Un anno senza te: intervista a Giopota
DF presenta Un anno senza te: dopo recensione e intervista allo sceneggiatore, ecco la chiacchierata con il disegnatore Giopota, amante del fantasy, di Tomm Moore e della gentilezza narrativa.
Dimensione Fumetto dedica uno speciale in tre parti a Un anno senza te, una graphic novel tutta italiana scritta da Luca Vanzella, disegnata da Giopota e pubblicata da BAO Publishing. Dopo aver recensito il volume e intervistato lo sceneggiatore, in questo terzo e ultimo articolo DF sposta l’attenzione sul fumettista con una lunga intervista-chiacchierata che spazia fra il suo passato e il suo futuro, passando per Buñuel e Murakami e tante, tante stelle.
Bologna è una delle capitali del fumetto italiano, forse la capitale ad honorem per le sue case editrici, i negozi storici, i festival, le mostre e il fervore culturale che la città dedica da decenni alla Nona Arte. Eppure forse il dato più significativo e importante è il gran numero di fumettisti nazionali e internazionali che ci abita o ci ha abitato: dal sambenedettese Andrea Pazienza, alla giapponese Keiko Ichiguchi, i portici all’ombra delle due torri pendenti hanno accolto e accolgono tutt’ora artisti da tutto il mondo e di tutti i generi. Fra questi c’è Giopota, al secolo Giovanni Pota, che ha fatto di Bologna la sua casa sia reale sia immaginaria.
Dopo alcune storie brevi, esperimenti nippo-fantasy, vicende oscurantiste, viaggi sulla Via delle Stelle e bellissime illustrazioni, Giopota è arrivato quest’anno a pubblicare il suo primo libro completo come disegnatore su sceneggiatura di Luca Vanzella: Un anno senza te edito da BAO Publishing. È un lavoro splendido che merita di essere celebrato parlandone con i diretti interessati.
Dimensione Fumetto ha raggiunto Giopota nella sua casa bolognese, disturbandolo mentre giocava a The Legend of Zelda: Breath of the Wild con la sua nuova e amata Nintendo Switch.
Per prima cosa presentati ai lettori di Dimensione Fumetto.
Sono Giopota, abito a Bologna e disegno fumetti ormai da qualche anno, dopo aver fatto una serie di percorsi trasversali che pure orbitavano intorno al disegno e che mi hanno portato alle illustrazioni per ragazzi e poi infine ai fumetti. Un anno senza te è il mio primo libro e l’ho realizzato a quattro mani con lo sceneggiatore Luca Vanzella, che si è rivolto appositamente a me con un’idea che aveva e che non pensavamo sarebbe diventata un libro così lungo. BAO Publishing si è interessata velocemente al nostro lavoro: io li avevo già contattati indipendentemente e loro si erano dimostrati interessati a collaborare con me, inoltre Luca Vanzella aveva già pubblicato con loro Beta, quindi la casa editrice ha potuto cogliere due piccioni con una fava.
Tu abiti a Bologna, ma non sei di lì, giusto?
No, io sono di Caserta.
Questo tuo essere originario di altrove e residente a Bologna ci porta a Un anno senza te, perché è proprio una delle caratteristiche del protagonista. In effetti leggendo il libro ho avuto la netta sensazione che ci sia dentro una grande parte del vissuto personale degli autori: quanto c’è di Giopota dentro Un anno senza te?
Tantissimo. Quando Luca Vanzella mi ha proposto il libro, anche se era ancora in fase embrionale io sono rimasto interdetto perché da lui mi aspettavo grandi avventure, spade, fantascienza, e invece mi ha raccontato questa storia di conigli che cadono dal cielo. Lì per lì non sapevo cosa aspettarmi da una storia del genere, e poi è venuto fuori che era anche la mia storia: qui entriamo un po’ nel personale, però prima di iniziare a fare fumetti anch’io come il protagonista di Un anno senza te ho perso un anno dietro a una persona. È stato quasi profetico. Il fatto che Luca abbia avuto quest’idea senza conoscere la mia esperienza mi ha fatto empatizzare tanto con la storia, e quindi di conseguenza ci ho messo dentro un po’ di quello che è successo a me. Nella sceneggiatura lui ha avuto tutte le idee e quindi non c’è niente di vero della mia storia, però è assolutamente simile: è assurdo come il meccanismo emotivo narrato in Un anno senza te sia così comune che mi ci sono ritrovato, e questo mi fa pensare che tante altre persone ci si possono ritrovare allo stesso modo. Al di là delle somiglianze estetiche, credo che comunque ci sia tanto di me nel libro. Anche l’editore mi ha sottolineato quanto, più ancora della somiglianza fisica con il protagonista, ci sia una somiglianza personale.
