Wednessday Warrior #43 – Harley Quinn e Bloodshot

Questa settimana su Wednesday Warriors:

Bam’s Version

BLOODSHOT #1 di Tim Seeley e Brett Booth.

La nostalgia è una brutta bestia, tanto dolce quanto infida. Più e più volte, specie negli ultimi anni, autori ed artisti hanno saputo riprendere e, nei casi migliori, innovare partendo da alcuni elementi storici. Richiami narrativi di certo successo che, ancora oggi, riescono a catturare l’occhio dei fan – una chiave fondamentale nella nostra cultura assorbita dai social, con l’attenzione effimera come il battito d’ali di una farfalla.
In questa sua nuova incarnazione, Valiant ha saputo unire il gusto per la nostalgia di una delle più importanti case editoriali “minori” del mercato statunitense ad un marcato interesse verso la sperimentazione e la promozione di nuovi autori emergenti. In quest’ottica, gli anni trascorsi su “Bloodshot” di Jeff Lemire rappresentano al meglio la commistione tra ruggito nostalgico e maturità creativa.
Bloodshot, in una vita passata Ray Garrison, è una macchina di morte, un Terminator dal cuore sintetico nobile, dotato di un fenomenale fattore di rigenerazione ed un corpo composto da milioni di naniti. Un fantasma bianco come la neve, sporcato da un sole rosso al centro del petto e occhi vermigli, Bloodshot è il figlio perfetto del Progetto Spirito Nascente – talmente perfetto da essere cresciuto e aver ripudiato il suo creatore. Come la Creatura di Frankenstein, ma con più mitra, Bloodshot ha combattuto il Progetto per guadagnarsi la sua libertà, lontano dal giogo di corporazioni senza scrupoli, businessmen assetati di potere, guerrafondai, pazzi dal complesso messianico e molto, molto altro ancora. Sotto la penna dello scrittore canadese, Bloodshot ha riscoperto la sua natura umana nascosta tra le vestigia del soldato supremo, l’implacabile macchina di morte. Da Bloodshot Reborn passando per Bloodshot U.S.A. e Bloodshot Salvation, Jeff Lemire riuscì a trovare la giusta tra action e introspezione. Lo sviluppo del protagonista e delle sue emozioni era centrale alla narrazione, che permesso all’autore di ritrovare Ray Garrison come uomo e padre senza abbandonare la propria natura action/thriller.
Con l’avvento di un blockbuster di grosse proporzioni dedicato al personaggio, il debutto di Vin Diesel come protagonista e la nuova proprietà Cinese, la scelta della Valiant di un ritorno ad atmosfere decisamente meno cerebrali e più votate allo spirito originale della creazione di Van Hook e Guichet è comprensibile: rinasce, dunque, Bloodshot in una nuova serie regolare firmata Tim Seeley e Brett Booth – un team creativo che urla spalline, pistoloni ed enormi pettorali.
Gettata la sottigliezza dal finestrino di un camion in corsa e dopo un breve capolino ad un G7 francese, Seeley e Booth optano per un inizio in medias res, con un gruppo di soldati in Yemen, pronti ad aprire il fuoco su una madre ed il suo bambino, immigrati clandestini nascosti in un container appena scaricato al porto. La mancanza di effettivo contesto narrativo è tristemente premonitrice: Seeley evita di colmare alcuni vuoti, preferendo un approccio generico senza alcun dettaglio specifico. Scelta volontaria, sicuramente, ma poco favorevole alla buona riuscita dell’albo. Come un fulmine a ciel sereno, Bloodshot irrompe sulla scena, eliminando senza troppe cerimonie il soldato più carismatico e lanciando il lettore nella caotica parte centrale e focale di questo #1.
Bloodshot #1 è un fumetto grezzo e palesemente votato a richiamare la frenesia dei vari Liefeld, Portacio e compagnia anni ‘90 – compagnia della quale, del resto, faceva parte anche Brett Booth. Le chine di Adelso Corna ed i colori di Andrew Dalhouse enfatizzano l’approssimazione, le incertezze e la frenesia del tratto di Booth, ispirato in questa occasione a lasciarsi andare in una lunghissima sequenza action. Bloodshot, in uno dei rari momenti carichi di una certa emotività, assorbe una raffica di proiettili cercando di rassicurare i due poveri clandestini. Seeley cattura l’idea del Bloodshot immortale ed inarrestabile, ma sembra anche carpirne il lato più umano – è davvero un peccato che questa pagina sia soffocata dai proiettili e dagli schizzi di sangue.
Le sequenze di Booth sembrano incastrate in una griglia da cinque vignette tutt’altro che regolare: a volte spezzate dalla diagonalità, accompagnata dal movimento dei proiettili, altre volte frammentate dalle esplosioni di veicoli e strutture. Il fumetto sembra crogiolarsi in una caoticità artistica che muove l’occhio del lettore da destra a sinistra, una confusione sequenziale che disorienta e non aiuta la fruizione dell’inseguimento in atto.
Seeley soffoca sotto Booth, che occupa gran parte delle sue pagine con fiamme, fumo e linee cinetiche. Si nota, tuttavia, una ritrovata verbosità del protagonista: Bloodshot è cartoonesco nelle sue espressioni, volutamente ispirate dalle battute dei vari Schwarzenegger e Van-Damme. A discapito della caratterizzazione cercata e trovata da Jeff Lemire, Seeley adotta ad un registro completamente diverso per il suo protagonista, più secco ed immediato con accenni di forte disturbo mentale – al punto tale da sembrare quasi psicotici e Deadpool-eschi.
Le ultime pagine dell’albo sono dedicate all’introduzione della nemesi di turno: Seeley e Booth riavvolgono il nastro, tornando alla scena d’apertura del numero, rivelando al lettore l’esistenza di un’organizzazione nota come Black Bar, guidata dal tecno-commando Generale Grayle. Seeley, in un’altra strana scelta di tempi e ritmi, introduce l’elemento più interessante dell’albo dietro linee di dialogo ed esposizione, lasciando a Grayle il compito di spiegare al lettore chi è Bloodshot – e perchè un’arma di distruzione di massa simile non può essere lasciata a piede libero. Il design dei nuovi nemici di Bloodshot è quantomeno interessante, dalle chiare influenze anime – corpi longilinei sotto maschere, cappucci e placche di metallo, visori e impianti cibernetici. Booth ha l’accortezza di far respirare il lettore, allargando la sua caotica griglia e permettendo così un buon impatto con il Generale Grayle e la sua letale aiutante dal braccio metallico.

