In The Pines – 5 ballate a fumetti

La raccolta di cinque ballate macabre di ambientazione americana del diciannovesimo secolo. Omicidio, crimine, retribuzione, orrore ed errori sono il filo conduttore di questo albo che evoca musiche e mondi di rimorso.

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In The Pines, Eris Edizioni, è la proposizione in fumetto realizzata da Erik Kriek di una serie di cinque ballate macabre americane, di diversa origine, ma che attinge dalla musica e da autori piuttosto determinati. Il filo conduttore è l’omicidio, o più in senso lato il crimine, specie occulto o che si corona di un errore giudiziario.
L’albo si avvale, inoltre, di una postfazione del giornalista, musicale e scrittore specializzato in musica americana, Jan Donkers.

Si tratta di un fumetto piuttosto ostico da recensire, perché si assiepano varie anime provenienti da diversi mondi un po’ eterogenei. L’idea è quella di riprodurre in fumetto delle storie trattate dalla musica folk americana -e non solo-, risalenti anche ad opere precoloniali popolari inglesi, poi rivisitate: Pretty Polly and the ship’s carpenter, The long black veil, Taneytown, Caleb Meyer, e Where the wild roses grow. L’opera scivola via velocissima, proprio come una ballata in versi, con poche parole, dove l’atmosfera creata dalla musica è assai efficacemente riprodotta dallo stile molto personale del disegnatore e dalla scelta di abbinare al bianco (poco) e nero (tanto) un solo colore freddo, diverso per ciascun capitolo.

In-the-PinesLo stile è efficacissimo, molto evocativo di un gelo drammatico e desolato su situazioni e scelte umane assurde e orride. C’è tutto il non senso e la spietatezza della vita e specie di una vita dove morte e castigo immeritati o arbitrari, paiono contendersi un paese intero.
Anche la griglia conferisce un ritmo musicale, che alterna come strofe e versi, i piani presente e passato del racconto, le memorie, i fatti.

Si legge tutto in una mezz’ora al più, postfazione compresa, ma è un tempo perfetto, perché ad andare oltre, probabilmente, ci si annoierebbe, anche a causa della scelta monocroma, azzeccata (ripeto) ma che alla lunga potrebbe divenire stucchevole.

L’esperimento che l’opera propone riesce, tuttavia, perfettamente se pensiamo che senza sapere nulla dell’albo mi sono trovato a provare proprio le stesse sensazioni che mi suscitano quei temi, reiterati in musica, e a volte anche assai famosi, alla Nick Cave, per citare quello che assurse a maggiore celebrità televisiva nei ‘90. Anche l’estetica generale è molto gradevole, la copertina splendida in stile retrò, va menzionata.

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Detto questo, si nota forse certa imprecisione dell’autore nel ricreare un’ambientazione autenticamente americana. Leggendo l’opera mi è parso quasi subito strano che certi elementi fossero autentici, e in effetti non lo sono, dato che l’autore è olandese, come pure lo è il giornalista che commenta, e a questo punto credo di poter dire che ciò si nota e stride un po’.

Il vero punto debole dell’albo, però, mi pare proprio essere la postfazione, giornalistica (nel senso deteriore) e davvero nulla di che, per di più pretenziosa, ricca solo (e per lo meno) di erudizione, nomi e riferimenti musicali, ma piuttosto superficiale quanto ad analisi e contributo; il che è un peccato, perché essa è senz’altro necessaria per capire l’opera e sarebbe stata occasione degna di ben altro contenuto.

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