Stefano Tamiazzo. Il racconto di un fumettista sui generis
Dopo la recensione della sua opera L’ergastolo di Santo Stefano, abbiamo avuto l’occasione di intervistare Stefano Tamiazzo. Una lunga e piacevole chiacchierata senza rete.
Dopo la recensione della sua ultima italica fatica, che trovate qui, Stefano Tamiazzo, fumettista più noto all’estero che in Italia, ci ha concesso una lunga intervista, nella quale ci ha parlato della sua opera più recente, ma anche un po’ del suo passato e del suo futuro.
L’intervista si è rivelata quasi un flusso di coscienza dell’autore che ha risposto con grande generosità alle nostre domande, tanto che siamo stati costretti a ridimensionare e riassumere per rendere la lettura più fruibile. Abbiamo cercato di non eliminare o modificare quanto Stefano ha voluto comunicare della sua opera ma a malincuore abbiamo dovuto intervenire sulla lunghezza: troverete perciò delle parti in corsivo nelle sue risposte che segnalano dei compendi dei concetti espressi, mente il segno […] segnala che una parte è stata tagliata. Ce ne scusiamo ma era necessario!
Andrea: Ciao Stefano, mi è piaciuto moltissimo il tuo fumetto, L’ergastolo di Santo Stefano, Fine pena mai, uno di quei fumetti storici in cui si parla della Storia, con la “S” maiuscola”, parlando attraverso le piccole vicende, e delle persone che la vivono. Quante delle storie presenti nel volume sono vere?
Stefano Tamiazzo: Ah guarda, sono storie tutte assolutamente reali o realistiche, in alcuni casi ho mixato alcuni fatti storici perché il mio è sì un fumetto che può essere definito storico, ma che complessivamente rimane un’opera di narrativa a fumetti e non un saggio. Alcune situazioni infatti non sono perfettamente vere: per esempio, c’è una piccola confusione tra Regno delle Due Sicilie e Regno di Napoli in riferimento alla condanna per ergastolo, che mi è stata fatta notare, oppure riguardo alla lettera scritta alla mamma da Pertini, che è del tutto autentica, solo che non è stata scritta a Santo Stefano. Fondamentalmente sono tutte storie assolutamente autentiche, anzi più sono pazze e più ci sembrano folli, più sono proprio quelle vere.
A.: L’opera è composta dalle storie di tanti individui, anche di lunghezze diverse. Anche quelle più corte sono documentate allo stesso modo?
S.T.: Le storie più brevi sono proprio le più comuni: questo era un carcere in cui dovevano finire i camorristi e comunque i criminali in generale e poi però, come è scritto nel fumetto, nella prima infornata ci vanno subito cinquanta oppositori politici, tra cui anche il padre del Settembrini. All’epoca si entrava in carcere anche da giovanissimi, per piccoli reati, e bisognava difendersi con i coltelli. Come ne I Miserabili in cui Jean Valjean sconta 20 anni di carcere per aver rubato un pezzo di pane. Il carcere era esclusivamente punitivo, quindi o era nero o era bianco: però se ci finivi, voleva dire che avevi commesso una colpa. […] Non mi sono inventato nulla anzi sono andato anche sul posto a controllare ossessivamente.
Ancora oggi in Italia, ci sono disperati che non sono dei criminali di professione, gente come me o come te che per un caso di omonimia, una denuncia fatta, una vendetta trasversale, devono difendersi per via giudiziaria. Sono attualmente due o tre al giorno, mille all’anno e negli ultimi trent’anni una roba come trentamila. È un’ecatombe. Alcuni soffrono una settimana, qualcuno un mese, due mesi, qualcuno un anno, ma c’è gente che ci schiatta e ci perde la famiglia o il lavoro.
A.: Come mai questa attenzione, anzi questa passione per quei posti, per delle isole che, al di là di quanto si parli di Ventotene adesso per motivi politici, sono note a pochi?
S.T.: Guarda è nato tutto da un caso: intanto io sono figlio di un isolano, anche se di un’isola molto famosa che è Venezia. Papà è nato in un sestiere, come si chiamano a Venezia i quartieri, che si chiama Cannareggio, poi ha fatto vita militare quindi a un certo punto è andato via e non è tornato. Poi quando papà è morto, tantissimi anni fa, ho detto “voglio andare in un’isola con gli scogli”, niente sabbia, e sono andato alle Tremiti. La prima cosa che scopri quando vai nelle piccole isole italiane è che c’è sempre un carcere borbonico e in quasi tutte ci trovi una stele che dice che c’è stato Pertini. Sembra che abbia fatto il tour delle carceri nei suoi quattordici anni di vita selvaggia durante il Ventennio!
