La cultura pop giapponese nella musica occidentale – Pharrell è lolicon, Gwen gyaru, Madonna boh

Tutti pazzi per il Giappone, compresi i produttori discografici statunitensi che da quando hanno scoperto manga & anime li mettono ovunque e in tutte le salse. Piccola cronistoria del rapporto fra il Sol Levante e la musica Made in USA (con una postilla sul Made in Italy).

Sarebbe affascinante iniziare questo articolo sui rapporti fra la cultura pop giapponese e quella occidentale con una frase evocativa del tipo “La storia dei rapporti culturali fra il Giappone e l’Occidente si perde nella notte dei tempi”, ma purtroppo non è possibile perché non è andata così.

Fino alla fine del XIII secolo in Europa, dove pure si aveva più o meno cognizione della Cina («il Paese della seta», come la Yourcenar fa dire ad Adriano), l’esistenza del Giappone era infatti totalmente ignorata al pari del continente americano, e fu Marco Polo il primo occidentale a sentirne parlare, nonché a battezzarlo Cipango da cui deriva poi il termine inglese Japan. Molto altro tempo dovette passare fino all’instaurazione dei primi contatti reciproci effettivi, all’inizio religiosi, poi commerciali e amministrativi a partire dal 1854, e infine anche a livello culturale con la diffusione in Occidente dellestampe ukiyo-e, la nascita del japonisme, Iris di Mascagni Madama Butterfly di Puccini e tutto il resto.

È stato però a partire dalla seconda guerra mondiale che il nome del Giappone ha cominciato a essere pronunciato quotidianamente in Occidente, prima per i tristemente noti e luttuosi eventi bellici, e poi per l’esportazione di prodotti di cultura pop, in particolare i cartoni animati. Mentre l’Europa ne ha sperimentato l’ingresso fin dagli anni ’70, in particolare in Spagna, Francia e soprattutto Italia che hanno vissuto il First Impact dei vari UFO Robot Goldrake e Jeeg robot d’acciaio, gli Stati Uniti d’America hanno dovuto attendere fino al Second Impact di Neon Genesis Evangelion nei tardi anni ’90 per conoscere una effettiva diffusione dell’animazione giapponese su suolo nordamericano.

 

Gli anime negli USA: dal Second Impact all’affermazione popolare

Le prime VHS della serie di Hideaki Anno uscirono negli USA a partire da agosto 1997, come in Italia, e già cinque anni dopo la serie aveva raggiunto sufficiente popolarità da ricevere un piccolo cameo nel film One Hour Photo con Robin Williams, rappresentando quindi il primo vero grande successo dell’animazione giapponese nel mercato statunitense, che sarà poi bissato o forse persino superato dal successivo FLCL, probabilmente uno degli anime più celebri negli USA.

Il ritardo ventennale degli USA sull’Europa non è la sola differenza nella fruizione dell’animazione giapponese sulle due sponde dell’Atlantico: la produzione animata televisiva statunitense è così ricca e numerosa da aver de facto estromesso quella giapponese fuori dalla TV per anni, confinandola nel solo mercato dell’home video (e ancora oggi sono pochi i canali che ospitano anime, come Cartoon Network e la sua fascia serale Adult Swim); in Italia era successo l’esatto opposto, e il grande pubblico ha conosciuto Heidi e Remi proprio sulle innumerevoli emittenti televisive più o meno locali che per decenni hanno prosperato proprio grazie agli anime.

Inoltre, l’opinione pubblica americana combatte con maggior forza i prodotti stranieri rispetto a quelli autoctoni, con gruppi di attivisti di varia estrazione che puntualmente spuntano fuori ogni volta che un prodotto straniero si impone sul mercato locale: basti citare i celebri casi dei Pokémon, fonti di numerosissime controversie (quasi tutte nate da banali incomprensioni culturali), o di Harry Potter diffusore del satanismo (accuse peraltro di provenienza esclusivamente statunitense, dato che il Vaticano stesso ha approvato la saga del maghetto).

Ken'ichi Matsuyama interpreta L nei film tratti da "Death Note".
Lettera aperta al produttore del film americano di Death Note: egregio signore, per il ruolo di Light mi affido a Lei, limitandomi a suggerire Zac Efron, ma per quello di L la prego di prendere in considerazione la inconfutabile incontrastabile incontrovertibile verità che nessun altro attore al mondo può rimpiazzare Ken’ichi Matsuyama. Cordialità.

