Di Netflix e I Cavalieri dello Zodiaco, parliamone un po’

I Cavalieri di Netflix si rivelano per quello che sono: una maldestra rielaborazione dell’opera originale per un giovane pubblico occidentale. Il risultato? Un sacco di problemi, e Andromeda donna non è nemmeno il peggiore.

Una delle frasi che capita di sentire spesso, quando si parla di Saint Seiya e Toei Animation è: «ma sì, dai, si lascia guardare; alla fine pensavo peggio». È un pensiero che accompagna molti di noi sin dal 2006, quando un Rhadamanthys senza piedi girovagava per il Meikai, e che molto probabilmente troverete inciso sulla mia lapide: Qui riposa Aeris, è morta pensando che poteva andare peggio.

Questa frase, da sola, inquadra molto bene quello che è lo spirito di molti fan della serie, oggi: c’è stanchezza, ambizione alla mediocrità e alla speranza di riuscire almeno ad accontentarsi. Spiega inoltre come mai la serie Netflix sia passata praticamente inosservata anche dallo stesso fandom: l’abbiamo già dimenticata, è finita all’istante nel dimenticatoio insieme a Soul of Gold, Saintia Sho e Legend of Sanctuary, del tipo che se ne parlava di più quando doveva ancora uscire.

Ma le mie parole sono quelle di una che parla di Saint Seiya da quasi trent’anni, e Knights of the Zodiac di Netflix non è una serie realizzata per i fan storici, e non è nemmeno pensata per un pubblico nostalgico. Il suo target di riferimento è chiaro: una produzione nippo-americana per una platea occidentale, dove con “occidentale” si sottintende Nord America.

Questa consapevolezza, unita a una certa rassegnazione che ormai mi fa compagnia dal 2006, mi ha aiutata parecchio nel non prendermela; è la ragione per cui durante lo streaming non ho urlato e gridato al tradimento dell’originale e dell’infanzia come tanti altri.
La domanda giusta quindi dovrebbe essere: Knights of the Zodiac può piacere a dei bambini? È una domanda alla quale chiaramente io non posso rispondere, tutti i miei nipotini sono già stati educati alla serie storica, ma se avete dei figli ancora incontaminati magari chiedeteglielo e fatemi sapere.

Quello che posso fare, nel frattempo, è fornirvi un piccolo, ma lungo elenco dei motivi che mi hanno fatto alzare gli occhi al cielo, con una premessa fondamentale: questa prima stagione in realtà è composta da dodici episodi, se al momento ne abbiamo visti solamente sei è perché Netflix ha deciso di rilasciarla in due ondate. Il mio personalissimo giudizio su questa prima parte non cambierà, ma è inutile negare che esiste un possibile margine di miglioramento, così come il contrario, una volta che saranno rilasciati i restanti sei episodi dedicati ai Cavalieri d’Argento.

Voglio ma non posso, il target

Per capire il perché di questa operazione bisogna tornare indietro al 2003, anno in cui Saint Seiya finì per la prima volta sulle televisioni nordamericane. Il primo doppiaggio del paese è celebre per essere uno spasso: sangue blu, tagli, colonna sonora modificata, sceneggiatura che a definirla rivisitata sarebbe farle un complimento e personaggi dalla parlata esilarante; in tal senso Hyoga (Cristal) e la sua cadenza da surfista californiano sono passati alla storia. La trasmissione, inutile dirlo, ebbe talmente tanto successo che fu interrotta dopo poco più di trenta episodi, nemmeno il tempo di arrivare ai Cavalieri d’Oro, tanto per capirci. Non andò meglio neppure con un secondo doppiaggio più fedele direttamente per l’home video, e ancora oggi non esiste una versione completa e doppiata dell’anime storico, in Nord America. Questa indifferenza, per la Toei Animation, con gli anni si è trasformata in una sorta di strana ossessione da sfondamento, e Knights of the Zodiac ne è il risultato.

L’opera originale è stata quindi presa e modificata per andare incontro ai gusti di un giovane e generalista pubblico americano che, di Saint Seiya, non sa niente o quasi. Non stupisce quindi la presenza di Eugene Son in qualità di story editor, così come non dovrebbero stupire la semplificazione di diversi eventi del manga classico, la massiccia presenza di militari e l’avvicinamento al genere super-eroistico.

