The Wicked + The Divine: tra mondanità e nichilismo della generazione Millennial

Quanti fumetti possono vantare di cogliere lo spirito di un’epoca, di una generazione? The Wicked + The Divine rappresenta quella dei Millennial, più di quanto essi stessi riescano a comprendere…

Quanti fumetti possono vantare di cogliere lo spirito di un’epoca, di una generazione?

Vi faccio qualche esempio.

Peanuts negli anni 50 dileggia la medio-borghesia, fatta di tante casette, ognuna con il suo piccolo giardino, come nessun’altro prodotto contemporaneo, toccando i problemi legati alla razza, al genere e alle disuguaglianze sociali della società americana del tempo.

La prima striscia di Asterix fece la sua apparizione nel 1959 quando in Francia era ancora vivo il ricordo dell’invasione nazista e con la tenace opposizione del popolo gallico all’invasione romana che ricordava la resistenza francese all’occupazione tedesca, incarnando lo spirito dei francesi degli anni ’50/’60.

Le surreali esplorazioni visuali sempre più allucinogene e la fascinazione della controcultura giovanile degli anni Settanta per misticismo e psichedelico produssero il Doctor Strange di Steven Englehart e Frank Brunner e il Warlock di Starlin.

Grazie a Claremont il termine “mutante” è diventato una metafora del “diverso” nella contemporaneità, cogliendo la società americana in trasformazione etnica e la richiesta di maggiori delegittimazioni sociali degli anni ’80, facendo diventare Uncanny X-Men la testata più venduta d’America.

L’epoca reaganiana, conformista e priva di immaginazione, produsse la sperimentazione creativa dell’86 che regalò due perle acclamate da pubblico e critica come Watchmen di Alan Moore e Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller, in cui non a caso i due autori, che satireggiano rispettivamente Reagan e Nixon, diedero avvio alla nota Dark Age dei supereroi che portò alla adultizzazione degli personaggi in costume.

In Akira di Katsuhiro Ōtomo, dei primissimi anni ’80, convergono le influenze di Arancia meccanica (per i teppisti), Blade Runner, Metropolis di Fritz Lang (per la megalopoli) e Mad Max, con quest’ultimo che lo aveva colpito per la presenza delle bande di motociclisti, all’epoca un fenomeno molto diffuso in Giappone.

Il Sandman di Neil Gaiman è uno dei primi lavori che si rivolge a un pubblico di ambiti differenti e attira una costellazione di lettori che normalmente non gravitano all’interno della stessa orbita: vanta uno sproporzionato numero di lettrici, forse più di ogni altro fumetto a larga diffusione. E questo, in uno dei media tradizionalmente prediletti da un pubblico maschile, è già un enorme traguardo e uno dei primi a ottenerlo.

Prima Invisibles di Grant Morrison e successivamente Planetary di Warren Ellis, tra la fine degli ’90 e l’inizio del nuovo Millennio, si appropriano della cultura e della controcultura pop di quel periodo, facendo riferimento a tutto il filone fantascientifico distopico che anima la cultura underground di fine Millennio, seguendo una linea immaginaria che parte da Aldous Huxley e George Orwell, passa per Philip Dick e finisce col Neuromante di William Gibson.

La presidenza Bush, il crollo delle Torri Gemelle, l’America in paranoia completa, il disagio palpabile a tutti i livelli, con guerre che vengono combattute e manifestazioni che vengono represse con la violenza, tanto negli States quanto nei paesi dell’UE strettamente filoamericani, anima gli Ultimates di Mark Millar.

L’affermarsi da più parti di un maggiore multiculturalismo della generazione Erasmus e dei figli di seconda generazione di immigrati, utopico oggi che l’America sembra un coacervo d’identità culturali che faticano a stare assieme e in Europa sorgono sempre più barriere, vede in un classico-moderno come Saga di Brian K. Voughan il suo vessillo.

Anche in Italia abbiamo conosciuto fenomeni di fumetto generazionale come quelli del Paz, Andrea Pazienza, strettamente legati alla controcultura rabbiosa figlia dei moti Sessantottini, ad esempio raccontandoci la sua Bologna, il Dams, il coacervo culturale sinistroide, la crisi esistenziale e politica ne Le straordinarie avventure di Pentothal, e il Dylan Dog di Sclavi, secca risposta di chi non si rivedeva nel fenomeno dello yuppismo e del rampantismo sociale della “Milano da bere” degli anni Ottanta.

Insomma non sono rari i casi in cui un fumetto è stato la voce cinica di una generazione, del suo cambiamento o di una critica a essa.

Alan Moore spesso ripete:

«Credo che questo secolo abbia bisogno e meriti la propria cultura. Merita autori che cerchino di dire cose importanti per i tempi in cui stiamo vivendo.»

