Settimana Raffaello – Breve storia del fumetto nella pittura italiana
DF dedica una settimana di recensioni, approfondimenti e interviste a Raffallo Sanzio, fumettista ante litteram. Primo articolo: lo strettissimo rapporto che lega il linguaggio del fumetto e la grande storia dell’arte italiana.
Anno Domini MMXX: nel cinquecentesimo anniversario della morte di Raffaello Sanzio, Dimensione Fumetto dedica una settimana al massimo artista urbinate, la cui influenza nella storia dell’arte occidentale è cosi forte ed estesa da essere arrivata fino al fumetto contemporaneo.
In questo primo articolo: un breve excursus sul legame fortissimo che lega da milleni la grande arte italiana e il linguaggio del fumetto, dai tempi degli antichi romani fino a Raffaello.
A quanto pare i fumetti sono nati in Italia. Meglio ancora: a quanto pare i fumetti sono nati in Italia, sia nel senso concettuale di “arte sequenziale” o “letteratura disegnata”, come viene definito da alcuni dei suoi più alti interpreti, sia nel senso teorico di immagini giustapposte in una deliberata sequenza, sia infine anche nel senso pratico di immagini riquadrate contenenti parole abbinate ai personaggi, ovvero le vignette coi balloon divise da closure.
Ora, se è vero come è vero, come sosteneva T.S. Eliot, che l’arte del presente non cambia l’arte del passato però influenza lo sguardo su di essa, allora è lecito osservare le opere degli antichi scorgendo in loro il germe inconsapevole di qualcosa che loro stessi ancora non conoscevano: il linguaggio del fumetto. Si badi però che le opere del passato non sono e non sono considerabili “fumetto”: lo stesso uso del termine in questo articolo, salvo dove non diversamente specificato, è da considerarsi un’abbreviazione dell’espressione “(linguaggio del) fumetto”.
Per amore di precisione semantica, specifichiamo che quello di cui parliamo qui è cioè il linguaggio del fumetto e non l’oggetto-fumetto in sé, ovvero un prodotto editoriale la cui nascita è intrinsecamente legata alle tecniche di stampa delle immagini esattamente come la nascita del cinema è intrinsecamente legata alle tecniche di impressione della pellicola. Lo stesso termine “fumetto” non esisteva in lingua italiana fino all’inizio del Novecento; persino la prima rivista italiana di fumetti, il settimanale Corriere dei Piccoli ideato da Paola Lombroso come supplemento domenicale per bambini del Corriere della Sera, non usava il termine “fumetto” bensì «storia illustrata», e i fumetti lì pubblicati avevano il testo in didascalie sotto le vignette invece che dentro quelle che al tempo si chiamavano «nuvole parlanti» (non disegnate affatto nei fumetti di produzione locale e rimosse graficamente nei fumetti importati dagli USA). Bisognerà attendere fino al 1938 per leggere la prima menzione nota della parola “fumetto” come neologismo coniato dall’illustratore Antonio Rubino, co-fondatore del succitato Corriere dei Piccoli nonché proprio l’inventore di quelle didascalie sotto le vignette invece del testo nelle “nuvolette di fumo” che hanno ispirato il termine (che ironia della sorte).
Protofumetti
Posto che è generalmente e convenzionalmente riconosciuto lo statunitense Yellow Kid di Richard Felton Outcault come primo “fumetto” in senso contemporaneo, ovvero come prima opera a stampa raffigurante una narrazione per immagini distinte in scene successive sopra cui si appongono i dialoghi contenuti all’interno di balloon (aree appositamente dedicate e provenienti dai personaggi come fossero palloncini o, in italiano, come fossero nuvolette di fumo che esce dalle loro bocche), molti studiosi si sono comunque chiesti come e quando è nata l’idea di mettere l’una a fianco all’altra delle immagini per raccontare una storia. La conclusione a cui si arriva spesso è che il fumetto in senso ampio è nato con l’uomo stesso, e che anzi si potrebbe quasi dire che la prima arte figurativa è stata proprio il fumetto: molti esempi di arte ruprestre rappresentano proprio un tentativo di narrazione per immagini in successione, anche se non è detto che abbiano effettivamente un senso e un ordine di lettura.
Con il tempo la leggibilità sequenziale delle immagini è diventata sempre più chiara e prioritaria, fino ad arrivare ai primi esempi di proto-fumetto in vari dipinti murali egizi o nel fregio continuo con la processione panatenaica del Partenone di Atene. A Roma, la Colonna Traiana dell’inizio del II secolo d.C. rappresenta un’evoluzione di tutto ciò, perché il capolavoro di Apollodoro di Damasco racconta per la prima volta non una scena fissa o un evento unico, ma una vera e propria storia lunga, articolata, con molti eventi, personaggi ricorrenti e luoghi diversi.