È dura da digerire e da ammettere, lo so, ma fin qui non ci sarebbe neppure niente di male. Le critiche che parlano di poco rispetto verso l’opera di Masami Kurumada hanno poco senso, se ci si concentra per un momento sul fatto che ci troviamo di fronte a una serie che parte con la precisa idea di declinare l’opera per un pubblico mainstream con gusti ed esigenze diversi.

Certo, c’è il dispiacere nel sentirsi completamente fuori target verso qualcosa che ami o che semplicemente ricordi con affetto, così come il rimpianto nel vedere qualcosa di intimamente giapponese svuotato da quella che era la sua essenza (una storia di amicizia e formazione personale che si fa strada a suon di mazzate, sacrifici e confronti), ma ripetiamolo prendendo un respiro profondo: fin qui niente di male.

Il problema nasce nel momento preciso in cui ti accorgi che questi primi sei episodi non hanno il coraggio di andare in questa direzione fino in fondo, dando il via ad una chiara operazione nostalgica allo stesso tempo: vengono quindi richiamati o ripescati doppiatori già legati a Saint Seiya  più o meno in tutto il mondo, a cominciare dal Giappone, passando per Italia, Francia, Messico, Brasile.

Il progetto, insomma, inizia a perdere di coerenza alle fondamenta, e la sensazione di operazione nostalgica diventa certezza non appena si realizza che la serie mantiene la stessa identica struttura del manga originale. Non aiuta nemmeno il chara in 3D, a dirla tutta, studiato e costruito a tavolino sui Myth Cloth, il più importante prodotto di merchandise legato a Saint Seiya, prodotto da Bandai e dedicato ai collezionisti adulti.

Paradossalmente, forse avrei preferito un cartone carino, scorrevole e semplice, da guardare sorridendo con tenerezza, anziché una serie che tenta in tutti i modi di ignorarmi, ma che allo stesso tempo vuole usarmi a mo’ di paracadute per vendermi qualcosa. Il risultato è un prodotto nebuloso e incerto, incoerente persino nella sua stessa genesi, che corre il rischio di non rimanere nella memoria di alcun ragazzino e che, dall’altra parte, farà solamente incazzare i fan storici.

Infinite cose da fare e così poco tempo

Questi sei episodi coprono il primo arco narrativo della serie, quello delle Galaxian Wars, dei Black Saint e di Ikki di Phoenix, il primo villain dell’opera. È una fase che tende a essere snobbata anche dagli stessi fan, a dirla tutta, e in genere non resta scolpita nell’immaginario collettivo per un’infinità di validissime ragioni. Nonostante tutto, rimane un arco tremendamente importante perché pone le basi dell’intera serie: non solo ci vengono presentati i cinque protagonisti; li vediamo scontrarsi, avvicinarsi, comprendersi, sacrificarsi ed unirsi. Senza questa fase, insomma, crolla l’intera coralità di Saint Seiya, e quindi la sua stessa identità.

Il manga originale sviluppava tutto questo in quattro volumi e mezzo, serializzati su Shonen Jump per trentotto capitoli nell’arco di circa dieci mesi; l’anime storico, pur con qualche variazione rispetto al fumetto, ci impiegava quindici episodi. Netflix, se si tolgono i tempi di opening ed ending, lo fa in meno di due ore. Aspettate che lo metto in grassetto: meno di due ore.

Sembrerà strano, ma nonostante il grassetto non è il minutaggio fine a se stesso il problema principale di questa prima parte. In un mondo dove la serialità è cambiata e dove le maratone televisive sono all’ordine del giorno, sei episodi sono tutto sommato un numero sensato, se si operano dei precisi e sensati cambiamenti strutturali; cambiamenti che, però, qui non ci sono stati.

Certo, la produzione si preoccupa un sacco di trasformare la serie sul piano visivo e di edulcorare, per non dire eliminare, tutti quei temi che nel 2019 potrebbero risultare a dir poco controversi, ma non si preoccupa minimanete di ritmo e storytelling.