Non a caso tra le letture del mago di Northampton, per sua stessa ammissione, spiccano il già citato Saga e la serie di cui ho intenzione di parlarvi dopo questo lungo preambolo, The Wicked + The Divine.

The Wicked + The Divine è l’ultima fatica in Image del duo Kieron Gillen e Jamie McKelvie, dopo i precedenti Phonogram in Image e il rilancio dei Young Avengers in Marvel, e che BAO Publishing ha pubblicato in Italia nel 2017. Parliamo di due dei nomi più caldi del fumetto britannico contemporaneo: un dinamico duo assodato dove non si capisce dove finisca il contributo dello sceneggiatore e inizi quello del disegnatore, generando un’apprezzabile compattezza narrativa.

Come si recita sulla quarta copertina dei volumi di The Wicked + The Divine, ogni novant’anni dodici divinità si incarnano in altrettanti ragazzi. Vengono amate, venerate e detestate sino al giorno in cui la loro fiamma si spegne: nel giro di due anni, infatti, sono destinati a morire.

Insomma apparentemente questa serie ricicla un’idea trita e ritrita, sviluppando il ritorno degli dèi. Quindi qual è il merito di questa nuova serie di successo della Image?

Kieron Gillen, influenzato dal suo passato di critico musicale, ci offre una fantasia moderna in cui gli dèi sono le pop star definitive e le pop star sono le divinità del nostro tempo, ridefinendo la cultura e creando una mitologia del 2014. I comics sono parte della cultura pop e per questo devono farsi influenzare dalla musica, dal cinema, dalla televisione, dalla moda. Questo è un grosso problema con cui gli universi Marvel e DC cozzano spesso, dato che si tratta di storie e personaggi creati tra i 50 e 70 anni fa, mostrando sempre più evidenti difficoltà a elasticamente adattarsi e cambiare forma a seconda dei tempi.

Supereroi, arte e religione

«David Bowie mi ha salvato la vita. David Bowie ha salvato più vite di Batman!» (Kieron Gillen)

Il duo Gillen & McKelvie in tutto WicDiv vogliono stabilire una connessione tra supereroi, arte e religione: essere un supereroe è come essere una divinità, ed essere una divinità e come essere una popstar, ed essere una popstar è come essere un supereroe. Questa circolarità ideologica, continua e molto forte per tutto WicDiv, è una influenza figlia dell’impatto del manipolo di autori della British invasion e della cultura britannica col comics supereroistico: nel tentativo di prendere i supereroi e inserirli nel mondo reale, Moore ci dona dapprima Miracleman, reincarnazione in toto del superuomo della filosofia di Nietzsche, un essere superiore, umano e divino al tempo stesso, che liberatosi dai falsi valori etici spezza le catene sociali e si propone come guida. Successivamente in Watchmen costruisce due archetipi di superuomini “mancati”, Ozymandias e il Dottor Manhattan: “mancati” poiché il primo, per quanto ambiziosamente voglia imporre la sua visione sociale, è ostacolato dalla fallibilità umana; il secondo, nonostante abbia poteri semidivini, si è ormai distaccato dalla vita, ha paura di perdere la donna che ama perché con essa perderebbe la sua umanità.

Parallelamente ai lavori di Moore, si affacciava al fumetto britannico Grant Morrison che sulla celebre rivista britannica 2000 AD, creava Zenith superuomo/rockstar, un vacuo ragazzo in giubbotto di pelle con abilità superumane ereditate dai genitori, superficiale e frivolo, decisamente più interessato al successo dei suoi video musicali che al ruolo socialmente utile dell’eroe in calzamaglia e graficamente ispirato a Morrissey, celebre leader dei The Smiths. Inoltre sempre dell’autore scozzese, bisogna citare, nel calderone delle influenze della serie, All Star Superman, in cui il personaggio di Siegel e Shuster diviene metafora del Sole ed esaltato come simbolo di forza interiore, summa di tutti i fumetti di supereroi, ma che come affermano Morrison e Quitely, parla anche di come l’individuo comune si sente potendo incontrare Superman, perché sarebbe «un po’ come incontrare un Dio, un po’ un padre, un po’ una celebrità» e per narrare al meglio la cosa, i due scozzesi vollero conoscere il cantante Robbie Williams, in quanto Morrison era «molto interessato ad incontrare una figura mitica, quasi divina, una vera star».

Infine è impossibile non citare la vicinanza con i lavori di Neil Gaiman, dove l’impatto del suo Sandman (e del suo lavoro sulla figura di Lucifero) e del romanzo American Gods, rappresentano una influenza fondamentale per Gillen.