Da lì è nata questa passione. […] Per fortuna l’acqua è sempre stato un elemento per me di felicità e Ventotene è diventata l’isola del cuore. […] Ventotene ha un paese meraviglioso e c’è una libreria, il proprietario è un “pazzo” che si chiama Fabio Masi che è anche l’editore di Ultima Spiaggia. […]
Lui in realtà ha cinque piccole librerie in giro per l’Italia e ha quei titoli che non trovi nei circuiti principali, che hanno ovviamente altre dinamiche. È proprio il libraio vecchio stile, ha storia del Risorgimento, del terrorismo oltre a un sacco di altre cose. Ha un bel reparto fumetti ed è gestita molto come in Francia: ti puoi sedere a prendere un libro, leggere e lui non ti rompe. […] Io ho letto questi libri per quindici anni semplicemente per mia passione, per il mio amore. Per quelli che come noi leggono sempre, è normale. È il nostro piacere, il nostro divertimento e anche un modo di affrancarsi da questo mondo che ti seleziona le notizie.
A.: Quindi come è nata l’idea del libro?
S.T.: Proprio da Fabio (Masi, NdR) è venuta l’idea del progetto. Rileggendo i numerosi libri sull’argomento letti negli anni, mi è venuto in mente di dargli una struttura che non fosse la storia del Settembrini o di Bresci. Volevo fare una biografia del carcere perché dove trovi un’altra storia in cui la piantina del carcere è ricalcata sulla piantina di un teatro? […]
Quello che mi interessava di più era questa idea brutale e contemporaneamente bella: in quel carcere ci sono entrato una valanga di volte e lì dentro non puoi non rimanere colpito dalla bellezza architettonica. Però contemporaneamente ti disgusta, perché anche la persona peggiore non meriterebbe di stare in quel buco schifoso; perché è fatto proprio per punirti e farti morire prima dentro e poi anche fisicamente. Si sente proprio una sorta di genius loci negativo, nonostante la bellezza dell’isola: il carcere è stato costruito per questo, pensato proprio come luogo di segregazione. In effetti all’epoca non c’è l’idea di un carcere in cui si recuperava il condannato, quella è una cosa arrivata con la Costituzione. […]
Per prepararmi al meglio ho studiato Bentham e il suo pensiero: nel carcere hai le feritoie a bocca di lupo in modo che la luce entri diagonalmente dall’alto verso il basso e il detenuto non possa vedere nemmeno una porzioncina di cielo. […] Al primo piano quasi tutti avevano i ceppi e le catene: a ogni spostamento era un rumore terribile, ed era come un girone dantesco perché non c’era mai silenzio: di notte uno si gira nel sonno e le catene si spostano.
Ci si ammazzava, erano sempre ubriachi, avevano la diaria personale e potevi avere dei soldi dalla famiglia o avere i tuoi piccoli commerci. Cosa compravi? Vino, dice Settembrini, poi giocavi e ti ubriacavi e accoltellavi qualcuno… Il carcere era proprio fatto per punirti. […]
Dice Bentham: «un’ora d’aria sarà consentita ogni giorno per dosare paura e sofferenza ma senza annientare il corpo utile perché la prigione è come la fabbrica e la fabbrica è come la prigione». Si era in piena Rivoluzione industriale…
A.: Torniamo all’opera: quanto il fumetto alleggerisce tutti questi contenuti?
S.T.: In realtà la mia percezione è stata opposta: sono stato lì al carcere diverse volte, quando ne ho letto, ho avuto un certo tipo di reazione, quando però l’ho disegnato per me è diventato più duro. Quando ho disegnato le fornacette, quando ho fatto le celle, quando ho disegnato i corpi abbruttiti, quando ho sporcato con i grigi… per la prima volta ho sentito proprio una profonda pesantezza e la durezza della materia che trattavo.
Questa mia opera ha fatto sì che mi scrivessero da praticamente mezzo mondo: c’è della gente in Brasile, in Indonesia, in Russia che ce l’ha in italiano, alcuni lo comprano solo per i disegni, e lo usano per studiare la lingua.
Qualcun altro mi ha detto «lo compro, però la materia è troppo dura per me da leggere». Perciò per me è stata la cosa contraria, è sicuramente un libro per stomaci forti.
A.: Mi riferivo ad esempio alle parole di Bentham, mi pare che i disegni non riescano ad essere altrettanto crudi.
S.T.: Noi siamo fatti di talmente tanti elementi che come sempre in queste cose due più due fortunatamente non fa mai quattro. Si è creata questa comunità enorme di persone a cui ho chiesto quale capitolo hanno apprezzato di più. Mi arrivano risposte così strane: qualcuno mi fa notare delle cose che io neanche ho messo nel volume, ma poi riguardando mi dico “ma cavolo, ma sai che è vero!?” ed è una delle cose più belle. Ho un amico che mi ha detto: «l’ho letto cinque volte Stefano, ogni volta ci trovo qualcosa di nuovo e differente».
Quindi è proprio una questione di come siamo fatti, della percezione personale.
A.: Come ti sei trovato in questa opera in cui sei autore unico?
S.T.: So che tutti rimangono male, però a essere sincero, a me interessa disegnare storie. Se mi togli il fatto di poter fare una sorta di film con le vignette, un racconto con il montaggio di immagini… A scrivere faccio molta più fatica. Nella nota d’autore finale, sono stato un giorno intero, ho cominciato tipo alle sei della mattina e intorno a mezzanotte ero ancora lì. Ed è venuta una nota non certo lunghissima. […]
A.: Devo ammettere che sono mi sono avvicinato all’opera perché amo questi volumi che portano al pubblico cose che la maggior parte delle persone neppure sa che esiste. Io neppure sapevo di Santo Stefano prima del fumetto. Ci hai già detto che questo lavoro ti ha riempito un anno e mezzo di vita tra presentazione e tutto il resto ma quanto di te ci sta in questo fumetto? Magari raccontaci un po’ la tua storia di autore.