Quindi negli States gli anime sono arrivati in forte ritardo, hanno una distribuzione limitata ai soli fan e vengono molto criticati. Nonostante ciò, la capacità comunicativa dell’entertainment giapponese è riuscita a fare breccia anche negli ostili lidi americani: le comics convention (quelle che in Italia si chiamiano “fiere”) si riempiono di cosplayer, la stragrande maggioranza dei fansub proviene dagli USA (dove evidentemente vive un sufficiente numero di bilingue anglo-nippofoni da poterli produrre in massa e velocemente), e anche Hollywood, che sta esaurendo i fumetti autoctoni, sta volgendo lo sguardo al Sol Levante (dopo l’incommentabile Dragon Ball Evolution, sono ormai anni che girano fumose notizie su adattamenti di AKIRA, Battle Angel Alita, Cowboy Bebop, Death Note, persino Neon Genesis Evangelion e altri ancora).

 

L’influenza giapponese sulla musica pop: dall’Europa agli USA

Eppure, c’è un’industria a stelle & strisce che lavora più velocemente di quella del cinema, in cui spesso passano molti anni fra l’idea iniziale e il prodotto finito, ed è quella della musica.

La contaminazione giapponese della musica ha una lunga storia in Europa, dove fin dalla Belle Époque numerosi musicisti colti, fra cui Claude Debussy e Giacomo Puccini, furono affascinati e influenzati dalla scala pentatonica orientale. Dopo la seconda guerra mondiale la fascinazione nipponica ha lasciato dei segni nella musica pop, con casi sporadici ma non rari come Mina che canta Anata to watashi (composta da Bruno Canfora dopo un viaggio in Giappone con la cantante) o David Sylvian che collabora con Ryūichi Sakamoto, ma si ritrova anche nei video e testi dei Bluvertigo, nella musica elettronica dei Röyksopp, nell’interesse per la moda e il teatro tradizionale di Björk e in numerosi altri esempi.

Negli USA questa influenza è arrivata con oltre un secolo di ritardo sull’Europa proprio dalla seconda metà degli anni ’90, cioè con l’arrivo in quantità apprezzabili di anime, grazie a cui l’industria discografica statunitense ha cominciato a sviluppare una sensibilità squisitamente pop verso il Giappone.

Shinji Ikari nel film "Evangelion 1.0".
Peccato che il regista del videoclip Scream di Michael e Janet Jackson non abbia scelto la scena di Shinji che grida mentre brucia vivo, avrebbe dato un tocco di classe al tutto.

Nel tracciare un breve percorso fra i punti cardine di questo avvicinamento fra le due coste del Pacifico, le prime avvisaglie di una fascinazione orientale si potevano già vedere nel celeberrimo videoclip di Scream di Michael e Janet Jackson, uno dei più costosi della storia se non il più costoso in assoluto. Costoso, sì, ma almeno il risultato è stato e-pi-co con un’astronave, fuori in CGI e dentro ricostruita in studio, in cui i fratelli Jackson giocano, ballano e fanno pipì davanti a un megaschermo su cui scorrono immagini di grida di personaggi tratti da Akai kōdan Zillion, AKIRA e Fūma no Kojirō: nonostante siano ancora un elemento più esotico e decorativo che altro, con Scream gli anime entrano ufficialmente nella musica statunitense e dalla porta principale, quella del re del pop.

 

Madonna e tutte le altre

Poi, come per tante altre mode, la prima artista a usare consapevolmente l’immagine pop del Giappone è stata Madonna. Nel videoclip della canzone del 1998 Nothing Really Matters, la cantante si mostra abbigliata con kimono e obi di lattice rossi ton-sur-ton di Jean Paul Gaultier, in un ambiente inquietante in cui non è difficile riconoscere un misto fra l’architettura tradizionale giapponese e il béton brut di Tadao Andō, immersi in un’atmosfera oscura da videogioco survival horror: il fatto che Madonna abbia dichiarato che l’ispirazione viene da Memorie di una geisha per farsi bella davanti ai giornalisti è del tutto irrilevante: quello è palesemente un ospedale di Silent Hill.