Quindi la sceneggiatura è stata scritta completamente da Vanzella o sei intervenuto anche tu?
Direttamente no, mai. È il suo libro e il suo lavoro, lui è un maestro nel suo ambito e non c’era la necessità del mio intervento in sceneggiatura; il massimo che ho fatto è stato correggere i refusi e cambiare qualche parola. Ho trovato fosse giusto che la sua storia fosse la sua e i miei disegni fossero i miei. In realtà ogni tanto ho avuto la tentazione di dirgli «Guarda, io qui farei così», ma solo perché la mia storia personale era andata in quel modo, quindi mi sono sempre trattenuto dato che la sua sceneggiatura comunque funzionava.
E a livello grafico invece lui ha avuto qualche tipo di influenza?
Direttamente no, nemmeno, però abbiamo sempre lavorato fianco a fianco fin dallo storyboard iniziale, che era molto elaborato, poi abbiamo deciso insieme di dividere la pagina in quattro vignette e lui l’ha riempita di pupazzetti per capire più o meno la composizione e dov’erano posizionati i personaggi. Vanzella non aveva idea di come sarebbero venute fuori le tavole e ognuna per lui era una sorpresa: ad esempio non sapeva come avrei realizzato il Santuario della Madonna di San Luca, che è molto modificato rispetto alla realtà, o come sarebbe apparsa Bologna con molte torri, o il dirigibile volante.
Quindi in sceneggiatura c’era già tutto, ma graficamente hai avuto carta bianca.
Sì, infatti lo ringrazio tantissimo perché mi ha permesso anche di disegnare cose che mi piacciono: come ha lui stesso dichiarato, si è prodigato per scrivere qualcosa che rientrasse nelle mie corde, come il fantasy.
In effetti sono presenti molti elementi, primo fra tutti appunto il fantasy, che sono ricorrenti nelle tue opere fin da I guardiani della luce: Vanzella ha scritto quest’opera apposta per te?
Da quel che so lui aveva già in mente questa storia prima ancora di pensare a me: al di là del fatto che il suo collaboratore usuale Luca Genovese fosse occupato e indisponibile, credo che comunque Vanzella stesse cercando un autore con un tratto più “morbido”, che ha trovato nel mio stile narrativo. Quindi credo che lui abbia unito queste due cose, ma non abbia pensato assolutamente di fare un libro per me. Siamo stati tanto fortunati a trovarci così bene insieme, dato che non è scontato questo buon rapporto fra sceneggiatore e disegnatore, tanto più perché eravamo agli albori della nostra conoscenza.
Da quanto tempo va avanti il progetto di Un anno senza te?
Noi abbiamo firmato il contratto con BAO Publishing a metà 2015, ma Vanzella me ne parlò già a fine 2014: ormai sono più di due anni. Ovviamente un libro richiede dei lunghi tempi di lavorazione: il primo anno è stato propedeutico, ho studiato e fatto ricerche di stile che mi permettessero di lavorare nella maniera più funzionale. È stato difficilissimo, c’è stato anche un momento in cui non sapevo nemmeno se sarei riuscito a disegnare così tante pagine e cosa sarebbe venuto fuori. Poi all’inizio del secondo anno ho avuto una sorta di illuminazione: sono riuscito a mettere un punto fermo e sono ripartito a ritmo serrato ridisegnando le tavole che non mi piacevano, cioè praticamente tutte. Quindi diciamo che mi ci è voluto un anno intenso, e solo dopo aver trovato il giusto “equipaggiamento”.