Se quindi un impatto fortissimo su WicDiv la ha avuto proprio il manipolo di inglesi che cambiava il comics a metà anni ’80, non si può non citare anche l’impatto della musica inglese, in particolare del glam rock, e nella figura di David Bowie, la cui ombra lunga si estende su tutta la serie Image.

Questo non lo si desume solo dal fatto che Luci, incarnazione dell’angelo caduto e personaggio fondamentale per tutto il primo volume, abbia l’aspetto del Duca Bianco, ma se pensiamo alla sua parentesi come Ziggy Stardust, un ciclo narrativo e musicale rivoluzionario nella storia della musica pop-rock, dove Bowie inscena un alieno, androgino rocker la cui effeminatezza, insita nel suo stravagante e controverso sex appeal, ha ridefinito il concetto di rockstar, spostando l’attenzione della cultura di massa sull’ideale del valore dell’estetica e della libertà sessuale, ma che allo stesso tempo si presenta come figura messianica venuto sulla Terra per annunciare la fine del creato.

Ziggy è in definitiva l’emblema del coniugio tra figura messianica e rockstar, ma soprattutto un “cantante rock di plastica” come lo definiva Bowie, che con la sua ascesa e la sua caduta ripercorre idealmente la parabola della celebrità, dietro la quale si nascondono l’insicurezza e la fragilità dell’artista.

Una giovinezza nichilista e senza futuro

L’idea per WicDiv mi venne una settimana dopo che a mio padre fu diagnosticato il cancro allo stadio terminale che lo avrebbe ucciso proprio quell’anno. Fu la mia risposta al dolore. Il punto di WicDiv è proprio che abbiamo a disposizione un periodo limitato di tempo, che siano due, dieci o settant’anni. Abbiamo tutti una scadenza. Perché qualcuno dovrebbe scegliere di passare la propria breve vita da artista, allora? WicDiv è la risposta drammatizzata a questa domanda. Abbiamo quindi questi dodici dèi, ognuno con un’idea diversa di che cosa siano il talento e l’arte nei confronti di questa fine incombente. In sostanza è una canzone pop sulla morte. (Kieron Gillen)

Appare evidente come la mondanità e la parabola della celebrità permettano a The Wicked + The Divine di offrire uno spaccato della cultura contemporanea e, di riflesso, dei giovani di oggi, in cui l’essere dèi e pop star per due anni e il successivo assoluto oblio sono la metafora di come tutto viene vissuto alla massima intensità e tutto è estremamente effimero: abbiamo quindi dèi “usa e getta”, metafora degli anni 2010.

Infatti la tensione fondamentale che anima i personaggi di WicDiv nasce dal fatto che vivono una giovinezza realizzata nella sua pienezza, adorati e amati, dotati di immensi poteri, ma totalmente annullata nelle prospettive di futuro. Questo in sintesi è uno spaccato della generazione Millennial, la prima che ha aspettative verso il futuro inferiori a quella della generazione precedente, che è senza certezze ed è costruita sulla precarietà lavorativa, economica, sociale e sentimentale, che ha voglia di apparire e di emergere attraverso i social dal grigiore nel quale vivono.

Tra i miti individuali che vediamo animare i protagonisti, sicuramente il più insidioso è il mito della felicità, che esplode in tutto l’ottavo capitolo della serie dedicato alla incarnazione di Dioniso, che ha assunto il significato di euforia, gioia ed esaltazione perenne, quando per i greci la felicità è nella giusta misura, che consiste nel conoscere sé stessi, nelle proprie virtù, farle fiorire nella giusta misura, in quanto oltrepassando la giusta misura si va incontro alla catastrofe.

Mentre noi diffondiamo un mito della felicità che consiste in una gioia sconfinata, in una assenza totale di dolore, in una sorta di euforia perenne, senza nessun accompagnamento di crisi e riflessione. Non a caso, il mito della felicità viene propagandato insieme a un altro mito, quello della giovinezza. Siccome non speriamo più in una felicità ultraterrena e siccome crediamo sempre meno nell’immortalità dell’anima, tutte le virtù che la religione aveva assegnato all’anima ora vengono assegnate al corpo, alla giovinezza, vogliamo corpi sempre giovani: quindi palestre, diete, lifting e cura del corpo esattamente nella riproduzione della cura dell’anima e le diete stanno al posto dei digiuni, gli esercizi fisici al posto di quelli spirituali. Non è un caso che i tutti i protagonisti sono vergognosamente bellissimi, proponendo una dicotomia tra l’atto di guardarli e di considerarli come esseri umani, con Gillen che ci guida in un dialogo tra i due aspetti.