Nel frattempo i Beastie Boys pubblicano Intergalactic: il testo non c’entra nulla col Giappone, ma il videoclip sì, dato che è una splendida parodia dei film di kaijū, cioè quelli con Godzilla e i vari mostri giganti/pupazzi di gommapiuma che distruggono palazzi di cartone. L’apparente povertà realizzativa è un omaggio al genio di Eiji Tsuburaya (celebrato anche lo scorso 7 luglio da Google con uno splendido doodle), mentre nelle sequenze girate nella stazione di Shinjuku il trio di rapper indossa le divise con le bande riflettenti tipiche degli operai stradali nipponici: è più che un riferimento pop, è un tributo documentato ed estremamente accurato, nonché la prima volta in cui immagini reali del Giappone vengono usate in un videoclip statunitense non underground.

La band giapponese D nella foto promozionale per il singolo "HAPPY UNBIRTHDAY".
La rock band visual kei D è composta da uomini che si vestono con abiti ispirati dalla moda femminile lolita, a sua volta ricca di elementi ispirati da Alice nel Paese delle meraviglie.

Passano gli anni e nel 2004 si arriva a un’opera cruciale: Gwen Stefani pubblica What You Waiting For?. Il testo della canzone è autobiografico e racconta del blocco dello scrittore della cantante, consapevole che venendo profumatamente pagata deve produrre qualcosa; l’ispirazione le arriva dal Giappone incarnato dalle Harajuku Girls, quattro performer che vestono alcuni dei molteplici stili espressi dalle ragazze che popolano l’omonimo quartiere di Shibuya (Tokyo), visitato dalla dichiaratamente nippofila Stefani fin dal 1996 in tempi assolutamente non sospetti. È un trionfo: nel videoclip-capolavoro diretto da Francis Lawrence, la cantante e le ballerine finiscono nel Paese delle meraviglie, dove vagano fra labirinti vegetali allucinogeni fasciate in abiti post-vittoriani di John Galliano. Le Harajuku Girls parlano nella loro lingua madre, la Stefani canta i nomi delle città di Tokyo e Osaka con languore sensuale, e il Brucaliffo sbuffa fumo a forma di ideogramma 愛 ai “amore”. Con What You Waiting For? il Giappone pop è ufficialmente sdoganato negli USA.

Lo stile di Alice è un riferimento basilare dei manga per ragazze e delle subculture giovanili come il gothic lolita. Non a caso, nelle foto promozionali per What You Waiting For? la cantante è ritratta a un mad tea party carrolliano, ma stranamente in compagnia non di un bianconiglio bensì di un cerbiatto, ed è curiouser and curiouser notare come Osamu Tezuka, il creatore dei manga come li conosciamo oggi, abbia sempre dichiarato che la sua intera ispirazione deriva dal Bambi disneyano e dai suoi occhioni: forse è una coincidenza, o forse no.

Dal 2004 in poi la gyaru (pronuncia giapponese di “girl”) Gwen Stefani ha continuato a portarsi dietro le Harajuku Girls come muse ispiratrici in tutti gli album e tour solisti, trasformate in svariati gadget, divinizzate a ogni occasione e immortalate nel 2015 nella serie animata Kuu Kuu Harajuku, le cui protagoniste sono appunto le versioni grafiche della cantante e delle quattro giapponesine: dai promo non sembra un capolavoro, ma va bene lo stesso.

Mello sulla copertina del volume 8 di "Death Note".
Sembra Raffaella Carrà seduta sulla poltrona di The Voice, guantini compresi, e invece è Mello.

Due anni dopo l’exploit di Gwen Stefani, Madonna era in Giappone per il Confessions Tour e ne ha approfittato per girare il videoclip del singolo Jump, in cui lei che salta su un telaio in studio mentre dei ragazzi saltano sui palazzi. Tutto nella norma se non fosse che i palazzi sono quelli di Tokyo e lei è in cosplay di Mello, un androgino personaggio del fumetto Death Note che ironicamente si circonda proprio di statue e monogrammi della Madonna (quella vergine): Madonna interpreta Mello che interpreta la Madonna, un cerchio che si chiude.

Anche il successivo videoclip del 2012 Give Me All Your Luvin’, pubblicato in concomitanza con la partecipazione della cantante al Super Bowl di quell’anno, contiene piccoli, ma precisi riferimenti nipponici, il più vistoso dei quali sta nelle inquietanti maschere animegao indossate dalle ballerine, con tanto di scena lesbo en passant.

