Wednesday Warriors #54 – Iron Man 2020 e The Question

In questo numero di Wednesday Warriors:

Bam’s Version

IRON MAN 2020 #1 di Dan Slott, Christos Gage e Pete Woods.

Il futuro è qui…o meglio, un futuro è qui.
Alla Casa delle Idee, le visioni del futuro, immediato o remoto che siano, sono multiple e tutte ben differenti: dall’America devastata dall’odio anti-mutante di Giorni di un Futuro Passato fino all’iper-commerciale futuro cyber-punk di Spider-Man 2099 & Co., passando per la Terra super-potenziata di Terra X e i più recenti multipli futuri (e passati) creati da Jonathan Hickman per House Of X e Powers Of X. Ma, a partire dal 2012, la Marvel ha cominciato a costruire il proprio futuro di metallo e reattori Arc, una visione cominciata dall’autore Kieron Gillen, ereditata da Brian Michael Bendis e ora nelle mani di Dan Slott. Un futuro in scintillante rosso ed oro, decorato da pesanti e scomodi, iconici ingranaggi incastrati nell’armatura: il futuro che si è fatto presente, quello di Iron Man 2020…#1.

Dopo diciannove numeri di Tony Stark: Iron Man firmati Dan Slott, Jim Zub e Christos Gage, il Vendicatore Dorato è letteralmente sparito dalla circolazione. Il recente scontro con l’ultima versione di Ultron, Pymtron, ha distrutto le ultime convinzioni del protagonista: metà corpo sintetico, ricreato in laboratorio, metà cervello/software, scaricato ed impiantato dopo la sua ultima “morte”, Stark ha improvvisamente realizzato di aver da tempo lasciato la propria umanità alle spalle, diventando sempre di più un essere artificiale, come i robot di cui si circonda alla Stark Resilient, come i sistemi P.E.P.P.E.R. e J.A.R.V.I.S., come una delle sue tante armature. L’esplorazione di questa dicotomia tra macchina e cuore, intelligenza ed intelligenza artificiale ha funto da base per l’intera serie di Dan Slott. Tuttavia l’autore che ha portato alla ribalta Otto Octavius in Superior Spider-Man è decisamente più materiale e concreto, meno elegante in questa serie, riducendo il nucleo di questo conflitto ad una imminente guerriglia tra esseri umani e macchine.

Iron Man 2020 #1 è un albo che pone un nuovo Iron Man all’interno dell’armatura: l’Arno Stark di Dan Slott è freddo e calcolatore, ma anche un personaggio che prende in prestito molto dall’originale struttura per lui creata da Tom DeFalco ed Herb Trimpe. Con il “costrutto” Tony Stark rimosso dalla narrazione, Slott ricalca ancora l’esperimento Superior, proponendo una versione alternativa, più efficiente e risoluta, meno eroica dell’eroe principale. La scelta si rivela efficace: la differenza tra i due è netta e ben si incastra nel contesto e nella trama ideata dall’autore.
Come accennato, il conflitto morale resta un tema cardine di Iron Man 2020 #1.
Sullo sfondo della nuova sensibilizzazione verso i diritti delle intelligenze artificiali e della Ribellione Robotica, la nascita del moderno Arno Stark e dell’Iron Man incattivito e senza scrupoli è un piccolo capolavoro, che tira le somme di anni di silenziosa gestione, soluzioni di continuity bislacche e poco sensate che, miracolosamente contestualizzate, hanno tenuto insieme ben tre serie regolari della Testa di Latta. Non a caso, infatti, le ultime pagine dell’albo offrono una timeline degli eventi piuttosto precisa e decisamente utile ai lettori più distratti.
Non sorprende, però, il fatto che Iron Man 2020 sia un (mini)evento poco attraente e meno appariscente di un War Of The Realms nonostante le due serie condividano la stessa natura narrativa ed editoriale. I nuovi lettori troverebbero difficili da digerire riferimenti ad eventi e caratterizzazioni culmine di anni di storie, di trame e sottotrame che collidono e si allineano in un’unica grande storia. L’appetibilità viene sacrificata in nome di un pubblico ristretto, decisamente di nicchia se confrontato ad altre realtà attualmente in corso di pubblicazione alla Casa delle Idee.

