Pokémon: Detective Pikachu – Una elettrococcola di film

Pokémon: Detective Pikachu è un buon film d’intrattenimento per ragazzi, ma il suo valore simbolico supera quello artistico: è il primo film americano rispettoso dell’originale giapponese.

Locandina italiana di "Pokémon: Detective Pikachu" di Rob Letterman.Il 9 maggio uscirà anche in Italia Pokémon: Detective Pikachu, il primo film dal vivo dedicato alla saga crossmediale Pokémon, ideata da Satoshi Tajiri per Nintendo e celeberrima nel mondo dal 1996. La distribuzione internazionale del film occupa otto giorni: è partita il 3 maggio dal Giappone, passa l’8 e 9 nei paesi Europei, e arriva infine il 10 negli Stati Uniti d’America e in Cina.

Come il titolo lascia intuire, la pellicola è ispirata non tanto alla serie in generale, bensì specificatamente al videogioco Detective Pikachu del 2016 per Nintendo 3DS, che rappresentò un capitolo a parte, quasi sperimentale all’interno della ludografia dei Pokémon. Detective Pikachu infatti divergeva completamente dal tipo di trama e dalla meccanica di gioco dalla serie classica, introducendo per la prima volta una storia gialla con protagonista un non-allenatore e con co-protagonista un Pikachu in grado di parlare la lingua umana e non solo pika-pika. La trama del film prende numerosi elementi da quella del videogioco, in particolare dall’incipit, ma poi li rielabora in una trama originale.

Al di là dell’interesse specifico che questa pellicola può avere sul pubblico più o meno appassionato alla serie Nintendo, Pokémon: Detective Pikachu si pone come un titolo di svolta epocale nella storia dei film statunitensi tratti da franchise giapponesi, perché questo film non è la parodia, non è la brutta copia, non è “in stile”, non è liberamente ispirato, non è la rielaborazione, non è la versione politicamente corretta, non è spostato culturalmente, non è appropriato culturalmente, non è traviato, non è frainteso, non è irrispettoso, non è contraddittorio, in parole povere non è in nessuna maniera sostanzialmente diverso dall’opera originale.

Ci sono voluti molti anni, 26 anni per la precisione, a partire da quel 1993 in cui vide la luce il famigeratissimo film Super Mario Bros. con Bob Hoskins e John Leguizamo nei panni di Mario e Luigi, per avere finalmente un film statunitense che rendesse giustizia al suo corrispettivo giapponese, magari non completamente giustizia, ma almeno che rendesse a suo modo giustizia al corrispettivo giapponese.

Immagine promozionale per "Super Mario Bros." di Rocky Morton e Annabel Jankel.
Questa immagine old style nel formato delle confezioni delle cartucce per Super Nintendo è la cosa migliore di Super Mario Bros.: l’effetto nostalgia non deve distrarre dal fatto che era un prodotto orribile e le testine di lucertola erano terrificanti.

Certo, per quanto co-finanziato e approvato in tutte le sue fasi fin dalla pre-produzione dai giapponesi, Pokémon: Detective Pikachu è comunque un prodotto hollywoodiano a tutti gli effetti, nella sceneggiatura come nella regia, ma ha dalla sua parte quel singolo, potentissimo, fondamentale elemento che, nel caso di film tratti da fumetti & simili, distingue immancabilmente le opere da cestinare al primo sguardo da quelle riuscite come questa: il rispetto del design originale. Pokémon: Detective Pikachu non cambia niente, nemmeno il benché minimo dettaglio, dai mostri giapponesi così come li avevano disegnati gli autori originali, a parte trasferirli in un bel 3D fotorealistico e quindi munirli di peli, piume e squame verosimili. Stop, fine delle modifiche. Anzi, durante tutto il film su elementi della scenografia (poster, insegne, eccetera), nei titoli di coda e in generale ogni volta che i mostri appaiono in versione 2D, sono disegnati proprio con il loro design storico, intonso.