Knights of the Zodiac vuole raccontare la stessa identica storia del manga classico, ma vuole farlo in sei episodi anziché quindici, dimenticandosi che la regola più importante, quando si opera una trasposizione, non è fare i riassunti dei capitoli per poi cucirli tra loro, ma è quella di smontare e rielaborare il materiale nella sua totalità, usando una narrazione o addirittura eventi diversi per arrivare al medesimo obiettivo, in questo caso l’unione del gruppo.

Il risultato è che non c’è armonia nella gestione degli eventi, così come viene a mancare completamente la sinergia e la complicità tra i protagonisti; anche perché nella fretta di riproporre gli eventi che conosciamo a mo’ di compitino, si elimina completamente il trascorso tra i personaggi. A differenza delle versioni originali, infatti, qui i protagonisti non sono cresciuti insieme, sono dei perfetti estranei che passano dall’ignorarsi al millantare di quanto sia forte il potere dell’amicizia. I personaggi non restano mai fermi troppo a lungo sulle proprie posizioni e ogni decisione non è mai sofferta proprio perché non c’è il tempo di svilupparla: la raccontano, ma non la vivono, la vedi, ma non la senti. La fedeltà ad Athena, d’altra parte, arriva alla prima occasione semplicemente perché dovuta, in barba alla storia originale dove la dea, molto banalmente, se la sudava.

Insomma, è il classico esempio di una serie che vuole cambiare tutto, ma che in realtà non cambia niente, depotenziandosi con le sue stesse mani. Uno dei suoi più grandi limiti è proprio la fedeltà alla struttura della storia originale, una struttura che non puoi permetterti di mantenere con sei episodi a disposizione, e che a un certo punto diventa obsoleta se vuoi fare qualcosa per un altro pubblico, no?

No, non funzionano nemmeno le mazzate

Potrebbe sembrare un argomento di poco conto, quello delle mazzate, ma considerando che stiamo parlando di una storia di formazione che si fa strada a suon di legnate, pestaggi e sacche di sangue… no, direi che è un aspetto abbastanza centrale. Purtroppo i combattimenti non funzionano a più livelli e non lasciano il segno né sul piano visivo né su quello narrativo.

La spettacolarità è sostanzialmente inesistente, e a partire dal quarto episodio si assiste a uno spudorato riciclo delle animazioni. Nel giro di pochissimi minuti vengono lanciate le stesse tecniche un numero imprecisato di volte, andando a creare un effetto ridondante a dir poco fastidioso, a tratti nauseante.

Per carità, quella di riutilizzare le stesse cel è una pratica ricorrente, lo faceva spesso e volentieri anche l’anime classico, ma mai in modo così ravvicinato e, se accadeva, la regia si sforzava di non ripetersi, accorciando, frammentando o allungando la sequenza, proprio per diversificare un’animazione che altrimenti sarebbe rimasta identica a se stessa. C’era cura ed attenzione, insomma, e soprattutto c’era il desiderio di cercare soluzione visive interessanti.

La situazione non migliora sul piano narrativo, dove gli scontri durano talmente poco da risultare inutili. Le Galaxian Wars (che a ‘sto giro si svolgono clandestinamente in un magazzino, probabilmente lasciato in disuso da Amazon, nascosto da un tombino senziente – fa morire, lo so) sono talmente brevi che tanto valeva eliminarle del tutto, a questo punto, e il celebre combattimento tra Pegasus e Dragone riesce a toccare i dieci minuti soltanto perché buona parte di questo si concentra su flashback.

Se da un lato la quasi totale assenza di sangue e violenza è comprensibile per via del target, dall’altro c’è il maldestro tentativo di ricrearla sotto altre forme, concentrandola interamente nel passato di Phoenix, così da giustificarne le azioni, o indirizzandola verso elicotteri e carri armati. Il risultato è che non solo gli scontri vengono vissuti con un certo distacco emotivo, ma non riescono nemmeno a dare la percezione di protagonisti che rischiano qualcosa, tipo non so… la vita?!