Il miracolo della colonna, il miracolo della vignetta
Il passaggio successivo che documenta in un sol colpo la nascita sia della lingua volgare italiana sia del linguaggio del fumetto si trova nella chiesa di San Clemente al Laterano, sempre a Roma. Scendendo in quella che oggi è la cripta, ma che era la vecchia chiesa sopra cui poi è stata costruita l’attuale, si trovano gli affreschi dell’XI secolo con gli episodi della vita di San Clemente, uno dei quali rappresenta un miracolo molto divertente: il crudele pagano Sisinnio incatena Clemente per portarlo in prigione e giustiziarlo, ma per miracolo al corpo del santo si sostituisce una colonna di marmo, e così i poveri carcerieri Gosmario, Albertello e Carboncello si ritrovano a trascinare il pesantissimo blocco lapideo.
La scena dipinta è esilarante: Sisinnio dice in italiano volgare ai tre servi «Fili de le pute, traite!», questi rispondono «Albertel, trai!» e «Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!», e la colonna parlante dice loro (in latino) “A causa della durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare delle pietre”. Certo, manca il balloon vero e proprio inventato da Outcault, ma per il resto la chiarezza della scena, la narratività e il preciso abbinamento personaggio-battuta sono esattamente quelli di un fumetto, come reso ancora più chiaro dal fatto che la colonna parlante esce dall’edificio rappresentato come uno spazio quadrangolare definito: una vignetta.
Durante il Medioevo l’arte della narrazione per immagini diventa sempre più diffusa, con la nascita in luoghi e tempi diversi di numerosi linguaggi visivi innovativi e strettamente imparentati al fumetto, inclusi i codici miniati, le biblia pauperum e altre manifestazioni artistiche. Il caso dell’arazzo di Bayeux è molto noto ed è certamente arte sequenziale, ma la sua effettiva leggibilità è opinabile poiché le scene fluiscono le une nelle altre e non sempre si capisce quando finisce una e inizia l’altra.
Racconti per immagini
È di nuovo in Italia che la narrazione per immagini assume un senso e un ordine logico con le Storie della vita di San Francesco. Le storie furono affrescate nella basilica superiore di Assisi alla fine del XIII secolo da un gran numero di artisti probabilmente guidati da Giotto, il quale inventò quello che oggi viene chiamato “ciclo”, cioè la narrazione unitaria e omogenea di una certa storia dall’inizio alla fine, diversamente dalla tradizione precedente in cui chiese e palazzi erano spesso decorati in stili diversi e tempi diversi da mani diverse in modi diversi.
Per raccontare la vita del santo, Giotto divise lo spazio a disposizione in 28 rettangoli uguali ben distinti, scansiti da colonne dipinte e contenenti episodi successivi, in cui Francesco ha sempre la stessa riconoscibile fisionomia, e anche se non ci sono le parole è tutto perfettamente comprensibile: un cast fisso che recita una storia divisa in riquadri, arte sequenziale, letteratura disegnata, fumetto.
L’invenzione di Giotto fu così geniale da aver dato il via di fatto all’intera produzione della pittura muraria narrativa rinascimentale, con opere come le Storie di San Pietro nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze o le Storie della Vera Croce nella chiesa di San Francesco ad Arezzo.
L’idea si trasferì anche ai dipinti su tavola: fra i molti esempi, la predella col Miracolo dell’ostia profanata di Paolo Uccello, un pittore già molto uso ai cicli pittorici, presenta una storia unica con una esplicita scansione in vere e proprie vignette divise da fasce intermedie che generano il meccanismo psicologico della closure, ovvero il lavoro mentale del cervello di riempimento automaticamente del gap fra una scena e l’altra.
Nel frattempo però altri pittori avevano ripreso l’antico modello della vignetta unica, usandola per scene singole o multiple. Sono celeberrimi i casi dell’Annunciazione di Simone Martini, a scena singola, in cui si usano le parole scritte che escono dalla bocca dell’angelo in direzione delle orecchie di Maria, e dell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, a scena multipla, in cui si racconta una storia lunga con personaggi ricorrenti rappresentati più volte: i Re Magi si vedono piccolissimi in alto a sinistra ammirare la stella cometa, poi un po’ più grandi a cavallo arrivare a Gerusalemme, poi ancora piccolini in corteo in alto a destra e infine grandi in primo piano, narrando un’unica storia con unità di spazio (il paesaggio è unico).