L’artista Pete Woods segue il percorso iniziato sulle pagine della Distinta Concorrenza su Justice League, in compagnia di Christopher Priest appena un paio d’anni fa. Woods si diverte con scene d’azione splendidamente colorate e tanti, molti robot con cui poter giocare: milizie private, cannoni repulsori e la stessa armatura di Arno sono l’esempio di come Stark e Baintronics offrono un arsenale dal vasto potenziale per qualsiasi matita, specialmente quella di un veterano. Lo stile cartoon e pulito del disegnatore concede ai personaggi ottima espressività, non importa quanto metallo sia nei loro corpi – il design è chiaro ed ogni elemento su carta immediatamente riconoscibile. Anche in questo caso, però, Iron Man 2020 non eccelle e manca l’occasione di stupire.

Slott, Gage e Woods consegnano ai lettori l’inizio di una “Saga Che Cambierà Per Sempre l’Universo Marvel” che gioca sul sicuro e non impressiona. Il #1 di Iron Man 2020 risulta parte integrante di una trama strutturalmente solida e, sotto certi aspetti, intrigante e dal potenziale affascinante ma che viene ancorata a terra da alcune scelte dubbie. Per quanto può essere interessante osservare la freddezza e meticolosità degli esseri umani contro gli empatici e impulsivi esseri artificiali, la banalizzazione della trama principale in un semplice “Noi Contro Loro” è finora solo un seme che aspetta di germogliare nei successivi capitoli. Il cliffhanger mette pepe e incuriosisce ma l’antieroe Arno Stark non sembra avere sufficiente spinta per reggere l’evento sulle proprie appuntite spalle.

Gufu’s Version

THE QUESTION: THE DEATHS OF VIC SAGE #1-2 di Jeff Lemire, Denys Cowan e Bill Sienkiewikz

Creato da Steve Ditko nel 1967 The Question è noto ai più per essere stato il personaggio sul quale Alan Moore ha modellato il suo Rorschach in Watchmen: manicheo, oggettivista, spietato con chi ritiene malvagio e affascinato dalla violenza da lui stesso perpetrata Vic Sage è un reporter che combatte il crimine di Hub City indossando un completo blu, un Fedora e una maschera priva di qualunque segno. Un punto vuoto, un interrogativo.

Una seconda linea – forse anche terza – nel vasto universo superomistico DC Comics che ha conosciuto il suo massimo splendore alla fine degli anni 80 grazie a una serie firmata da Dennis O’Neill, Denys Cowan, Rick Magyar e Bill Sienkiewicz.
Non è un caso che in questa nuova mini targata Black Label ritroviamo i nomi di Cowan e Sienkiewicz ai disegni: Jeff Lemire decide infatti di scrivere una sorta di sequel/omaggio alla storica run di O’Neill riproponendone i temi, le atmosfere e alcuni dei personaggi di contorno.

Vic Sage, alter ego di Victor Szasz, è un personaggio sgradevole con il quale è difficile identificarsi: narcisista e violento giudica la società che lo circonda secondo parametri assoluti, una società in cui “se non sei sicuro da che parte stai, allora è probabile che tu sia da quella sbagliata”, ed è su queste direttive manichee che muove il proprio operato da vigilante (difficile definirlo eroe) e da giornalista.
Lemire rende subito chiaro, sin dalla prima vignetta della prima tavola del primo numero, che quello di O’Neill è anche il suo Question: un ritorno alle origini che si discosta con la versione più “smussata” vista sulla maxiserie 52 del 2006.
Questa sgradevolezza, accentuata da una significativa dose di misoginia, rende il personaggio di Sage poco in sincrono con i nostri tempi e questa sua caratterizzazione ha prestato il fianco a una certa critica statunitense che sembra non essere in grado di separare personaggi e autori o di accettare che non tutti i protagonisti di un comic book possano essere dei modelli di riferimento etico o morale.