Potrebbero sembrare critiche esagerate le mie, me ne rendo conto, e qualcuno potrebbe rispondere facendomi presente che un bambino di otto anni forse queste cose nemmeno le noterebbe, specialmente senza il vecchio anime come termine di paragone, ma a questo punto bisognerebbe riflettere sul fatto che anche il vecchio cartone era una produzione – almeno nelle fasi iniziali – per bambini delle elementari. Bambini giapponesi degli anni ’80, certo, eppure quello stesso anime cominciava con un orecchio mozzato.

La fastidiosissima Quota Rosa

Quando fu annunciato che Shun di Andromeda sarebbe diventato una donna, le reazioni del fandom furono così pacate ed eleganti che costrinsero Eugene Son, story editor della serie Netflix, a chiudere il suo profilo Twitter. Prima del ritiro forzato, ebbe comunque modo di spiegare le ragioni di questa sua decisione, in particolare:

Ma trent’anni fa, un gruppo di ragazzi in lotta per salvare il mondo senza neanche una ragazza nel team non erano un grosso problema. Era lo standard di allora. […] Ma oggi? Non è la stessa cosa

Francamente non ho una grande simpatia per questo tipo di cambiamenti, che siano di genere, etnia, orientamento sessuale o chissà che altro. La mia antipatia per questo modus operandi, però, non è assoluta o a prescindere, e in generale non ha niente a che vedere con la fedeltà al materiale di partenza. Il mio è più che altro un discorso relativo alla creatività, e se l’unico modo che un’opera riesce a trovare per parlarmi di inclusività (e il punto è questo) è cambiare il sesso ad un personaggio, beh, quella serie parte malissimo, per quel che mi riguarda, mettendo in evidenza un certo pressapochismo e una scarsa voglia di fare e creare. L’idea che ci sta alla base la capisco e la condivido, ma preferisco che sia messa in mostra tramite lo sviluppo di personaggi nuovi o l’approfondimento di secondari, in grado di aggiungere qualcosa di davvero originale all’opera. In tal senso, il personaggio di Miko nel bellissimo Devilman Crybaby è il perfetto esempio di un lavoro fatto con intelligenza.

Su questo argomento ebbi modo di dire la mia diversi mesi fa, e adesso che la serie è stata rilasciata mi sento di aggiungere soltanto che questo cambio, allo stato attuale, è sostanzialmente una modifica inutile e per niente inclusiva.

Shaun, infatti, non mostra alcuna variazione caratteriale rispetto alla sua controparte maschile, al momento, e in generale non aggiunge assolutamente nulla di nuovo all’opera originale, anzi, la priva di un personaggio che era interessante proprio perché gentile, delicato e restio al combattimento; una personalità maschile unica ed indispensabile, nella serie, che sommata all’unicità delle altre quattro andava a completare il gruppo dei cinque.

A essere onesti, la Toei Animation ci aveva già provato nel 2014 con Legend of Sanctuary – La leggenda del Grande Tempio, quando a diventare donna fu direttamente il Cavaliere d’Oro dello Scorpione. Le critiche non si risparmiarono neanche all’epoca, ma almeno la cosa venne realizzata con un pizzico di intelligenza in più: ne cambiarono aspetto, storia e interazioni, creando, di fatto, un personaggio nuovo che con l’originale aveva in comune soltanto il nome e alcuni lati caratteriali.

Qui non c’è nulla di tutto questo: stesso aspetto, stessa armatura, stesso carattere, stesso albero genealogico. D’altra parte è difficile non notare il pasticcio di tutta questa operazione, visto che Shaun resta l’unica donna in un gruppo iniziale di dieci Cavalieri, andando quindi a creare una sorta di singolarità che finisce per metterla in mostra proprio in virtù di un genere diverso. Uno scivolone davvero maldestro, se si pensa che poteva essere arginato cambiando qualche altro personaggio qui e là; tanto voglio dire, nel fango ormai già ci siete.

Ancora una volta, però, le mie sono critiche che nascono dall’inevitabile confronto con l’opera originale, confronto che un bambino che si approccia per la prima volta a Saint Seiya chiaramente non può fare. Se si abbandona ogni termine di paragone con la storia che conosciamo, il personaggio funziona: ha una sua identità, fa gruppo e dimostra una certa strategia in battaglia. Si tratta sicuramente di un personaggio poco intenso, semplice e a tratti superficiale, ma questo purtroppo è un limite dell’intera serie, e non è da escludere che possa migliorare con l’evolversi della stagione che, ricordiamolo, è soltanto a metà.

