Oceania: Disney sogna il mare aperto
Dopo aver esercitato il suo enorme potere conglobante e unificante, avvicinando sempre di più i prodotti dei vari segmenti recentemente acquisiti, la Disney pare entrata in una nuova fase, in cui sta testando i suoi limiti produttivi (riducendo le pellicole ma aumentando i budget) e sperimentando nuove formule. Il risultato ancora una volta sorprendente è quanto finora tutte le equazioni provate abbiamo portato a una risoluzione felice, e come Oceania, il film natalizio animato della sezione più antica e centrale, non faccia eccezione.
Dal gelo di Frozen la Disney si sposta nelle assolate isole polinesiane, per un’avventura in realtà concepita ben prima che si presentasse il problema di raccogliere il testimone di un successo enorme, come rivelato dalla produttrice Osnat Shurer in un suo recente passaggio italiano, durante il lungo tour promozionale per il lancio del film. Se da fuori Walt Disney Pictures sembra una macchina da guerra e da marketing, da dentro si scopre un’attenzione anche artistica per il lavoro preliminare sul film, durato ben tre anni, buona parte dei quali trascorsi al fianco delle popolazioni locali polinesiane. Lo scopo, talvolta fastidiosamente didattico (soprattutto nel primo tempo) è di rendere l’esotico scenario delle isole polinesiane molto più di un affascinante sfondo narrativo per la solita principessa Disney. Non che la storia non sia canonica, quantomeno nelle premesse, ma parte da un mistero storico ancora insoluto a cui il film dà una risposta fantasiosa e avventurosa: perché i polinesiani che popolarono gli arcipelaghi oceanici per millenni a un certo punto smisero per un lungo periodo di tempo di navigare, ricominciando a farlo secoli più tardi?
Vaiana è la principessa, anzi, la capovillaggio di turno, anche se il ruolo che il padre le attribuisce continuamente le va stretto. La sua irresistibile attrazione verso l’oceano e la navigazione è compresa solo dalla stramba nonna Tala, che la spingerà alla ricerca del semidio Maui (interpretato in lingua originale anche canoramente da Dwayne Johnson) per tentare di rimettere a posto il cuore di Fiti che l’eroe aveva precedentemente rubato e la cui mancanza rende le acque oceaniche pericolose e innavigabili.
Da qui si dipana una classica fiaba Disney, ma di quelle del nuovo millennio: eroina che la stampa tradizionale saluta come femminista perché non in cerca di marito, coefficiente avventuroso marcato, comprimari adorabili come i guerrieri noci di cocco Kakamora, empowerment song obbligata (ma niente nella colonna sonora supera mai il livello di uniforme orecchiabilità) e un tono tiepidamente anticonformista e autoironico.
Chissà se le parole di Maui sull’impossibilità di Vaiana di essere altro oltre che una principessa Disney («hai un vestitino e un animaletto, sei una principessa») sono anche una metafora per un film che si spinge oltre il rift del tradizionale, ma senza volere (o potere?) navigare in mare aperto seguendo senza freni la propria vena artistica, come invece è stato fatto in Kubo e la spada magica?
Sul comparto dell’animazione si trova di nuovo quella voglia di provare e rinnovare, tipica dei grandi classici degli anni ’90 della Casa del Topo. Oltre a investire in un film rischioso per quantità di elementi notoriamente difficili da animare (l’acqua), Oceania riscopre il gusto dell’animazione 2D, in un segmento davvero impressionante in cui mescola il 3D dei muscoli di Maui con il 2D dei tatuaggi animati grazie alla consultazione dei grandi maestri della tecnica tradizionale, richiamati per l’occasione come consulenti.
Quando finisce di espletare il suo dovere didattico e divulgativo verso il popolo polinesiano, Oceania aumenta il ritmo e diventa ben più divertente e solido del film di seconda fascia che sembrava destinato a essere, confermando l’incredibile solidità produttiva (e al botteghino) della Casa del Topo. Senza diventare memorabile, riesce a essere ben più che la scelta obbligata delle famiglie che portano i figli al cinema.