Ma è proprio in questa sua asincronia con la sensibilità attuale, in questo suo essere anacronistico, che si definisce la cifra stilistica del The Question di Lemire fino a diventare parte integrante della trama.
Grazie anche al lavoro di Cowan e Sienkiewicz il primo numero, pur essendo ambientato ai nostri giorni, restituisce al lettore delle atmosfere fortemente Anni ‘80 riuscendo così sia ad afferrare i fan (pochi ma affezionatissimi) del personaggio che a introdurre Vic Sage alle nuove generazioni di lettori evitando però di condurle per mano in maniera didascalica. Grazie alla maggiore libertà creativa concessa dall’etichetta Black Label Lemire può permettersi ritmi, tempistiche e tematiche impensabili su una regular canonica e riesce a curare lo sviluppo di trama e personaggi nelle cadenze a lui più comode.

Alla fine del primo albo realizziamo quindi come questo sia pensato come il prologo di un viaggio spirituale dai contorni Zen – riprendendo quindi un’altra tematica della run di O’Neill – che farà viaggiare il protagonista lungo le sue diverse incarnazioni passate: dai nostri giorni al West del 1880 del secondo numero e alla Hub City del 1941 del terzo numero che uscirà ad Aprile 2020 (sigh!). Lemire non si limita pertanto a riproporre un affezionato omaggio al Question di O’Neill, ricalcandone vagamente lo stile e i dialoghi, ma lo mette in discussione facendolo interrogare sulle proprie motivazioni e dinamiche ponendolo così in un rapporto dialettico con la struttura stessa della storia.

Punto di forza di questi due primi numeri sono, come prevedibile, i disegni di Denys Cowan e Bill Sienkiewicz che travalicano il canonico rapporto disegnatore/inchiostratore: lo stile grezzo di Cowan, fatto di linee spezzate e confini indistinti, si pone in conflitto con la caratterizzazione assolutista, quasi Randiana, del protagonista, evidenziandone così le contraddizioni più drammatiche. Dal canto suo Sienkiewicz esaspera l’espressività di Cowan modulando le sue chine in accordo con le cadenze del racconto e prendendo le redini della narrazione visiva laddove le parti più squisitamente orrorifico/filosofiche – allucinazioni, morti e reincarnazioni – vengono alla luce nello script di Lemire.

Questi due primi capitoli della miniserie ci mostrano quindi il miglior Lemire, quel Lemire che viene fuori soprattutto nelle produzioni indipendenti come Gideon Falls o Black Hammer e che generalmente fatica a imporsi nelle major: lo scrittore riesce a cogliere l’essenza del personaggio, grazie al contribito determinante del team di artisti a lui affiancato e alle libertà concesse da questa nuova etichetta “for mature readers” della DC Comics che sta lentamente prendendo forma e identità.

First Issue

THOR #1 di Donny Cates e Nick Klein

Thor #1 resta comunque un numero iniziale dal gran ritmo e dalle ottime caratterizzazioni dei personaggi, che sicuramente riesce a stuzzicare e sorprendere il lettore.
Ma sono soprattutto i disegni di Nic Klein a colpire nel segno: l’artista sembra nato per questo genere di storie, riuscendo a ricostruire la possenza epica di personaggi e ambienti, immergendoci completamente nell’atmosfera dei miti nordici con un segno ruvido ma dettagliato, violento eppure elegante: basta vedere la prima apparizione del suo Thor, guercio, con barba e capelli incolti, a petto nudo, per vedere il perfetto Dio del tuono nordico, nato dal lampo e dal fango delle battaglie. Spettacolari le tavole di battaglia e devastazione, ricche di dinamismo e di potenza cinetiche, in particolare quelle che coinvolgono Thor e Galactus.
Un esordio convincente che, se saprà aprirsi oltre l’universo chiuso di Cates, potrebbe dar vita ad un’altra, epica saga del Tonante.
LEGGI LA RECENSIONE COMPLETA QUI

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