L’Uomo di Bologna, ovvero Bonvi
Bonvi muore vent’anni fa, muore dieci anni fa, muore ieri, oggi e morirà ancora domani. Bonvi muore tutti i giorni, perché il tempo non può lenire il dolore di perdite tanto enormi per il fumetto italiano. Qui lo ricordiamo rileggendo “L’Uomo di Tsushima”, una delle sue opere migliori.
«Il Bonvi nasce qualche anno fa, proprio nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, sul finire dell’epoca dell’individualismo e all’inizio dell’epoca delle masse. Nonostante ciò, il BONVI è convinto che la storia continui ad essere fatta dagli individui; prova ne sia che, la sua propria storia, il BONVI se l’è fatta lui. Il BONVI è alto 1.75, non è sposato nè laureato, e non è ancora stato in galera».
Era il Gennaio 1978 e da qualche parte, alle pendici del Vesuvio, io suggevo l’elisir di lunga vita dal petto di mia madre. Quei tre mesi di vita non mi avevano insegnato niente. Non mi avevano insegnato che in Cile Pinochet buttava l’ultima palata di terra sulla democrazia; non mi avevano insegnato che le Brigate Rosse uccidevano Carlo Casalegno perché faceva il giornalista e i neofascisti uccidevano Benedetto Petrone perché faceva l’operaio.
Ci voleva un gran coraggio a decidere di crescere in un mondo così; ce ne voleva ancora di più per decidere di ridere di quel mondo. Franco Fortunato Gilberto Augusto Bonvicini, detto Bonvi, pubblicava in quel freddo Gennaio del 1978 uno dei suoi capolavori assoluti, l’Uomo di Tsushima, all’interno della classicissima e mai abbastanza osannata collana CEPIM (l’odierna Bonelli) chiamata “Un uomo un’avventura”. Le parole citate all’inizio dell’articolo, ahimè, non le ho scritte io: sono dello stesso Bonvi, e ci parlano dell’uomo più di migliaia di pagine di biografia.
Chiunque avesse seguito la suddetta collana, che fino ad allora aveva pubblicato le opere di Toppi, Battaglia, Pratt, Tacconi, Galeppini, su testi di Nolitta, Canzio, deve aver sgranato gli occhi di fronte a quel tratto, che riusciva ad essere contemporaneamente realistico e caricaturale.
In fondo la cifra stilistica di Bonvi è sempre stata quella di cogliere quanto il mondo reale fosse, in ultima analisi, una terribile caricatura.
Bonelli aveva chiesto agli autori della collana di scegliere un particolare evento della storia mondiale, e di farne lo sfondo di un’avventura nel classico stile CEPIM. Bonvi raccoglie la sfida e sceglie la battaglia di Tsushima, atto finale della guerra russo-giapponese e preludio a quella rivoluzione che avrebbe trasformato il mondo nel secolo successivo: la rivoluzione delle masse, la fine dell’epoca dell’individualismo. E per farlo sceglie di fare di Jack London il protagonista della sua storia: un po’ perché lo scrittore di Zanna Bianca e del Vagabondo delle Stelle fu anche un giornalista che seguì davvero quello scenario di guerra; un po’ perché London fu profondamente socialista, come testimonia il suo Tallone di Ferro; e un po’ perché London fu l’ultimo degli eroi romantici, l’ultimo esponente dell’epoca dell’individualismo.
E un po’ perché Bonvi era così, contraddittorio e semplice, animato da una contagiosa «fede cieca in poveri miti», come gli scriverà il suo amico Guccini, quando però sarà troppo tardi.
Questo uomo di Tsushima è una storia che oggi ancora ci sorprende e ci lascia interdetti, comen i suoi fumetten umoristichen, com’ i suoi pupazz’ malvag’. Ci sorprende perché non ci prende in giro: non glorifica, non disegna mitologie né si ammanta dello stupido senno di poi. Ci lascia interdetti perché ci riempie di domande, su come sia poi andata a finire, la storia di questa umanità così risibile.
Non ci si deve ingannare, infatti: questo Uomo di Tsushima, così come le Cronache del Dopobomba, è lo stesso Bonvi delle Sturmtruppen e di Cattivik. È lo stesso Bonvi che non teme nulla e nessuno, rinchiuso nella vita come in una trincea circondato da stupidi compagni di guerra, capace di ridere della morte, del dolore, della guerra, eppure senza mai farne oggetto di scherno. È un riso serio, un riso che sempre ci dice qualcosa in più.
L’episodio di Tsushima è un esempio lampante della stupidità umana, del cieco ubbidire a un volere esterno, di vite portate al macello senza un vero perché.
È una storia terribile, quella di Tsushima. E il tratto di Bonvi non ne sminuisce in alcun modo la tragedia.
Era il Gennaio del 1978 e nelle edicole di tutta Italia usciva il tredicesimo numero della collana “Un uomo un’avventura”. Erano tempi di luce e buio, di vita e morte, così come tutti gli anni che avevano preceduto e un pugno di quelli che sarebbero seguiti. Erano anni in cui si moriva per aver scelto di prendere il treno nel giorno sbagliato, o per essere andati nella banca sbagliata. Bonvi fu figlio di quell’epoca e tutto nella sua opera ce lo grida in faccia.
Bonvi muore la notte tra il 9 ed il 10 Dicembre del 1996; muore per aver deciso di attraversare la strada sbagliata nel momento sbagliato. Muore come si moriva nell’Italia di quegli anni lì, come morirono a Tsushima, come morì lo stesso Jack London, a 40 anni, per un’assurda overdose di antidolorifici. Muore come vorremmo morire tutti, vivendo.