S.T.: In realtà questo fumetto è per me davvero una pietra miliare perché viene dalla mia esperienza diretta con il posto, quindi non la posso scindere da me stesso. Pensavo che nessun editore mi avrebbe concesso di farla per la brutalità.
Invece poi Vittorio Giardino che è un uomo molto gentile ma non è per niente complimentoso, dopo che per vent’anni leggendo in anteprima le mie cose mi ha sempre detto che non avrebbero funzionato, stavolta mi scrive che è graficamente eccezionale, narrativamente è pure meglio. Mi sono sentito ancora di più in ogni pagina di quel fumetto. Che adesso andrà anche in fumetteria perché Marco Schiavone di Edizioni BD e J-Pop se ne è innamorato e lo distribuirà.
Io sono un fumettista un po’ sui generis, sono un grande fan di Kevin Macdonald che fa dei documentari montati come il migliore dei thriller. L’ergastolo di Santo Stefano è proprio la mia idea di documentario a fumetti. E voglio continuare a farne. Voglio che le mie storie abbiano a che fare con la storia del mio paese. Nessuno parla dell’Italia a fumetti, se non in modo superficiale. Ci sono un sacco di storie da raccontare in Italia… […]
Per quanto riguarda me, ho vinto nel 1994 a Prato un concorso molto importante: vinsi con una storia che tra l’altro è uscita da poco ancora per Toshokan che si chiama Niente succede per caso e altri racconti che è una sorta di tankobon in cui sono raccolte le storie dei miei inizi.
A Prato Comics c’era il gotha degli editori, dopo il premio tutti mi dissero «tu sei bravo ma insomma cambia stile, che questa moda dei manga è di passaggio».
Mi proposero poi di andare alla fiera di Bologna (quella che oggi è la Bologna Children Book Fair) dove ho incontrato quattro editor nippoamericani, ospiti della Shogakukan e in missione per la Viz Communication di San Francisco: erano loro che decidevano quali manga pubblicare. Dopo aver visto le mie tavole a colori, hanno confabulato tra loro e poi mi hanno detto che gli piacevano e mi hanno offerto di pubblicare. La loro rivista (che si chiamava Animerica) ospitava gli acquerelli di Miyazaki relativi alla realizzazione di Porco Rosso e un manga di Rumiko Takahashi. Ho debuttato così, in cinquanta Stati americani più il Canada, però nel frattempo lavoravo per un amico architetto per sbarcare il lunario, per poi passare alle agenzie di pubblicità: ci lavoravo una volta alla settimana mentre disegnavo quello che mi piaceva.
Ho fatto poi il concorso Shikishou della Kodansha, portato in Italia da Kappa magazine e sono stato l’unico finalista occidentale. Ho vinto uno dei premi più importanti quindi ho pubblicato per Kodansha. Ho pubblicato anche su Spirou che vende 100 mila copie al mese. poi a un certo punto Jean-David Morvan, che adesso è uno dei giganti del fumetto francese, ha visto le mie tavole sulla scrivania di un editor dell’epoca e ha chiesto se poteva prendere per sé le pagine.
Così è nata la Mandiguerre che, lo dico in anteprima, uscirà in omnibus a Lucca. Sarà un volumone in bianco e nero, con un artbook: è una space opera molto steampunk con molte influenze di Miyazaki. All’epoca avevo questo stile…
La serie, che è uscita dal 2001 al 2007, mi ha fatto conoscere all’estero.
Nel frattempo in Italia ho sempre fatto corsi: sono stato fondatore prima e direttore poi della Scuola Internazionale di Comics Padova. Da pochissimo abbiamo creato dei corsi di arti visive a Mind Academy a Padova. La cosa bella è che sono online e mi seguono davvero da tutto il mondo.
In realtà dal 2007 e per molti anni ho disegnato poco, quasi nessun fumetto, ma nel 2017 ho ricominciato l’attività: da otto anni ormai ho pubblicato una serie che si chiama Le Cynocephales cioè i Cinocefali. Una serie di due volumi, a cui dovevano seguirne altri tre. L’ergastolo di Santo Stefano è però la mia prima opera fatta direttamente in Italia.
L’idea è di fare ogni tanto qualcosa che mi interessa, magari un artbook solo di schizzi dell’Ergastolo, perché ne ho davvero moltissimi.
Il progetto è di produrre, ogni due o tre anni, un graphic novel di un certo impatto sociale o una storia di italiani, che tenga attaccati all’Italia anche i tanti figli di emigrati.
In realtà la mia idea è proprio di fare dei lavori sulla storia dell’Italia, ma raccontando anche gli aspetti brutali.
Ringraziamo Stefano e aspettiamo con ansia di veder realizzati tutti i suoi progetti!