L’arrivo di Raffaello
Col progressivo abbandono durante il XV secolo dei polittici a favore delle grandi pale, il modello a vignetta unica a scena singola finisce per prevalere su quello a scene. È proprio in questo filone che si inserisce Raffaello Sanzio, la cui assoluta, radicale, incomparabile influenza nella storia dell’arte non è mai venuta meno negli scorsi 500 anni, dalla sua morte nel 1520 fino alla più recente contemporaneità. Benché il soggetto più celebre e di gran lunga più numeroso nella produzione dell’urbinate sia quello della Madonna col Bambino, durante la sua non lunga carriera Raffaello ha affrontato anche opere a contenuto narrativo, in alcune delle quali ha sfruttato in maniera assolutamente innovativa e funzionale il linguaggio del fumetto, impiegandolo in vignette uniche sia a scena singola sia a scena multipla.
Il primo caso è rappresentato da un’opera considerata di profonda rottura non solo per la carriera di Raffaello, ma per la storia dell’arte occidentale in generale: la cosiddetta Deposizione, tavola centrale della Pala Baglioni dipinta nel 1507 per una chiesa perugina e le cui parti sono oggi disperse in tre musei. Raffaello venne incaricato di dipingere su commissione un soggetto assolutamente standard, ovvero il compianto sul Cristo morto, ma la tradizionale idea iniziale di un gruppo di persone ferme e sedute che piangono sul defunto evolve man mano negli schizzi preparatori in qualcosa di assolutamente nuovo: una immagine in movimento che non racconti una scena, ma quattro, e in questo modo racconti una storia.
La sfida di Raffaello fu di non usare le vecchie tecniche come la ripetizione dei personaggi, ma di costruire un’immagine sola che mostri contemporaneamente le quattro scene: ① la deposizione di Gesù dalla croce, ② il trasporto, ③ il compianto e ④ la deposizione nel sepolcro.
Raffaello vinse la sfida: su una tavola pressoché quadrata dispose persone e cose per creare un moto circolare in senso orario, formando una U che parte in alto a destra con il Golgota e le croci da cui sono appena stati deposti i tre morti, prosegue verso il basso col gruppo della Vergine e delle pie donne che la sostengono mentre sviene, continua ancora verso sinistra col gruppo dei trasportatori di Gesù verso cui si getta una Maddalena in lacrime, e poi sale fino alla zona in alto a sinistra dove si vede il sepolcro verso cui si stanno dirigendo i personaggi.
Senza usare una sola parola, Raffaello riesce a racchiudere una storia intera in una vignetta unica.
L’artista riuscirà a superarsi qualche anno dopo, quando verso il 1514 dipinse a Roma, nella seconda delle stanze dell’appartamento di papa Giulio II, quattro scene di miracoli tutti molto fumettistici. Uno di questi è letteralmente un racconto d’avventura mistico (o magico, a seconda della sensibilità religiosa dello spettatore): la Liberazione di San Pietro, incatenato in carcere da Erode e liberato nottetempo da un angelo che fa addormentare le guardie carcerarie. Raffaello sfruttò la forma irregolare su cui dovette lavorare, ovvero una grande lunetta con in mezzo una finestra a formare una specie di C verso il basso, per costruire di nuovo una narrazione a vignetta unica, ma stavolta a scena multipla.
Per prima cosa Raffaello sfruttò a suo vantaggio la forma della lunetta tripartendola in maniera illusionistica: la parte centrale sopra la finestra rappresenta l’interno del carcere, che due mura possenti dividono dalle parti curve a destra e sinistra dove invece ci sono le scalinate d’accesso. Come nel Miracolo dell’ostia profanata di Paolo Uccello, anche qui c’è unita di spazio, ma stavolta per la closure non si utilizza un elemento estraneo alla narrazione come le colonnine rosse, ma bensì le mura del carcere, cioè la stessa scenografia della narrazione, proprio come fosse un’unica grande scenografia teatrale.
Raffaello arrivò qui anche oltre il fumetto, perché nel realizzare una tripla scena miracolosa e concitata, fra luci e ombre e sussurri e grida, arriva a suggerire allo spettatore anche i possibili movimenti e suoni dei personaggi, in una sorta di prefigurazione cinematografica.
Raffaello dai muri alle pagine
Per quanto possa risultare una lettura poco ortodossa, Raffaello Sanzio è stato quindi in qualche maniera anche un autore di meravigliosi fumetti, e i fumetti si sono interessati a lui. Per esempio, tralasciando le tartarughe ninja, gli omaggi risqué di Milo Manara e i numerosi fumetti che trattano di arte e artisti in generale, su queste pagine abbiamo già parlato qualche tempo fa della biografia romanzata di Alessandro Bacchetta, autore che abita in quella stessa Città di Castello dove anche Raffaello passò una parte importante della sua vita.
Per omaggiare questo grande fumettista inconsapevole, Dimensione Fumetto gli dedica tutta una settimana di recensioni, approfondimenti e interviste che lo riguardano molto da vicino, per dimostrare quanto, a 500 anni da quel fatidico 1520, l’arte di Raffaelo è oggi più viva che mai.
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