Per i giovani protagonisti della serie il presente diventa qualcosa che va vissuto in maniera assoluta con la massima intensità, non perché questa intensità procuri loro gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia di un futuro che non li soddisfa o che non si concretizzerà mai. Questo vale tanto per i giovani dèi, quanto per Laura, vera protagonista dell’intera serie, una groupie, una wannabe, non particolarmente carismatica, senza una identità definita, tipica caratteristica del fan più accanito. Laura è pervasa da un senso di malessere e poco interesse verso il futuro con solo il pantheon divino e l’aspirazione a farne parte capace di smuoverla emotivamente: Laura è una chiave tramite cui Gillen ci racconta di come nel deserto della comunicazione dove la famiglia non desta più richiamo ed è incapace di svolgere il suo ruolo e la scuola non suscita più interesse, tutte le parole che invitano all’impegno e allo sguardo volto al futuro affogano nel disinteresse.

Personaggi e mistero

Appare evidente come al centro di The Wicked + The Divine ci siano la costruzione dei personaggi. Gillen racconta che i dodici dèi rappresentano aspetti della personalità di sé e che cerca di eliminare con il rito della scrittura:

Nel 2014 avevo 38 anni e nell’arco di due ne avrei avuti 40. L’idea di dare a questi dèi solo due anni di vita era un modo per pormi una domanda fondamentale sulla mia identità e sceneggiarla a fumetti. Per esempio il personaggio di Baal rappresenta un approccio alla mascolinità, mentre altri pezzi vanno in direzioni diverse. Altri ancora sono più legati ad alcune pop star. Come per il personaggio di Woden, un produttore che rende le persone dèi di sé stessi. Chi sarebbe potuto essere un buon riferimento visivo? Certamente i Daft Punk. In sostanza si trattava di decidere che cosa rappresentasse un certo personaggio e come mostrare visivamente ed emotivamente tutto questo.

Tutto l’intreccio, che si basa sul mistero di chi sia il responsabile degli omicidi di cui è incolpata Luci, di che cosa faccia di un ragazzo un dio, di quale sia il limite del potere delle giovani divinità, di chi stia muovendo i fili e qual è il ruolo della figura enigmatica di Ananke, sono solo prove per verificare la resilienza dei giovani dèi: la trama è imbastita per esaltare le espressioni, le grida, lo sbalordimento e il dolore dei protagonisti e spingerli a decisioni estreme figlie della loro condizione “usa e getta”.

Impossibile infine non parlare del lato grafico, in cui c’è un lavoro incredibile di design degli dèi, sempre diversi tra loro, con McKelvie che dona a ciascuno dei personaggi in gioco una propria struttura del viso, un aspetto specifico, rendendoli attraenti ma senza oggettivarli, pensati per essere personaggi con cui stabilire un legame con il lettore. Soprattutto nel secondo volume, Fandemonio, ha una maggiore possibilità di giocare con la griglia e con la tavola e muovere i protagonisti come sopra un palcoscenico, riprendendo e citando espedienti che in primis Gianni De Luca aveva architettato e poi Miller avrebbe reso mainstream sul suo Devil. Importante poi è la scelta, in omogeneità stilistica col lavoro di McKelvie, delle copertine studiate da Hanna Donovan e ispirate all’estetica dei magazine patinati di moda, così come il lavoro cromatico del colorista vincitore di Eisner e Harvey, Matt Wilson.

Quindi ritornando alla domanda di partenza, con The Wicked + The Divine siamo dinanzi al fumetto generazionale definitivo di questa epoca?

Il crescere della narrazione ci fa avere ottime aspettative verso il proseguo, tuttavia la narrazione talvolta risulta eccessivamente decompressa, nonché per le tematiche particolari affrontate la serie risulta non sempre digeribile per tutti lettori, soprattutto i più lontani anagraficamente e concettualmente dal comprendere la generazione Millenial e le implicazioni di fama e celebrità. Per poter dare un giudizio definitivo bisognerà valutare WicDiv nel lungo periodo e il suo relativo impatto culturale sul fumetto, ma inevitabilmente per ora il lavoro di Gillen e McKelvie è stato di ottimo livello e ci fa guardare con cuor sereno al futuro della serie, sperando che le nostre aspettative vengano soddisfatte.

Chiudo dicendovi che WicDiv ha anche una playlist su Spotify, pensata dagli autori stessi per essere ascoltata durante la lettura del fumetto.

The Wicked + The Divine vol. 1: Presagio Faust

Kieron Gillen, Jamie McKelvie

Bao Publishing, Febbraio 2017

176 pagine, cartonato, colore – € 19.00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

The Wicked + The Divine vol. 2: Fandemonio

Kieron Gillen, Jamie McKelvie

Bao Publishing, Luglio 2017

200 pagine, cartonato, colore – € 19.00

 

 

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