Bloodshot #1 è un albo che segue una regola semplicissima e perfettamente in tono con il personaggio – “Shoot first, ask questions later”. Il ritmo frenetico e l’azione esplosiva sono assoluti protagonisti di 30 pagine narrativamente scarne, ridotte alle componenti essenziali. Seeley e Booth non offrono motivazioni sufficienti per essere emotivamente investiti nella lunga sequenza action che costituisce il nucleo dell’albo. L’introduzione dei nuovi risvolti di trama arriva in chiusura d’albo e appare terribilmente raffazzonata. Intervallando la presentazione del Generale Grayle alla carneficina compiuta da Bloodshot avrebbe risolto molti problemi dell’albo, che risulta decisamente poco ispirato e ritmicamente sballato – il risultato meno gradito per un debutto, specialmente di uno dei personaggi di punta dell’intera compagnia.  Ciononostante, il cliché dell’uomo solo contro il mondo si presta bene al personaggio, l’introduzione di Black Bar lascia un intrigante cliffhanger e, con questa potenza di fuoco dimostrata e più accortezza ed attenzione sul piano testuale, Seeley e Booth hanno ancora la possibilità di aggiustare il tiro in corsa e donare sostanza ad un personaggio fondamentale del mosaico Valiant.

Gufu’s Version

HARLEEN #1 di Stjepan Šejić

L’arrivo nelle sale cinematografiche di due pellicole molto attese come Joker e Birds of Prey ha favorito il fiorire di una serie di progetti dedicati alla storica nemesi di Batman e alla sua (ex?)innamorata.
Harleen è uno dei progetti ambiziosi messi in campo dalla Black Label, la neonata linea editoriale dedicata ai prodotti “for mature readers” della DC Comics che vede protagonista la dottoressa Harleen Frances Quinzel, nota ai più come Harley Quinn.
Creata da Paul Dini e Bruce Timm per la serie animata di Batman e successivamente introdotta nella continuity regolare della DC Comics, Harley Quinn nasce come personaggio “accessorio” del Joker: pur essendo protagonista di storie dalla caratura notevole, non trova mai una sua caratterizzazione autonoma ed è, in diverse misure, sempre definita da personaggi esterni.
Le cose cambiano nel 2013 con l’arrivo della serie regolare ad opera del duo Amanda Conner/Jimmy Palmiotti che regalano alla nostra eroina la sua identità attuale portandola a successi di pubblico che pochi personaggi dei fumetti conoscono.
La sensazione è che in questo momento storico la DC Comics stia cercando di imprimere una svolta (o un’evoluzione se preferiamo) al personaggio per evitare di farlo stagnare in uno stereotipo di se stessa: sebbene Sam Humphries stia facendo un lavoro eccellente sulla serie regolare, sembra che l’obiettivo di Stephan Šejić sia quello di dare un segno di maggiore discontinuità con il recente passato del personaggio.
Non è un caso che questa miniserie si chiami Harleen e non Harley Quinn: questa rinarrazione delle origini di Harley va a inserirsi in quel filone, il Nuovo Umanesimo Supereroico di cui abbiamo parlato a più riprese, che rimette al centro gli uomini e le donne dietro alle maschere.

