The Lion King – Il musical da Broadway al mondo intero

A 25 anni dal suo debutto nelle sale cinematografiche di tutto il mondo, Il re leone non ha ancora smesso di affascinare il pubblico di tutto il mondo. Dimensione Fumetto dedica una settimana a questo titolo fondamentale del marchio Disney nelle sue varie incarnazioni dentro e fuori il mezzo animato.

Nel quarto articolo: uno sguardo su The Lion King, il musical teatrale di straordinario successo mondiale ispirato al film del 1994.


Seconda produzione di Disney Theatrical Productions, dopo il successo di Beauty and the Beast (1994), The Lion King rimane di gran lunga il musical Disney col maggior successo di pubblico e critica, e nemmeno titoli recenti come Aladdin e Frozen sembrano averne eguagliato il successo.

Ancora oggi, a 22 anni dal primo spettacolo negli USA e dopo innumerevoli Tony e Olivier Awards, tra cui il Tony per Miglior Musical, resta uno dei biglietti più ambiti da turisti e appassionati, a Broadway come nelle altre città in tutto il mondo dov’è andato in scena. Come già per Beauty and the Beast, il successo della versione inglese ha portato a tour internazionali e a produzioni in lingua locale, dal tedesco all’olandese, dal coreano allo spagnolo – curiosamente, la prima versione in lingua non inglese è stata quella giapponese, ad appena un anno dal debutto a Broadway, col risultato che Tokyo aveva una produzione in scena prima ancora che lo show arrivasse a Londra.

Da Broadway, dove arriva nel 1997, The Lion King (o TLK, per brevità) debutta a Londra il 19 ottobre 1999 al Lyceum Theatre, uno dei teatri più grandi e prestigiosi del West End, e da lì non si è più mosso, ma in Europa è possibile al momento vederlo anche ad Amburgo e Madrid. Solo a Londra, nel corso di 20 anni lo show è stato visto da più di 16 milioni di persone. A livello mondiale, si parla di oltre 100 milioni di spettatori, divisi in 25 produzioni. Invariabilmente, Circle of Life si conclude con il boato di migliaia di spettatori estasiati da una delle scene iniziali più epiche di sempre per un musical (per chi ha già visto lo show o volesse rovinarsi la sorpresa, c’è un video VR su YouTube).

Lo show

Critici e pubblicità hanno già detto tutto, per non parlare delle spettacolari immagini promozionali, ma The Lion King è uno dei rari casi di “believe the hype”. Partire da un film che ha infranto ogni record di incassi e che vanta una colonna sonora da Oscar è senza dubbio un vantaggio, ma questo da solo non giustifica 20 anni e più di recite pressoché sold out, otto volte a settimana, in tutto il mondo. Mary Poppins, Aladdin, Beauty and the Beast vanno e vengono, The Lion King resta.

Il segreto sta in uno strepitoso lavoro di squadra a livello di regia, scenografie, coreografie e costumi, come a livello musicale e interpretativo. Leoni disegnati diventano ibridi umano-felini con copricapi e body painting che rispecchiano il carattere del personaggio, le leonesse cacciano con movenze di danza acrobatica, e gli animali e la savana vengono portati in scena da burattinai allo stesso tempo visibili e invisibili con una tecnica ispirata al teatro delle ombre indonesiano, in un gioco di illusioni che ancora oggi stupisce come il primo giorno. Tutto è curato nei minimi dettagli, dalla bombetta del maggiordomo Zazu (accento British, of course) agli anfibi indossati dalle anarchiche iene.

Julie Taymor è la regista e l’autrice del design di maschere e marionette, con alle spalle lavoro nel mondo dell’opera e del teatro di prosa. Per il suo lavoro a The Lion King ha vinto un Tony per Miglior Regista di un musical, la prima donna ad aver ricevuto il premio. È in buona parte grazie a lei che il musical va oltre il semplice adattamento e diventa un’opera indipendente, che merita di essere vista anche se non si conosce (o non si è fan) del materiale di partenza.

La musica

Dall’altra parte c’è il lavoro fantastico fatto in ambito musicale: in generale, la colonna sonora originale viene indirizzata verso un suono meno sinfonico e più “tribale”, con lingue africane che affiancano l’inglese per tutto lo spettacolo, percussionisti visibili dal pubblico nei palchi laterali e frequenti momenti corali, che si tratti degli animali della Terra del Branco o delle leonesse.

Hans Zimmer e il compositore sudafricano Lebohang “Lebo M” Morake, Mark Mancina, Jay Rifkin e gli autori delle canzoni Elton John e Tim Rice hanno rimesso mano al materiale scritto per il film, ma hanno anche adattato e composto diverse nuove canzoni. Oltre alla colonna sonora ufficiale, si è attinto a piene mani dal disco Rhythm of the Pride Lands (1995), che includeva altre canzoni e musiche strumentali ispirate al film.

Del resto il cartone animato del 1994 ha soltanto cinque canzoni vere e proprie (sei includendo The Morning Report, poi tagliata): Circle of Life (Il cerchio della vita), I Just Can’t Wait to Be King (Voglio diventar presto un re), Be Prepared (Sarò re), Hakuna Matata e Can You Feel the Love Tonight (L’amore è nell’aria stasera).