Ti riferisci anche all’aspetto grafico dei personaggi?
Certo, assolutamente.
Quanto ai personaggi, sia caratterialmente sia visivamente io mi sono molto ritrovato nel protagonista Antonio. Abbiamo molti elementi in comune: anch’io sono basso e largo, anch’io ho una palla di capelli bruni con la barbetta, anch’io ai tempi facevo cosplay con la mia compagna di allora, anch’io ho «ritmi da pensionato», anch’io amo studiare, anch’io faccio la guida turistica, e anch’io sono affetto da quella che nel libro si chiama clausnoia, un neologismo bellissimo e calzante che Vanzella dovrebbe assolutamente proporre all’Accademia della Crusca. Quanto e cosa c’è invece di te in Antonio?
Beh, il personaggio l’ha scritto interamente Luca Vanzella, comprese tutte le battute, quindi lo riconosco come una creatura di Luca e non mia. Inoltre, per quanto Antonio si lasci in balìa dei sentimenti, dei risentimenti e dell’autocommiserazione, è comunque più razionale e meno cinico e ingenuo di me. Detto questo, parte degli elementi in cui ti puoi essere ritrovato tu sono anche in me e in tante altre persone che hanno un rapporto complesso con la propria sensibilità, che non riescono bene a capire cosa hanno intorno anche se si accorgono che qualcosa sta succedendo, e questo influisce sulla loro stabilità emotiva. Credo che alla fine la storia di Antonio sia quella di qualcuno che deve capire cosa gli sta succedendo intorno, tirando fuori il sé stesso da dentro. Forse Antonio sono io quando ero nella sua stessa situazione, ora sono passato per la sua esperienza e sono molto più conscio.
Tornando all’aspetto grafico, partendo da un inizio apparentemente ordinario il fumetto vira verso un realismo magico piano piano sempre più esplicito. Come hai immaginato gli elementi non ordinari del paesaggio, degli oggetti e delle persone? Hai avuto delle ispirazioni?
Non ho avuto particolari ispirazioni, anche perché gli “effetti speciali” presenti nel libro alla fine sono molto semplici, non ci sono magie vere e proprie. Mi viene in mente Haruki Murakami: nel suo Kafka sulla spiaggia c’è un’assurda scena di pioggia di sgombri e sanguisughe che succedeva paradossalmente con estrema naturalezza. Allo stesso modo l’obiettivo che ci siamo posti è che fosse tutto naturale nella sua assurdità, quindi non mi sono mai immaginato grossi fuochi d’artificio. Ci siamo tenuti su un tono basso, ma visivamente importante, tant’è vero che i famosi conigli sono anche in copertina perché sono un elemento visivo forte benché appaia come naturale.
A proposito di elementi che appaiono naturali ai personaggi e assurdi al lettore, Luca Vanzella ha scritto un breve saggio intitolato BLOOD TYPE BLUE: la biologia metafisica e il fascino delle tecnociarle per il volume Evangelion Impact, a cui anche noi di DF abbiamo collaborato. Nel suo saggio Vanzella afferma che in Neon Genesis Evangelion c’è una gran quantità di «tecnociarle», ovvero parole parascientifiche incomprensibili che però stanno lì per dare un senso di pseudo-verosimiglianza: anche in Un anno senza te succede proprio la stessa cosa, sembra la Terra però non è proprio proprio la Terra. Pensi che Neon Genesis Evangelion vi abbia in qualche modo influenzato?