Per quanto possa sembrare una banalità, questo uovo di Colombo del non tradire il design originale giapponese è in realtà un fattore totalmente nuovo nella nutrita filmografia occidentale di titoli giapponesi. Se alcune opere recenti quali Alita – Angelo della battaglia si erano già dimostrate piuttosto sensibili a questo tema (forse perché i realizzatori James Cameron e Robert Rodriguez sono effettivamente dei mangofili), sono invece numerosi i titoli che hanno lasciato di stucco il fandom per la distanza visiva dalla loro controparte originale: oltre al succitato Super Mario Bros., altri esempi tristemente celebri sono Dragonball Evolution o il Death Note di Netflix, film di cui il meglio che si possa dire è non dire niente.

Fotogramma da "Death Note - L'ultimo nome" di Shusuke Kaneko.
Come ha potuto Netflix anche solo pensare di rimpiazzare Ken’ichi Matsuyama con un qualsiasi altro attore al mondo per interpretare L?

La questione non è assolutamente di secondaria importanza, perché nel caso di opere nate come parole + immagini come fumetti, videogiochi e altro, il contenuto e la sua rappresentazione sono entrambi parti costituenti dell’opera al 50%. Sono entrambe fondamentali, sono entrambe l’opera. Di più: solo insieme sono l’opera.

Potremmo persino parlare di opere semplici e opere composte per indicare rispettivamente quelle opere che vengono fruite attraverso un solo canale comunicativo (come i romanzi, i dipinti o le sinfonie, che sono composti solo da parole, immagini o suoni) o attraverso molti canali comunicativi (come i film, che sono composti da parole, immagini e suoni): indipendentemente dalla qualità, le prime lasciano molta più libertà immaginativa al fruitore delle seconde. Sulla questione è entrata qualche tempo fa anche la scrittrice J.K. Rowling la quale, in una querelle sulla scelta di un’attrice nera per interpretare Hermione Granger, ha risposto chiaramente che poiché nei sette libri della saga Harry Potter non viene mai specificato il colore della pelle di Hermione, non c’è nessunissimo ostacolo a considerare il personaggio con la pelle non-bianca o a darlo come ruolo ad attrici di qualsiasi etnia. A rigor di logica, questo tipo di ragionamente invece non può funzionare (pur con tutte le eccezioni del caso) per le opere composte, in cui fattezze di personaggi e oggetti sono parte integrante dell’opera e non un suo dettaglio. Per citare Tito Faraci, nel caso di opere composte «la forma è la sostanza».

L’esempio più recente di quanto il design sia importante nelle opere composte è stato dato proprio nell’ambito della versione cinematografica statunitense di un franchise videoludico giapponese, con l’uscita pochissimi giorni fa del trailer di Sonic the Hedgehog, il nuovo film Paramount dedicato al celebre riccio blu. La bruttezza indifendibile del personaggio principale, certamente il risultato delle scelte di affaristi ignoranti, ricorda le tragicomiche produzioni del Cambria Studio anni ’50-’60 come Clutch Cargo o Captain Fathom, le cui animazioni erano realizzate sovrapponendo vere bocche umane a disegni statici ottenendo un effetto profondamente perturbante: proprio come accade nel Sonic della Paramount, dove un corpo dalle proporzioni perfettamente umane è sormontato da una testa sproporzionata eppure dotata di tratti somatici antropomorfi e verosimili, con un risultato molto più vicino all’horror che alla commedia.

Fotogramma del film "Sonic the Hedgehog" di Jeff Fowler.
Fa paura, dai, è proprio la dimostrazione dell’uncanny effect.

Tutto ciò in Pokémon: Detective Pikachu non accade, miracolosamente o finalmente (scopriremo in futuro se il trend si manterrà o se sarà un caso isolato), e i mostri tascabili sono graziosi, paurosi, grandiosi o disgustosi proprio come lo erano in originale. In particolare, è proprio Pikachu il personaggio virtuale più riuscito, e la dimostrazione viene dal fatto che nonostante sia doppiato dal vocione virile di Ryan Reynolds (Francesco Venditti nella versione italiana e Hidetoshi Nishijima in quella giapponese) non c’è un solo fotogramma del film in cui non sia assolutamente adorabile come un peluche morbidoso quale è.