Personaggi chiave come Mufasa, Nala e Rafiki hanno nel musical molto più spazio e questo soprattutto grazie alle nuove canzoni che vengono scritte (o adattate) per loro. He Lives in You, nota anche per essere cantata da un’antagonista de Il Re Leone II (1998), diventa la canzone e il tema ricorrente di Mufasa, uno dei momenti più toccanti di tutto il musical. Uno dei temi della strumentale This Land, già diventata canzone in Rhythm of the Pride Lands, diventa Shadowland, dove Nala racconta la desolazione sotto il regno di Scar e la decisione di partire a cercare aiuto. Anche il Simba adulto ha una nuova canzone, Endless Night, sul tema di Under the Stars, che esprime lo smarrimento e il dolore ancora vivo per la perdita del padre.

Discorso a parte va fatto per Rafiki, che nel musical diventa un personaggio femminile e fa da narratrice e collante a gran parte delle scene – è un ruolo che, oltre a recitare in ben cinque lingue sudafricane, richiede un’enorme carisma e talento comico e finisce per rubare la scena a ogni rappresentazione.

Il risultato, soprattutto per chi conosce la colonna sonora originale, lascia sempre a bocca aperta e fa stonare ancora di più i rari passi falsi, come la canzone del trio di iene Chow Down e The Madness of King Scar (entrambe targate Elton John e Tim Rice) che sembrano scarti recuperati all’ultimo minuto, peggiorati ulteriormente da un “arrangiamento Broadway” che più generico non si può.

Criticità

Perché sì, anche la versione musical di The Lion King ha dei punti dolenti, in parte ereditati dal film originale, e non mi stupirebbe se Julie Taymor e il suo team avessero comunque dovuto fare un enorme lavoro di mediazione con la Disney per arrivare al risultato che conosciamo.

Come nel film, agli aspetti più tragici fanno da contraltare momenti più leggeri, principalmente grazie al duo Timon & Pumbaa, ma dal momento che il musical ha dato maggiore profondità ai protagonisti, il contrasto diventa ancora più difficile da digerire. Probabilmente sono momenti necessari per non annoiare gli spettatori più piccoli, dopotutto deve restare uno spettacolo per famiglie, ma viene da chiedersi dove si sarebbe potuti arrivare senza i paletti del “musical Disney”.

Per fortuna si tratta sempre di pochi minuti su due ore e mezza, che vengono subito perdonati di fronte alla potenza visiva, emotiva e musicale di uno spettacolo che ha pochi eguali nel teatro mainstream.

Il successo internazionale

Dopo più di 20 anni, lo show ha ormai una sua propria mitologia e i suoi aneddoti, debitamente annotati da Wikipedia: attrici che hanno girato il mondo interpretando lo stesso ruolo in tre lingue diverse, performer che iniziano con una produzione locale per poi sbarcare a Broadway, oppure iniziano come Nala bambina e tornano come Nala adulta, e così via.

Si dice anche che nonostante costumi, scene e musiche siano gli stessi, le varie produzioni abbiano anche sviluppato una propria identità: lo spettacolo di Broadway ha ovviamente una forte componente afroamericana, mentre quello londinese è più “africano”, e in Cina sono state aggiunte battute specificamente per il pubblico locale.

Senza dubbio ci sono fan estremi con l’obiettivo nella vita di vedere tutti gli spettacoli nelle varie lingue, ma per i comuni mortali esiste Internet per godersi, che so, il trailer dello show giapponese…

… o Can You Feel The Love Tonight in tedesco…

… o questa delirante miniserie promozionale (sempre in Giappone) dove Simba è uno studente di scuola superiore:

Ma soprattutto, lo show è stato un’occasione per centinaia di artisti neri, e in particolare africani, di entrare nel mondo del musical e del teatro professionale. Basta vedere la lista del cast londinese, una sequela di «West End Debut», o lo scherzo pubblicato nel 2017 durante le prove del musical Showboat, dove l’intero cast ha iniziato a cantare Circle of Life, come se The Lion King fosse un rito di passaggio obbligato.

La regola che ogni produzione di The Lion King abbia almeno sei performer sudafricani nel cast, combinato alla tradizione corale del Paese, ha portato alla nascita di vere e proprie scuole dove si insegnano i vari numeri dello show nella speranza un giorno di superare le audizioni, presiedute ancora oggi da Julie Taymor, per entrare in uno dei vari cast.

In occasione dei 20 anni dalla prima rappresentazione il New York Times ha pubblicato un articolo affascinante sull’impatto che The Lion King ha avuto e continua ad avere sugli artisti sudafricani. Con le sue sonorità e colori orgogliosamente africani e un cast che supera agilmente le attuali discussioni sulla “diversity” sul palco e dietro alle quinte, dopo 22 anni The Lion King non ha perso niente della sua potenza e sembra quasi più attuale oggi che nel 1997.

In tutto ciò, e vedendo la lista infinita dei Paesi dov’è già stato rappresentato, resta la domanda: a quando in Italia?

Bonus:

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Elena Dante

Da Vicenza a Londra per seguire la musica, ma con la stessa passione per cinema, fumetti, viaggi e fotografia.

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