Šejić opta per una narrazione soggettiva al passato, stratagemma che si rivela efficace anche in funzione critica-metatestuale su tutto il percorso editoriale della protagonista, è la Harley del presente a raccontarci la sua stessa storia utilizzando uno stile di scrittura denso e ricco di didascalie narrative. Il risultato è forse un po’ troppo prolisso, ci sono alcuni passaggi che l’autore avrebbe potuto snellire, ma mai ridondante nei contenuti: non c’è nulla di suggerito o lasciato all’interpretazione soggettiva del lettore ma il testo, più vicino alla forma del romanzo che a quello del fumetto, è funzionale all’approfondimento psicologico.
Questa prolissità incide anche in maniera determinante sul ritmo generale dell’opera che risulta generalmente un po’ stiracchiato e blando. Mi sembra chiaro che sia una scelta consapevole tesa a sfruttare le caratteristiche del prodotto Black Label, che non ha le necessità tensive e di azione tipiche del fumetto supereroistico seriale, concedendosi maggiore spazio e tempo nell’esposizione del personaggio permettendo così all’autore di approfondire la caratterizzazione dei suoi personaggi.
Šejić ha evidentemente “fatto i compiti a casa”, la sua Harleen è una psichiatra credibile negli obiettivi e nell’esposizione delle sue teorie che la portano a lavorare all’Arkham Asylum: anche le figure di contorno, come Hugo Strange e Harvey Dent, sono tratteggiate in maniera interessante e lontane dagli stereotipi a cui siamo abituati. L’autore riesce anche nel notevole intento di mantenere il focus su Harleen anche in presenza di personaggi ingombranti come Batman e Joker che, anche nei momenti in cui sono coinvolti entrambi, non rubano mai la scena alla protagonista.
Sorprendentemente, per un autore che nasce come disegnatore, le note dolenti arrivano proprio dalla messa in scena: il disegnatore croato sembra alla ricerca di una sintesi del tratto che lo allontani dallo stile elegante e descrittivo delle sue ultime prove su Aquaman e Justice League Odyssey trovandosi però a “metà strada” proprio in questo primo albo di Harleen: un segno che sembra incerto e che si appoggia eccessivamente al colore. Anche l’esposizione generale risulta troppo sottolineata ed esplicita: il Joker è incredibilmente affascinante, perché già sappiamo che dovrà conquistare Harleen, e per nulla un freak; la collega invidiosa di Harley è sempre alle sue spalle a guardarla in tralice e così via. Tutto estremamente “telefonato”.
L’effetto finale è quindi smaccatamente kitsch e generalmente un po’ goffo, al di sotto di quanto Šejić ha fatto vedere in precedenza.
Harleen #1 si presenta come un progetto ambizioso, ricco di buone idee e potenzialità ma che pecca nell’esposizione: merita comunque di essere preso in considerazione nell’economia generale dello sviluppo di uno dei personaggi più in vista dell’attuale panorama dei comics USA.

First Issue!

SPIDER-MAN #1 di J.J Abrams, Henry Abrams e Sara Pichelli

L’esordio in casa Marvel degli Abrams, pur non portando particolari ventate di freschezza alla cinquantennale storia del nostro Uomo Ragno di quartiere, si dimostra riuscito e particolarmente interessante sotto l’aspetto simbolico. Una storia a fumetti che indaga la conflittualità dei rapporti familiari, con un occhio attento ai turbamenti e le paure delle nuove generazioni che affrontano dubbi e aspettative del futuro senza una giusta guida da parte degli adulti.

LEGGI QUI LA RECENSIONE COMPLETA

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