Pinocchio di Guillermo del Toro: diventare un burattino vero

Dopo oltre un decennio di pre-produzione, Guillermo del Toro è finalmente riuscito a finire il suo Pinocchio, ed è una meraviglia completamente reinventata rispetto al classico di Carlo Collodi.

Stando a Wikipedia in lingua inglese, dall’inizio della storia del cinema a oggi sono stati prodotti in tutto 199 lungometraggi animati con la tecnica della stop motion, come si chiama in inglese, o passo uno, come si chiama in italiano. Se anche Wikipedia (per sua natura incompleta e fallibile) avesse dimenticato qualche titolo, non cambierebbe il fatto che si tratta di un numero incredibilmente ristretto di film, meno dello 0,04% del totale di tutti i film mai prodotti dal 1895 a oggi, stimati in circa 500’000. Molti di più sono i cortometraggi e soprattutto le serie TV realizzate in stop motion, ma anche mettendo insieme tutta la produzione mai realizzata con questa tecnica si riuscirebbe comunque a guardarsela tutta comodamente in binge watching nel giro di un paio d’anni, un’impresa impossibile con qualunque altra tecnica del cinema.

Perché i film in stop motion sono così pochi? La risposta è facilissima: si tratta senza ombra di dubbio della più complessa, faticosa, lunga e dispendiosa di tutte le tecniche di ripresa cinematografica, a cui si aggiunge il fatto che, essendo una forma di animazione, soffre del grande stigma del cinema d’animazione tutto, ovvero di essere per bambini.

Un film in stop motion è fondamentalmente un film in cui ogni singolo fotogramma è una foto scattata singolarmente. Considerando che in un secondo di film ci sono 24 fotogrammi, cioè 24 foto, un film in stop motion come Nightmare Before Christmas, della durata neanche molto lunga di soli 76 minuti, è composto da qualcosa come 109’440 fotografie scattate singolarmente e poi messe insieme una dietro l’altra, ognuna delle quali deve incorporare i diversi personaggi e i loro diversi movimenti, le luci, lo spostamento della cinepresa, le interazioni con la scenografia, gli effetti speciali, eccetera. Un lavoraccio. Nel video: il making-of di Coraline e la porta magica mostra una piccola parte della sconvolgente mole di lavoro necessaria a realizzare ogni singola foto delle 144’000 totali che compongono quel film da 100 minuti. Ogni film in stop motion mai realizzato è di per sé una grande impresa tecnica e artistica che merita rispetto indipendentemente dal risultato raggiunto.

 

Locandina del film "Pinocchio di Guillermo del Toro" di Guillermo del Toro e Mark Gustafson.Fra i soli 199 film in stop motion mai realizzati, sono proporzionalmente molti i titoli di eccezionale qualità, non foss’altro perché prima di iniziare a girare bisogna programmare attentissimamente tutto il lavoro (come sempre nei film animati e ancor più per la stop motion per via delle sue caratteristiche tecniche), e dunque si tratta di film pensatissimi e studiatissimi per non sprecare la fatica necessaria a realizzare anche un solo secondo di pellicola. Fra questi gioielli si listano certamente Le avventure del Principe Achmed di Lotte Reiniger, Il tesoro dell’isola degli uccelli di Karel Zeman, Nightmare Before Christmas di Henry Selick, Anomalisa di Charlie Kaufman, Mister Link di Chris Butler, e ora si aggiunge alla lista il 199esimo film, il meraviglioso Pinocchio di Guillermo del Toro di, appunto, Guillermo del Toro, ampiamente riconosciuto come uno dei più importanti registi viventi e in attività, in collaborazione con il veterano dell’animazione in stop motion Mark Gustafson.

Frutto di una pre-produzione durata oltre dieci anni, caduto in development hell, abbandonato e poi salvato dall’oblio da Netflix Animation, questo Pinocchio è la 16esima conversione cinematografica dal romanzo di Carlo Collodi (a cui si aggiungono le numerose versioni alternative come A.I. – Intelligenza artificiale di Spielberg) e ha finalmente visto la luce lo scorso 15 ottobre al BFI London Film Festival, il 4 dicembre in sala e il 9 dicembre in streaming globale su Netflix. Si tratta di un progetto incredibilmente ambizioso elaborato esplicitamente in animazione da un regista come Del Toro che si è sempre speso in prima linea per chiarire che l’animazione non è un genere bensì una tecnica e per valorizzarne le qualità, spesso messe in ridicolo anche dall’establishment del cinema hollywoodiano e persino dalle stesse case di produzione come la Di$n€¥ ops Disney che pure con l’animazione letteralmente ci campa.

