprile del 2015, quasi a voler chiudere un cerchio che inizia e finisce con la città del Maryland. Storie di vite spezzate, la maggior parte senza nemmeno aver raggiunto la maggior età, e di assassini non incriminati. E se Obama fatica ad ammettere una divisione nel Paese, Coates non ha alcun dubbio, sviluppando tutto il suo pensiero in Between the world and me, libro, di cui si può leggere un lungo estratto, scritto in forma di lettera al figlio Samori, per raccontare la propria storia, trasmettergli l’esperienza, e prepararlo alle insidie che lo attendono là fuori. Tutto questo infatti si rivela un’analisi densa, profonda e puntuale dei rapporti tra bianchi e neri negli Stati Uniti. È un libro scritto per spiegare a quelli che vivono fuori dai ghetti cosa succede al loro interno e si spreca in critiche alle idee consolidate e ai miti su cui si fonda il sistema politico statunitense, sostenendo l’idea che i neri vivono in un sistema truccato a loro sfavore e non c’è troppo spazio per l’ottimismo. Coates dice a suo figlio, senza troppi giri di parole, «non dimenticare mai che i neri americani sono stati per molto più tempo in schiavitù che in libertà». C’è del marcio in America, scrive Coates, radicato così in profondità che pensare di estirparlo è un illusione: «In America distruggere il corpo nero è una tradizione, è parte del retaggio».
Ma come la strada lavorativa di Coates si interseca con quella della Casa delle Idee? Durante il seminario New York Ideas tenuto da The Atlantic, magazine americano per cui Coates è corrispondente nazionale, trattando di temi sociali, culturali e politici, intervistò Sama Amanat, editor Marvel e meglio conosciuta come la creatrice della nuova Ms Marvel, su temi come l’inclusione e la diversità nel fumetto. Successivamente la Marvel contattò Coates e gli propose il progetto della direzione della testata di Black Panther, in team con Brian Stelfreeze. «La Marvel ha aperto le porte a certi cambiamenti» ha sottolineato Coates. «Ha inserito negli X-Men il personaggio di Tempesta, o Black Iron Man negli anni ’80, oppure ancora il nativo americano Thunderbird. Da quando sono piccolo (e Coates è nato nel 1975, ndr) conosco supereroi che non sono solo maschi e bianchi. Questo ti fa crescere da lettore in un certo modo, e quando sei adulto vorresti vedere il passaggio a un livello successivo».
Il multiculturalismo è sempre stato nel destino della Marvel, è sempre lo sarà soprattutto oggi che l’America sembra un coacervo d’identità culturali che faticano a stare assieme e in Europa sorgono sempre più barriere. Gli eroi devono unire e non dividere. Non si tratta di spicciolo politically correct, ma della presa di coscienza che gli adolescenti di oggi vivono accanto e insieme a pachistani, cinesi, siriani, indiani, albanesi. Negli Stati Uniti, come in Italia. Gli adolescenti di oggi vivono lo spaesamento, la paura e le domande su “chi/cosa sono, io?” e “qual è il mio ruolo nel mondo?” che i nuovi eroi Marvel si pongono continuamente. Si tratta, quindi, di dare una lucidata a quelli che sono i principi fondanti della Casa delle Idee declinandoli nella nuova realtà.
Ritornando al Black Panther di Coates: «il primo arco narrativo si intitola A Nation Under Our Feet e parla di una sanguinosa rivoluzione in Wakanda che costringerà T’Challa a guardarsi allo specchio, a ridefinire se stesso, quali siano i suoi valori e i suoi metodi, a chiedersi se tutto questo sia sufficiente a salvare la situazione ancora una volta», sottolinea Axel Alonso, Editor-In-Chief della Marvel. Di fatto l’intenzione di Coates è mettere in luce quelli che son da sempre i contrasti nella figura di Pantera Nera, con sensibilità più moderna, temi già cari ad altri sceneggiatori di T’Challa, come ad esempio Don McGregor negli anni ’70: «T’Challa è davvero un buon re? Non sono sicuro che gli piaccia fare il re. Questo tipo viene visto a New York in continuazione. È come se avesse sempre qualcos’altro da fare, oltre a essere re. Il Wakanda è la nazione più avanzata al mondo, con una popolazione particolarmente istruita. Perché questa dovrebbe accettare una monarchia?». Stiamo andando incontro a un Illuminismo politico in salsa wakandiana, vedremo nei prossimi mesi.
Vi preannuncio, che la serie Black Panther arriverà da noi in libreria e fumetteria in cartonati soft touch, ma la data non è ancora stata annunciata da Panini Comics.