Tre fotogrammi di "Pokémon: Detective Pikachu" di Rob Letterman.
STRAPAZZAMI DI COCCOLE. ❤️❤️❤️
Tre fotogrammi di "Pokémon: Detective Pikachu" di Rob Letterman.
Alcuni degli altri Pokémon che compaiono nel film, in cui se ne vedono provenienti da un po’ tutte le generazioni. In alto Bulbasaur: è stato notato quanto sia simile al drago Sdentato della serie DreamWorks Dragon Trainer. Al centro Charizard (immagine scelta esclusivamente per mostrare ancora una volta quant’è carino Pikachu anche a un passo dalla morte). In basso Jigglypuff, che appare in un cameo brevissimo e divertentissimo in cui lavora come cantante di pianobar.

Oltre alla sua importanza simbolica e all’eccellente resa qualitativa della CGI ottimamente calata nelle riprese con attori dal vero, Pokémon: Detective Pikachu è anche un buon film, pregio niente affatto scontato dato che poteva rivelarsi solo una bieca operazione commerciale o peggio ancora un noioso catalogo di citazioni come Ready Player One, e invece riesce a riempire i suoi 104 minuti di avventura e divertimento con alcuni momenti cinematografici molto pregevoli. D’altronde il regista è Rob Letterman, che proprio dieci anni fa realizzò Mostri contro alieni, il miglior film in assoluto della DreamWorks escludendo quelli realizzati da animatori ex Disney (gli splendidi Dragon Trainer e I Croods, realizzati da Dean DeBlois e Chris Sanders, i registi di Lilo & Stitch), e che era reduce dal suo precedente film Piccoli brividi, anch’esso in tecnica mista e anch’esso molto piacevole.

Anche in questo caso tutto funziona molto bene per gli standard di un film d’intrattenimento a target prevalentemente giovanile, con in più alcuni notevoli tocchi qualitativi quali la fotografia di John Mathieson notturna, metropolitana e iridescente à la Blade Runner, la sceneggiatura brillante che si fa comica nelle battute di Pikachu (stupenda la scena in cui la natura si rivolta contro i personaggi e Pikachu commenta con un «Dopo tutto questo, come si fa ancora a negare il cambiamento climatico?»), e soprattutto le numerosissime citazioni cinematografiche, da Inception (la terra che si solleva in verticale) al primo Batman di Tim Burton (la parata con i palloni giganti), fino alla luce al neon verde smeraldo come ne La donna che visse due volte, e persino, meraviglia delle meraviglie, una divertentissima e totalmente inaspettata citazione di Mamma, ho perso l’aereo.

In questo momento in Giappone Detective Pikachu sta rivaleggiando nei cinema con Detective Conan, il cui ultimo film Konjō no fist (“Il pugno di zaffiro”) sta riscuotendo enorme successo di pubblico. Per i dati economici su Pokémon: Detective Pikachu bisognerà ancora aspettare qualche giorno, ma quello che già si può dire è che è un film molto superiore alle aspettative, ben confezionato, citazionista il giusto, nostalgico il giusto, ironico il giusto, che accontenta in maniera diversa sia lo spettatore occasionale sia il fan della serie, e che si spera possa inaugurare il nuovo corso di collaborazioni nippostatunitensi nel segno del rispetto reciproco. Un tuonoshock per l’evoluzione dei franchise giapponesi a Hollywood.

3 thoughts on “Pokémon: Detective Pikachu – Una elettrococcola di film

  1. Tra tutte le recensioni che ho letto, questa è probabilmente quella che meglio cattura lo spirito del film. E, come sempre, ottimo il lavoro di ricerca e analisi che c’è intorno. Complimenti!

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