Per offrire quanto più possibile una pluralità di sguardi su un’opera così grandiosa e complessa, e che riguarda così da vicino la cultura e la storia italiana, proponiamo qui di seguito non una, ma varie mini-recensioni di Pinocchio di Guillermo del Toro da parte di vari autori, ognuno con la propria idea sul film, ma tutti convinti che si tratti di un risultato di qualità eccezionale.


Fotogramma del film "Pinocchio di Guillermo del Toro" di Guillermo del Toro e Mark Gustafson.

Macabro burattino

di Matteo Caronna

Un gabbiano conclude il proprio volo sul mare appoggiandosi su un oggetto metallico che galleggia nell’acqua salmastra: è una mina che, attivata dall’uccello, esplode senza risparmiarlo. La scena avviene in pochi secondi, senza proclami, ed è macabra non perché condita da dettagli macabri, invece completamente assenti, ma proprio per la disinvolta casualità con cui è messa in scena. Non è la prima volta che nel film qualcuno muore o ci va vicino: un’ascia lanciata con troppa foga che quasi colpisce (due volte) qualcun altro, un martello poggiato in equilibrio a testa in giù senza troppo pensare ai possibili rischi, un incidente stradale causato da un pedone distratto, una presa in giro pubblica dell’autorità fascista; insomma, la morte nel nuovo Pinocchio di Guillermo del Toro e Mark Gustafson accompagna i personaggi in ogni momento, sottolineando quanto sia fragile la vita e quanto possa essere tragicomica un’esistenza in cui a chi se ne va basta così poco per andarsene e a chi rimane serve così tanto per poter andare avanti.

Questo Pinocchio nasce dal dolore di un padre che non riesce a superare la morte di un figlio: venuto al mondo non per un atto di amore, ma per un atto di disperazione. A differenza dell’originale di Collodi, della trasposizione Disney e delle tante altre reinterpretazioni del personaggio che si sono susseguite negli anni, il Pinocchio di questo film è una creazione imperfetta: gli manca un orecchio, non è dipinto né indossa alcun vestito e persino il legno che forma la sua testa non è per nulla rifinito ed è stato lasciato a metà. Geppetto lo crea in preda all’alcool e al dolore, e quando lo scopre vivo non scoppia di gioia e nessun amore paterno germoglia all’istante in lui, ma lo rifiuta terrorizzato come si trovasse davanti a un mostro. Geppetto voleva indietro Carlo, quel figlio perfetto, in salute, gioioso, buono, affettuoso e obbediente che la prima guerra mondiale gli aveva portato via; si ritrova invece con un vero e autentico freak, un burattino vivo per stregoneria, iperattivo e privo di giudizio, buono e puro come solo un bambino sa essere, ma per questo imprevedibile, incontrollabile e, nella sua ingenua e instancabile curiosità, anche irritante. Il rapporto fra Geppetto e Pinocchio si fa quindi innanzitutto metafora di uno dei compiti più difficili per un padre: quello di smetterla di costringere i propri figli a stare nei confini delle proprie aspettative e di imparare ad amare ciò che sono, accogliendo quel che hanno da dare in qualsiasi forma si presenti.

La prima volta che l’esistenza di Pinocchio diviene pubblica è in una scena in chiesa dove tutto il paese riunito per la messa reagisce con orrore e disprezzo alla visione di un burattino che si muove e parla senza fili. Sorpreso dalla reazione, Pinocchio afferma di essere invece un bambino vero fatto di carne e ossa, e il suo naso si allunga. Sta qui la grande novità di questo Pinocchio: non è per birichineria o per sfuggire a un rimprovero che mente per la prima volta, ma per essere accettato. Il suo naso allungato non è una punizione per aver cercato di ingannare qualcun altro, ma per aver fatto un torto a sé stesso. Non è a essere un bravo bambino che Pinocchio deve aspirare, ma a riuscire a rimanere sé stesso anche di fronte al rifiuto, alle aspettative e alla prepotenza degli altri. Non una storia di formazione, quindi, ma una storia di resistenza ambientata in un mondo fatto di figli che soffrono per essere accettati dai padri. Da qui la scelta azzeccata e praticamente naturale di ambientare la storia durante l’epoca fascista, dove la Patria finisce per incarnare l’ennesimo patriarca tiranno del film che cerca di rendere conformi i propri figli alle sue aspettative.

Nell’Italia fascista di questo film tutto sembra funzionare al contrario: l’educazione scolastica è evocata unicamente come strumento di controllo, il gioco ha lo scopo di preparare alla guerra e persino il lavoro può diventare un sacrificio da cui gli unici guadagni che ne vengono sono sfruttamento e schiavitù. Sono questi gli aspetti che utilizza Del Toro per sovvertire l’aspetto didascalico della storia originale di Collodi, dove le vicende cercavano di rafforzare costantemente l’importanza di valori come la moralità, il lavoro onesto e l’educazione scolastica, per cogliere il carattere sovversivo del suo protagonista e provare a proporlo sotto una luce completamente inedita: non un bambino da riformare, ma da accettare.