Molto probabilmente le variazioni più consistenti al personaggio di Shaun inizieranno più avanti, se si resterà fedeli alla struttura del manga, quando rientrerà in scena Ikki Nero Phoenix e si inizierà a parlare in modo più specifico della nobiltà d’animo di Sh(a)un, della sua inclinazione al sacrificio o del tran-tran quotidiano del correre in suo aiuto (concetti sicuramente esasperati nell’anime storico, ma presenti e ben saldi anche nel manga). A quel punto sarà divertente vedere come si comporteranno gli sceneggiatori: se lasceranno che Shaun venga dipinta come una damigella in pericolo o il suo esatto opposto, distaccandosi dal personaggio originale.

Edulcorare, eliminare, aggiustare

In realtà la faccenda di Andromeda fine a se stessa è pure uno dei problemi minori dell’intera serie, per quel che mi riguarda, ma resta un ottimo punto di partenza per mettere a fuoco tutto quello che gli autori hanno voluto edulcorare o eliminare per aggiustare Saint Seiya.

Saint Seiya è una voragine di incoerenza e insensatezza, e spesso riesce a tirar fuori dal cilindro delle robe talmente ridicole e surreali che grazie, Netflix, che almeno quelle le hai tolte (sì, mi riferisco chiaramente alla faccenda dei cento figli), ma di sbagliato, nei Cavalieri, non c’era e non c’è niente ancora oggi. Ha delle situazioni e dei temi controversi, verissimo, ed è proprio per questo che forse valeva la pena che fossero affrontati, anziché eliminati tout court.

Shun è stato sostituito con Shaun soltanto per parlare di inclusività, ma a ben vedere la serie originale già affrontava questo argomento, e lo faceva in un modo splendido grazie al sottotesto delle maschere.

La maschera viene ricordata soprattutto per via del suo lato romantico, ossia per l’obbligo di odio e amore di Shaina (Tisifone) verso Seiya, ma in realtà il punto centrale dovrebbe essere l’intero percorso della ragazza, con l’anime storico che arrivava a chiudersi con una Shaina sorridente e serena persa sull’orizzonte, libera dalla maschera, insieme a tutti i protagonisti; come se finalmente fosse una di loro.

Anziché prendere un tema del genere ed esplorarlo, come fecero anche Lost Canvas e Saint Seiya Omega, Knights of the Zodiac ha preferito prendere la porta sul retro ed eliminarlo del tutto, e ora le uniche maschere che vediamo nella serie servono soltanto a nascondere l’identità di qualcuno, forse.

Ma in generale questa è un po’ la pietra angolare che definisce l’intera produzione di Netflix: aggirare l’ostacolo eliminandolo, semplicemente. Perché è più facile rendere donna uno dei protagonisti, anziché approfondire quelle già presenti o crearne di nuove. Perché è più semplice eliminare un concetto controverso come quello della maschera, piuttosto che sfidarlo. Perché è più comodo rendere Saori una dea consapevole della sua natura divina già in tenera età, anziché dipingerla come una bambina viziata prima, e una ragazzina in conflitto con sé stessa poi.

Tutte scelte che passeranno completamente inosservate agli occhi di un pubblico che non conosce l’opera originale, ma che inevitabilmente vanno a semplificare una storia che di complicato non ha mai avuto assolutamente niente, mettendo in pubblica piazza una notevole pigrizia creativa che purtroppo va a oscurare le poche scelte intelligenti e sensate che questa produzione è comunque riuscita a proporre (sì, incredibilmente qualcosa di buono c’è, lo giuro!).

Saint Seiya fa del crescendo uno dei suoi tratti distintivi, e non voglio negare la flebile possibilità che Knights of the Zodiac possa migliorarsi con l’evolversi della storia. Certo è che se il buongiorno si vede dal mattino, la possibilità di una giornata davvero del cazzo pessima è dietro l’angolo.

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