Ancora, il 18 giugno 2015 Madonna pubblica sul suo canale Vevo il videoclip di Bitch I’m Madonna che, con i suoi 140 milioni on going di visualizzazioni, è di gran lunga il brano più popolare della cantante da dieci anni a questa parte. Di nuovo la fascinazione pop giapponese è vistosa, ma stavolta non è più né horror-architettonica né cosplay-atletica: è otaku-arcobaleno. Madonna e Nicki Minaj sfoggiano capelli in technicolor fucsia e rosa come negli anime, le ballerine giapponesi AyaBambi sembrano un mix fra una dōjinshi hentai di Bakuretsu hunter e delle otaku di divise naziste (molto apprezzate in Giappone), i costumi sono della casa di moda italiana Moschino guidata dallo stilista statunitense Jeremy Scott (da sempre influenzato dalla pop culture), e la ricchezza visiva e cromatica del video non può non rimandare all’unica artista al mondo che ne realizza di ancora più ricchi, ovvero quella Kyary Pamyu Pamyu diventata così follemente celebre da essere arrivata anche a farsi recensire da Pitchfork. Giusto per completare il quadro nippofilo, nella scena finale Madonna sale le scale e si crocifigge al muro proprio sull’immagine del corridore della Glico, l’azienda giapponese produttrice dei biscotti ricoperti di cioccolato noti in Italia come Mikado, il cui storico enorme pannello pubblicitario a Osaka è divenuto così celebre da essere ormai un vero monumento della città.

In parole povere, mediamente Madonna ogni otto-nove anni realizza un video di ispirazione nipponica sempre diversa (altrimenti non sarebbe la sempre multiforme Madonna): attendiamo il prossimo intorno all’anno 2023, quando la cantante avrà 65 anni, e chissà che non riesca a stupirci di nuovo come sempre.

Tomoko Kawase il 15 agosto 2015.
Nell’immagine, un recente autoscatto di Tomoko Kawase detta Tommy, classe 1975, età: 40 anni. Ma com’è possibile.

 

Il caso Hello Kitty di Avril Lavigne

La giappomania americana ha toccato il picco, o il fondo, l’anno scorso quando la cantante canadese Avril Lavigne ha pubblicato il videoclip per la canzone Hello Kitty. Il video è diventato nel giro di poche ore così incredibilmente chiacchierato in negativo che la casa discografica l’ha subito rimosso (cancellando di conseguenza anche i commenti), per poi ripubblicarlo a mente fredda ripartendo da zero commenti e zero visualizzazioni (che nel frattempo sono arrivate quasi a 100 milioni nonostante la perdita delle decine di milioni di visualizzazioni iniziali).

Il brano è piuttosto brutto: il testo non parla affatto della mascotte antropomorfa della Sanrio, bensì di party osé (con “kitty” a doppio senso), e la musica è una pura concessione senza fantasia agli stili musicali alla moda, cioè EDM e dubstep, con la sola graziosa idea di usare la campana del passaggio a livello come intro e outro. Ma non è stato tanto il brano a indignare il mondo quanto il video, ferocemente accusato di razzismo, stupidità, infantilismo, stereotipicità e in generale di quella che gli statunitensi chiamano cultural appropriation (“appropriazione culturale”), ovverosia «l’assimilazione, attraverso stereotipi, letture colonialiste e inferiorizzanti, di culture considerate altre rispetto a quella occidentale», perché nel video Avril Lavigne fondamentalmente si comporta da giappominchia™.

È qui importante sottolineare come il concetto di cultural appropriation si sia originariamente formato negli USA per motivi effettivamente molto seri e che riguardano l’irrispetto secolare dimostrato dalla maggioranza verso le minoranze, e in particolare dai ricchi bianchi eterosessuali per i poveri, per le popolazioni native e per tutte quelle immigrate (a partire da quelle africane per arrivare a quelle ispaniche e asiatiche e anche sud-europee, italiani inclusi), per la comunità queer, eccetera. In breve, è considerato irrispettoso per un bianco appropriarsi di mode o stili derivati proprio da quelle civiltà e culture storicamente denigrate: un comportamento purtroppo molto comune, e a ben pensarci lo stesso rock’n’roll di Elvis Presley era nato proprio così. Naturalmente i confini della cultural appropriation sono molto sfumati: dove finisce l’apprezzamento, l’omaggio o l’ispirazione e inizia l’insulto? I suddetti casi di Madonna sono ispirazioni artistiche o appropriazioni culturali? Se una ragazzina bianca del XXI secolo, distante otto generazioni dai suoi avi schiavisti, si pettina con le treccine come la sua migliore amica afro-americana, da pari a pari, per pura ammirazione o spirito di sorellanza, si può in quel caso parlare di “appropriazione culturale”? Sarebbe una tesi difficile da sostenere.