Neon Genesis Evangelion è stato il primo anime con cui ho realizzato che gli anime non erano solo quelli che vedevo su Italia 1, che non erano solo un prodotto per ragazzini, ma andavano anche oltre. Io l’ho visto la prima volta su MTV, avrò avuto 11-12 anni, ero nella fascia d’eta dei protagonisti e sono letteralmente impazzito: nonostante non ci capissi assolutamente nulla, cercavo di spiegarmi delle cose che però sapevo che non avrebbero avuto spiegazione, e quindi alla fine non sono rimasto nemmeno tanto sconvolto quando è finito/non finito. La mia impressione è che anche se c’erano un sacco di cose che non riuscivo a spiegarmi, a me andava bene così, per via di tutto il resto: l’animazione, l’empatia coi personaggi, le loro turbe, e tanti altri elementi che andavano a tappare i buchi che per me non erano nemmeno così fondamentali. Forse in questo c’è la similitudine con il nostro libro. Ad esempio, una critica che abbiamo ricevuto è che non spieghiamo che malattia ha il padre di Antonio: la accetto come critica, ma non la condivido dato che forse spieghiamo anche già troppo. Trovo molto più bello quando io lettore posso immaginare cose c’è dietro, e di conseguenza sono intrigato più dal non detto che dal detto. Credo che il lettore non debba essere sempre imboccato, che gli vadano lasciati spazio e libertà, e che stia all’intelligenza del lettore la volontà di rimanere o meno in questa zona grigia, questo “mondo di sotto” senza poterlo toccare perché non è il nostro. Bisogna assistere attentamente e poi tirare le proprie conclusioni senza che ci venga spiegato sempre tutto, anche perché così è la vita.
In effetti mentre leggevo Un anno senza te non potevo fare a meno di pensare che questa è un’opera post-Evangelion: esattamente come dici tu, nel vostro libro succedono delle cose “strane” e non c’è bisogno di spiegarle dato che appaiono “normali” ai personaggi e di conseguenza, dopo un po’, appaiono “normali” anche al lettore. Più le pagine nella mano destra si fanno sottili e più è chiaro che siamo in un altro mondo e non c’è bisogno di spiegarlo, e quando si arriva al finale si capisce perfettamente quanto gli autori siano riusciti a incamerare in maniera intelligente e personale la lezione di Neon Genesis Evangelion, ovvero usare una storia misteriosa per veicolare una storia di vita.
È esattamente così, e infatti l’unico spoiler che mi sento di fare è che Antonio non si sveglierà da nessun sogno e non c’è nessuna dimensione parallela: tutto quello che c’è da leggere è lì sulle pagine. Credo che alla fine molti accetteranno il libro così com’è, dato che stiamo raccontando una storia di crescita: c’è un mondo che non esiste tutto attorno, sì, ma non è l’elemento fondamentale.
Quanto ai mondi che non esistono, quali sono i mondi che non esistono che ti hanno influenzato?
Prima di iniziare con i fumetti credevo che manga e anime non mi avrebbero aiutato a nobilitare il lavoro che volevo fare. Volevo essere indipendente dalle influenze che avevo ricevuto, forse proprio perché vedevo Neon Genesis Evangelion come un’eccezione in un mare di roba da non tenere in considerazione, sia come ideali sia come storia. È stato un rifiuto adolescenziale e stupido, perché poi mi sono reso conto che andava contro la mia naturale crescita creativa. Ho riabbracciato gli anime, più ancora dei manga, perché poi ho scoperto che c’era tutto un mondo che non avevo approfondito e che ho scoperto essere meraviglioso, una scuola di narrazione fondamentale. Per esempio, ho scoperto abbastanza tardi i film dello Studio Ghibli, e solo allora ho capito che quello che volevo fare risiedeva tutto lì. Non intendo dire che voglio imitarli, ma che la mia intenzione è riuscire a creare con la stessa delicatezza, non violenza e magia: credo che in Occidente ci sia bisogno di quell’approccio così gentile alle storie. Io sono stato abituato o a fumetti/cartoni umoristici, oppure a opere estremamente virili e rudi: queste cose ci sono anche in Giappone, certo, ma è stato il mondo fantastico dello Studio Ghibli che mi ha fatto capire quanto sia possibile reinventare le fiabe in maniera avventurosa con realismo magico. Le fiabe che abbiamo visto in Occidente sono i riadattamenti delle fiabe di Andersen o quelle della Disney, ma non c’è paragone con le possibilità di andare oltre che ha mostrato Hayao Miyazaki.
Quand’eri piccolo cosa leggevi e vedevi?
Beh, ovviamente mi sono visto tutti i film Disney, poi leggevo PK e un po’ di Topolino, ma come passatempo. In effetti ero più attratto dall’animazione che dal fumetto, e il fatto stesso che io sia approdato al fumetto è forse un po’ un caso fortuito. Detto questo, è un mezzo che mi piace e con cui riesco a esprimermi al meglio.
Come mai avete scelto proprio Bologna per ambientare la storia di Un anno senza te?
Oltre al fatto che è la nostra città (per quanto acquisita) e quindi potremmo averla scelta per comodità, credo che sia perché comunque è adatta alla storia: si parla di studenti, di giovani, e Bologna è al contempo una città grande e giovane. Credo inoltre che si presti bene per gli elementi fantastici: una città con le torri, il caos, e che è anche un po’ silenziosa e cupa quando non c’è nessuno.
Una città un po’ magica?
Forse sì: nasconde un po’ di magia e tirarla fuori è stato un esercizio molto appagante.
Come hai scelto gli elementi da modificare in chiave fantastica per la tua storia?
Li abbiamo scelti insieme Luca Vanzella e io. Per esempio, all’inizio del capitolo Luglio, per realizzare il dirigibile ho messo un tram di Bologna sotto un pallone. Per il faro del capitolo Novembre, all’inizio lui voleva che fosse una torre qualunque, nemmeno alta, solo con lanterna e attracco, ma penso che un faro sia un elemento meraviglioso e nella mia immaginazione è diventato il santuario della Madonna di San Luca, dato che si prestava bene a essere modificato: ho estruso la cupola in una torre altissima umanamente impossibile e a Luca è andato benissimo. Non sempre le mie proposte coincidevano con le sue, ma le ha sempre accettate di buon grado e comunque le scelte finali le abbiamo sempre fatte insieme.
In effetti il faro è uno dei vari elementi ricorrenti nella tua opera, che sono sempre molto belli e sottilmente poetici, forse anche metaforici. Ad esempio ricorrono spesso le stelle, i pois e in generale i motivi moltiplicati. A volte sono solo piccoli pattern, ma messi in punti strategici, come nel cappellino di Capodanno di Antonio nel capitolo Dicembre. Sono io che noto i pattern perché mi piacciono o è una tua scelta che nasconde qualcosa di più profondo?
Francamente non ci avevo mai fatto caso e me lo stai facendo notare adesso. Forse c’è un motivo per cui faccio queste cose. Anche per le stelle, ad esempio: sì certo, mi piacciono, ma dovrei stare lì a capire perché uso proprio così tanto le stelle quando potrei riempire con qualsiasi altra cosa. Credo che i pattern nei miei disegni siano comunque sempre un po’ caotici. Io non sono una persona molto perfezionista e non riesco a essere perfettamente geometrico, infatti l’unico grosso pattern che c’è in Un anno senza te, ovvero il pavimento di Atlantide nel capitolo Febbraio, l’ho fatto fare a un’altra persona perché sapevo che non sarei stato capace di realizzare un pavimento geometrico. Per quanto non l’abbia disegnato con le mie mani, comunque, l’intenzione di metterci un pattern è stata mia, quindi alla fine tutto torna. Credo che i pattern rendano bene con i miei disegni.
In effetti il tuo stile grafico composto da linee morbide, campiture piatte, gradazioni e pattern non geometrici riccorrenti è gia molto caratterizzato. Pensi di essere arrivato, se non a una forte riconoscibilità, quantomeno a una tua identità grafica?
Non lo so, perché nel caso di Un anno senza te se avessi lavorato senza Luca Vanzella avrei fatto tutto un altro percorso del tutto diverso; per il mio prossimo libro infatti sto pensando di usare elementi che appartengono più al mio immaginario. Quindi per ora non penso di essere arrivato da nessuna parte. Invece, mi sono scoperto capace di fare cose che non pensavo di saper fare: una veduta aerea, un parcheggio, una determinata prospettiva. A livello tecnico sono cose che si imparano, però credo che non sia ancora sufficiente. Anche se sono molto soddisfatto di Un anno senza te, non penso di essere ancora arrivato alla vera prova del nove: un libro nato da me, con un’idea mia, di cui posso dire «Questo è completamente il mio immaginario e l’ho espresso nella maniera più simile a come l’avevo ideato». Questo tipo di opere totalmente mie si limita a qualche illustrazione, ma fare un fumetto del genere penso sia ancora presto per me. Quando ci riuscirò allora potrò dire se mi sento in qualche maniera arrivato o meno. Rispetto a quello che vorrei fare, Un anno senza te, per quanto magico, è ancora troppo reale.
Questo mi fa tornare in mente la parabola creativa del regista surrealista Luis Buñuel. Dopo decenni di film realizzati sotto le costrizioni dei produttori e tagliuzzati dalla censura, Buñuel ebbe un grande successo personale e commerciale con Bella di giorno nel 1967 che gli diede la chance di realizzare un film con completa carta bianca; eppure, il successivo e magico La via lattea si rivelò un film creativamente molto meno libero dei precedenti. Alla stessa maniera, in questo Un anno senza te, benché costretto da limiti esterni quali la sceneggiatura non tua e le logiche produttive editoriali, si sente moltissimo la tua presenza autoriale. Se avessi completa carta bianca per realizzare un’opera del tutto tua, che cosa faresti e su che media? In pratica: cosa vuoi fare da grande?
È una domanda che si apre a tantissime risposte! Per prima cosa, La via lattea si avvicina tantissimo a quello che vorrei fosse il mio prossimo libro. Per quanto riguarda quello che farò da qui a dieci anni, beh, non ci sto pensando, non sono così lungimirante. Ho perso la mia capacità di previsione del futuro che avevo da bambino, quando pensavo che avrei fatto fumetti, poi ho cambiato strada e poi alla fine li ho fatti davvero. Arrivato a questo punto non faccio più piani a lunga distanza perché probabilmente cambieranno, ma il mio obiettivo principale resta quello di creare una storia che racconta qualcosa che nasce da me. Voglio essere in grado di scrivere un fumetto da solo che generi la stessa bellissima empatia che si sta creando fra i lettori e Un anno senza te: io ne sono contentissimo, ma non è interamente merito mio. Con Vanzella siamo andati un po’ sul sicuro perché quella di Antonio è un’esperienza che capita a tutti, ma con le storie che ho in mente non so che tipo di empatia si possa creare col lettore! Sarà una sfida difficile, grande ed emblematica, ma è una di quelle cose che davvero voglio fare da grande. Sarà come scalare una montagna, e voglio riuscirci. Se poi devo dirti cosa vorrei fare davvero, ti direi un film d’animazione su un mio fumetto: già mentre lavoro me li immagino animati, perché quello è il mio background. Fra le idee che ho in mente ce se sono alcune che si prestano a diventare film d’animazione, magari animazione francese che ultimamente si è anche un po’ giapponesizzata.
In Europa c’è anche l’irlandese Tomm Moore che realizza opere meravigliose e molto personali.
Ah, certo, lui lo adoro, ho anche un poster della selkie de La canzone del mare appeso in camera! Credo sia il Miyazaki d’Occidente. Ho visto tutti i suoi film e li ho sempre trovati di una grande poeticità e senso dell’avventura, oltre all’eccezionale resa grafica e alle splendide scelte musicali. Credo che abbia quella morbidezza nel raccontare le cose che è proprio la grande lezione dell’Oriente, che lui ha saputo incamerare senza scimmiottare o imitare nessuno. Lo seguirò sempre con grandissimo entusiasmo.
Grazie mille per averci concesso questa lunga intervista!
Grazie a voi! Spero che i vostri lettori continuino a leggervi, perché siete una realtà super-interessante e il vostro interesse per il fumetto è davvero coinvolgente. A differenza di altre testate, apprezzo il vostro porvi in prima persona: già il fatto di contattare direttamente gli autori come me mi fa sentire una grande vicinanza. Continuiamo insieme a diffondere la cultura del fumetto, che non è una cosa scontata!
L’autore desidera ringraziare personalmente Giopota per aver concesso parte del suo tempo a DF con straordinaria disponibilità e cortesia.