Sotto questa nuova cornice ogni aspetto del racconto di Pinocchio ne viene fuori completamente nuovo, e fra questi forse è quello della morte l’elemento in cui Del Toro si concentra di più con la sua estetica e la sua poetica. Non più, come nell’originale di Collodi, punizione finale per le marachelle, l’ingenuità e il cattivo giudizio del suo protagonista: alla morte è qui legata la reinvenzione totale dell’aspetto fantastico della storia tramite l’inserimento di alcune creature dall’aspetto meraviglioso e spettrale, volutamente in contrasto con l’ambientazione italiana del film e frutto del retaggio culturale e delle influenze artistiche del regista e degli artisti da lui selezionati. Alla morte è anche legato il cuore tematico del film: la morte fa soffrire, ma dà valore alla vita. Quello che proviamo davanti alla morte ci porta a riflettere sulla finitezza e la brevità della nostra vita, e su come e con chi vogliamo spendere quel poco tempo che abbiamo sulla Terra. Per Pinocchio quel “chi” risponde alla stramba e poco convenzionale famiglia che si è costruito nel corso del film, e l’affetto che nutre per essa è l’unico filo a cui sono legati i suoi piccoli e fragili arti di burattino.


Studio grafico per il film "Pinocchio di Guillermo del Toro" di Guillermo del Toro e Mark Gustafson.

Il Pinocchio di Del Toro e la virtù della disobbedienza

di Edoardo Graziani

«Attori»: questo è il termine con il quale Guillermo del Toro ha fatto riferimento, nelle diverse interviste concesse, ai personaggi animati attraverso la tecnica passo uno della sua recente trasposizione di Pinocchio. La minuziosa ricreazione dell’Italia fascista trasporta quei pupazzi meccanici e dalle forme scolpite in un vero e proprio set cinematografico che trasuda artigianalità, a partire dai panorami sugli sfondi dipinti. Tutta questa impostazione permette a quelle creazioni di abbandonare completamente la loro funzione di oggetti inanimati mossi da un tecnico, o se vogliamo, di recidere i loro “fili” da marionette, per rivestire a tutti gli effetti le vesti di attori che recitano in un set cinematografico.

Un aspetto che ho trovato particolarmente interessante in questa trasposizione è proprio il fatto che Pinocchio viene trattato a tutti gli effetti come una creatura, o forse sarebbe più corretto dire un mostro: non a caso, a questo proposito, per la scena della creazione della marionetta Del Toro decide di adottare una regia più orrorifica, che rimanda maggiormente a Frankenstein anziché alla Disney. Un mostro che ha preso vita e che vuole vivere come vuole lui e non come un bambino di legno che si deve uniformare ai comportamenti degli altri bambini.

La scelta delle fattezze caricaturali e mostruose servono a farci ricordare e a mettere in risalto i tratti distintivi/caratteriali dei personaggi più famosi del romanzo di Collodi. Di fatto, questa trasposizione decide di prendere una strada nettamente differente rispetto a quelle che l’hanno preceduta, riscrivendo molte dinamiche narrative pressoché consolidate nell’immaginario comune o cercando di far luce su particolari aspetti dei personaggi spesso oscurati o non abbastanza esaltati. Il tutto perfettamente legato a un contesto storico preciso e non casuale, capace di esaltare la tematica uomo-mostro, molto cara al cinema di Del Toro e centrale soprattutto nei suoi ultimi film (La forma dell’acqua e Nightmare Alley). In questo caso, proiettandola sia nel piccolo contesto del borgo dove vivono i protagonisti, sia al livello nazionale mostrando diretti riferimenti all’intero apparato fascista.

Nell’Italia del Ventennio, all’interno di un sistema fatto di regole che siano esse imposte dallo Stato o dalla Chiesa, Pinocchio risulta essere l’unico personaggio veramente libero di fare e dire quello che pensa su tutto e a tutti, un essere non legato a nessun filo impostogli dall’alto e capace di esprimere al massimo la libertà e di riflettere sul senso della vita.


Fotogramma del film "Pinocchio di Guillermo del Toro" di Guillermo del Toro e Mark Gustafson.

Vita, morti e miracoli di un pezzo di pino

di Mario Pasqualini

Secondo tutti i tecnici e gli artisti intervistati nel making-of, Pinocchio esprime la poetica, lo stile e il messaggio del suo regista Guillermo del Toro con una potenza che sintetizza e supera tutte le sue opere precedenti: avendo io visto fra innumerevoli sbadigli solo Pacific Rim e nessun altro suo film, non sono in grado di confermare o smentire questa affermazione, ma se è veramente così allora devo recuperare quanto prima il resto della filmografia del regista perché questo suo Pinocchio è una gemma.

Insieme ad altri archetipi della letteratura per l’infanzia pressocché coevi, straordinariamente forti e creativamente fruttiferi come Alice e Peter Pan, il burattino Pinocchio è diventato uno dei grandi topoi della contemporaneità (non solo nella letteratura per l’infanzia) e uno dei più sfruttati dagli artisti di tutto il mondo. Fin dalla sua comparsa scrittori, illustratori, fumettisti, registi e creativi di ogni tipo hanno attinto al terroir collodiano, a volte lasciandolo intatto così com’era (scelta rischiosa che ha portato in alcuni casi a risultati modestissimi) e a volte rivangandolo e fertilizzandolo con nuove idee per poterci piantare cultivar eccezionali e completamente originali, come fatto ad esempio da Osamu Tezuka con il suo Astro Boy.

Del Toro si colloca all’interno di quest’ultima tendenza creativa: nel suo approccio al romanzo di Collodi, il regista seleziona come talee gli elementi specificatamente legati alla vita e alla morte, e per sottolinearne l’aspetto misterico mette in atto una reinvenzione totale del materiale originale, compresa la ricollocazione spaziale e soprattutto temporale che gli consente di affrontare certi italianissimi temi e soggetti che gli italiani stessi faticano ad affrontare. Un innesto eccezionalmente riuscito che raggiunge il suo vertice nella parte sul Paese del balocchi reimmaginato (ma nemmeno tanto, in effetti) come un campo di addestramento militare: parallelismo perfetto, comunicazione fortissima, la spina punge lì dove deve pungere.

In pratica un Pinocchio solo “liberamente ispirato” a quello di Collodi, e non solo meramente rivisto nello stile, ma profondamente compreso alla radice e da lì ri-raccontato, e forse proprio per questo così ben riuscito e fluido nella narrazione cinematografica.

Narrazione a cui contribuiscono anche le varie canzoni di Alexandre Desplat, che non hanno alcuna funzione di mera decorazione floreale o di “sospensione del tempo” come accade solitamente nei musical, e d’altronde gli stessi autori definiscono questo Pinocchio non un musical bensì un «film con musiche»: la distinzione è corretta perché le canzoni sono tutte diegetiche e, pur carine e orecchiabili, non sono particolarmente riuscite o memorabili, ovverosia servono più ai personaggi del film che allo spettatore.

Indispensabile poi inoltre rivolgere grandi complimenti all’animazione, di eccezionale qualità e quasi interamente analogica (l’uso della CGI si limita alle correzioni in post-produzione e ad alcuni effetti speciali come la pioggia), e alla direzione artistica che ricostituisce un’Italia geograficamente verosimile, credibilissima nelle scelte stilistiche e curatissima in quelle architettoniche: esemplare in tutti e tre gli aspetti è la chiesa del borgo, con le sue varie fasi storiche stratificate come spesso è nella realtà. Gli unici elementi dubbi potrebbero essere le bevande consumate dai personaggi poiché, dato che il periodo in cui è ambientato il film, sembra difficile che possano bere tè (forse è carcadè?) e cioccolata calda, ma in fondo sono dettagli che inghirlandano il film senza inficiarne la visione, un po’ come le rose e le viole leopardiane. Nota di merito anche alle parole in italiano soprendentemente perfetto nelle mille scritte che compaiono a vista, cosa niente affatto scontata.

E a proposito di Italia: la versione italiana curata da Carlotta Cosolo (dialoghi) e Lorena Brancucci (canzoni) e diretta da Massimiliano Alto (che si riserva per sé, come doppiatore, il ruolo caricaturale del papavero più alto, probabilmente per il suo proprio divertimento) è molto ben fatta, non è per niente “da cartone animato”, e non fa rimpiangere più di tanto il ricco cast originale che includeva voice talent del calibro di Cate Blanchett, Ewan McGregow e Christoph Waltz (sostituiti dai fior fior di doppiatori Tiziana Avarista, Massimiliano Manfredi e Stefano Benassi). L’unico dubbio sta nella scelta della parola «golfo» invece di “stretto” quando Geppetto deve raggiungere la Sicilia, ma a parte che anche in originale diceva «gulf», in effetti va a Catania e non a Messina dunque è tecnicamente corretto.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro è certamente fra le migliori versioni cinematografiche del romanzo collodiano insieme a quella pionieristica e brillante prodotta da Walt Disney del 1940 e quella rurale e crepuscolare diretta da Matteo Garrone del 2019: per le diverse e rispettive tecniche di ripresa, caratteristiche narrative e letture del materiale originale, i tre film formano un triangolo dai vertici perfettamente equidistanti, tutti e tre validissimi e tutti e tre in grado di ridare nuova linfa vitale al mito immortale di Pinocchio.

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