Nel caso di Hello kitty la questione è meno ovvia rispetto al suddetto esempio delle treccine fra amichette. Certo, come la canzone anche il video è brutto, e contiene effettivamente molti elementi subculturali certamente lontani dall’immagine più istituzionale del Giappone, ma le domande da porsi davvero sono: i giapponesi sono effettivamente rimasti offesi da Hello Kitty? Che cos’è la cultura giapponese, solo geisha, samurai e sushi? Dove inizia l’insulto, o l’appropriazione culturale, quando si usano elementi cosiddetti “stranieri”? È tutta una paranoia statunitense?

Avril Lavigne è canadese e probabilmente conosce bene Kyary, che è 100% giapponese eppure sfoggia pacchi di M&M’s e gonne di cupcake e acconciature da Barbie Capelli Arcobaleno: chi potrebbe essere accusato di appropriazione culturale allora è proprio Kyary, dato che le M&M’s, i cupcake e la Barbie sono statunitensi, ma ovviamente nessuno la accusa di niente, giustamente.

Il problema di Hello Kitty sta negli occhi degli occidentali, perché commenti fioccati su Internet come «Le ballerine identiche e inespressive rinforzano lo stereotipo della donna-oggetto» o «Avril dimostra di non sapere nulla della cultura tradizionale giapponese» o anche «La Lavigne non sa parlare giapponese quindi non dovrebbe nemmeno provarci dati i pessimi risultati», che vorrebbero celebrare la cultura giapponese come troppo alta e diversa dalla rappresentazione che ne offre Avril Lavigne, sono smentiti dalla stessa cultura pop giapponese, nei cui spot le ballerine sono identiche e inespressive, nei cui programmi della TV generalista si dimostra di non sapere assolutamente nulla di nulla della cultura occidentale, e nella cui musica c’è un uso e abuso continuo di parole in lingua inglese spesso scritte male e pronunciate peggio.

A conferma che in Hello Kitty non c’era alcuna volontà offensiva c’è il fatto che il videoclip è stato realizzato in loco con troupe locale, che evidentemente non si è sentita offesa nel pubblicizzare in Occidente il Giappone come una folle accozzaglia di plastica colorata, dato che i giapponesi stessi fanno di peggio. Infine, è interessante ricordare che in Giappone non solo Avril Lavigne è famosa e apprezzata, ma esiste anche una sorta di Avril Lavigne locale, ovvero Tomoko Kawase in arte Tommy, vocalist della rock band the brilliant green e solista con due progetti distinti, uno pop e uno rock ed entrambi di puro gusto camp, che esattamente come la cantante canadese sta ringiovanendo invece che invecchiando.

 

TW: il lolicon di Pharrell e Takashi Murakami

L’ultimo caso in ordine di tempo della contaminazione fra il mainstream statunitense e la cultura pop giapponese è rappresentato dal videoclip di Pharrell Williams per il suo brano It Girl. Se Hello Kitty ha ricevuto disprezzo dal pubblico, It Girl ha ricevuto disprezzo dai critici perché il cantante ha abbinato una canzone dal testo molto spinto a un video a cartoni animati in cui flirta (a distanza di sicurezza) con una bambina, facendo alzare il sopracciglio a molti connazionali di Williams che vi hanno subito visto il crimine innominabile: la pedofilia.

Confezioni di caffellatte Yukijirushi Coffee.
C’è piu lolicon nelle mascotte di queste confezioni di caffellatte che in tutto il videoclip di It Girl.

Il video è stato realizzato dallo studio Kaikai Kiki, cioè l’atelier artistico di Takashi Murakami, il più quotato artista giapponese vivente, e quindi teoricamente è un’opera d’arte a tutti gli effetti che come tale va analizzata e criticata. Per esempio: Balthus era pedofilo? E il Domenichino? E Caravaggio?

Ma a prescindere dalla rappresentazione lasciva dei bambini nella storia dell’arte, il punto è che It Girl è il videoclip più otaku mai realizzato. Pharrell è di casa a Tokyo da decenni, dal 2005 gestisce la casa di moda Billionaire Boys Club con lo stilista giapponese Nigo e in generale non è affatto digiuno di cultura pop giapponese, quindi è conscio del significato di quel video, che fondamentalmente riprende alcuni stereotipi delle subculture otaku legate ai manga (la rappresentazione di personaggi con un aspetto più giovane di quello della loro età per il cosiddetto lolicon, il “complesso di Lolita”), agli anime (gli episodi ambientati al mare e al matsuri sono dei must dei cartoni animati fin dagli anni ’80) e ai videogiochi (in particolare i dating game).

It Girl è Akihabara condensata in cinque minuti e sette secondi, con tocchi quasi commoventi per il fan come il frame sbagliato nella sequenza in cui l’onda del mare bagna i piedi della bimba, cioè quello che era un glitch (errore tecnico) viene qui meticolosamente ricostruito: art for art’s sake. Livello tecnico maniacale a parte, l’odore di pedofila in manga e anime è effettivamente percepito anche in Giappone, ma non in quanto tale bensì come «danno per i bambini».

In pratica il problema non è se questi prodotti siano troppo forti, ma solo che non giungano nelle mani dei bambini, per il resto il grande pubblico pur conoscendo il fenomeno lo bypassa, relegandolo a una fra le mille subculture più o meno opinabili esistenti in Giappone: per esempio, chissà cosa direbbero gli statunitensi se sapessero che la rock band visual kei R-shitei, il cui pubblico è composto in stragrande maggioranza da ragazzine minorenni, pubblica canzoni intitolate “Gioventù è tagliarsi i polsi“, “Ho ucciso i miei amici”, “Sadomaso” e “Addio pu**ana” (e questi sono solo i titoli).

I giapponesi applicano la regola che se non danneggia gli altri, se non si applica nella realtà, se resta fiction allora va bene: anche nella miniserie animata documentaristica Otaku no video viene specificato che un otaku di armi mai e poi mai ama le vere armi, perché la parte interessante sta nel suo funzionamento ingegneristico, nel design eccetera, e allo stesso modo il lolicon è visto come dimostrazione di tecnica grafica più che come vero interesse verso il bambini; fra l’altro il Giappone è noto per il suo progressivo disinteresse alla sessualità e gli otaku preferiscono sposare cuscini piuttosto che toccare persone, tantomeno bambine. Pharrell è salvo, almeno in Giappone.

 

Da Yukio Mishima a Rettore e ritorno

Infine, #ceunpodItalia. Sarà l’effetto farfalla dagli USA, ma anche nel Bel Paese i riferimenti nipponici nel mainstream sono aumentati proprio da fine anni ’90. Ad esempio, nel 2000 il singolo di debutto della band romana Velvet è stato Tokyo Eyes nel cui testo il cantante dice di sentirsi «come Ataru con Lamù» e che ha avuto sufficiente successo da essere usata come musica per lo spot della Coca-Cola, cioè il massimo riconoscimento possibile subito dopo l’essere usata per il Cornetto. In tempi più recenti si sono avventurati nelle metafore estremorientali il cantautore toscano Matteo Becucci e le due dive sorelle Paola & Chiara: in entrambi i casi i risultati sono stati terribili.

Kazuma Kuwabara del fumetto "Yu degli spettri".
Sulla schiena di Kuwabara c’è la scritta “La salute prima di tutto”, sulla fascetta sulla fronte di Rettore invece solo segnacci senza senso.

Il più terribile dei risultati non può però offuscare il massimo risultato internazionale mai raggiunto dalla contaminazione fra un artista pop occidentale e la cultura giapponese: il concept album Kamikaze Rock’n’roll Suicide, capolavoro di Rettore del 1982. Nato da un viaggio della cantante veneta in Giappone, il disco è un esperimento di fusione fra il prog rock, il pop, il cantautorato e la disco music basato su un mix di influenze oscure e drammatiche su temi totalmente alieni alla musica da classifica come il suicidio, la guerra e la paranoia, il tutto tenuto insieme da un grottesco senso della leggerezza e del gioco, come mostrato dalla cantante nei concerti in cui indossa abiti fluorescenti e cerchietti da aliena dei cartoni animati, e nelle performance televisive dove si presenta vestita da teppista come Kuwabara di Yu degli spettri e accompagnata dal teschio Timoteo Yamamoto che «si è fatto male la barba stamattina, ha usato delle cattive lamette».

Nell’anno del debutto di Madonna c’era già in Italia chi produceva capolavori come Lamette, recentemente apprezzato anche da Patrick Wolf: banzai!

Commenta !

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi