I maestri dell’avventura – Uno studio in rosso
Si può amare un personaggio e leggere le sue storie spinti solo da questa ammirazione; si può leggere un adattamento su un personaggio che proprio non amiamo e scoprire un’opera di valore, che quasi potrebbe farci cambiare idea. Ecco a voi Sherlock Holmes alla sua prima avventura…
Per recensire I maestri dell’avventura editi da Star Comics, nel caso specifico Uno studio in rosso, tratto dai racconti di Sir Arthur Conan Doyle, vorrei partire dalla fine: dalla postfazione scritta dal curatore della collana Roberto Recchioni. Dal commento all’opera, è evidente che Recchioni ama Sherlock Holmes, e ama particolarmente questa prima storia, in cui si assiste a una vera e propria presentazione, non solo del notissimo ed eccentrico detective ma del suo stesso archetipo, e quello della sua “spalla”, il Dottor Watson. Il resto del racconto può essere ignorato, non è all’altezza dei successivi per prosa e qualità stilistica, il suo valore è tutto lì: nell’aver dato vita a Holmes e al suo assistente. E con loro a un universo di seguaci che non accenna a diminuire nel tempo.
Anche il fumetto segue questo tipo di ragionamento: la sceneggiatura di Giulio Antonio Gualtieri si sofferma, giustamente, sulle prime pagine, sull’incontro, sui prodromi del legame tra l’investigatore e il dottore, semplifica e snellisce tutta la parte relativa all’indagine e al caso, mantenendo solo i punti importanti, rendendo la lettura appassionante e mai pesante.
Per chi non conoscesse la trama, il Dottor Watson, dopo aver preso parte alla guerra afgana e aver riportato una brutta ferita viene rimpatriato e, cercando una casa a Londra, fa la conoscenza di Sherlock Holmes, di professione incerta, possessore di incredibili doti e conoscenze, ma anche di voragini inconcepibili nella cultura comune. I due iniziano a convivere: Watson, cercando di trovare nuovi stimoli esistenziali, si fa coinvolgere nelle passioni di Holmes quando, un giorno, l’altro viene interpellato dalla polizia per risolvere un caso inaudito. Un uomo, un elegante americano, è stato ritrovato morto in una casa disabitata, senza tracce di violenza e senza apparenti indizi sul perché.
Ovviamente Holmes riuscirà a trovare, non senza arroganza e irritante sicurezza, tutti i fili della trama e saprà scoprire il colpevole, iniziando così una carriera, almeno letteraria, senza precedenti.
Il testo originale di Conan Doyle non è scevro di difetti, presenta forzature nello svolgimento e risulta molto meno entusiasmante di quella di questo adattamento a fumetti. Qui la lettura risulta fluida, porta a interessarsi a quello che succederà, rende curiosi di assistere ai dialoghi e agli avvenimenti. Lo sceneggiatore ha il pregio, tra l’altro, di usare e mantenere un livello linguistico vicinissimo all’originale, frizzante, con tutti gli elementi eleganti e ironici dello spirito british.
I disegni continuano la linea adottata dalla sceneggiatura, e non solo la sostengono, ma sicuramente la integrano. Federico Rossi Edrighi è bravissimo con il suo mezzo e, all’inizio, è quasi spiazzante: infatti le vignette sono tutte rese a tratto di penna, senza sfumature, quasi senza retini, i diversi materiali o le ombre sono dati dall’inclinazione o dalla sovrapposizione del tratto. Ne risulta una leggerezza delle immagini che stupisce, mentre l’occhio del lettore è inesorabilmente attratto dall’unico elemento che ha diritto al nero totale, cioè Holmes.
La parte grafica, come accennato, non solo aderisce, ma completa la sceneggiatura con passaggi e immagini significative. Una per tutte, la figura di Watson che lascia il laboratorio, dopo il primo incontro, riflessa nel vetro dell’ampolla in cui Holmes sta conducendo esperimenti: non è solo una trovata originale, ma è il punto di vista dell’investigatore, sia fisico (Holmes che ritorna ai suoi studi e guarda le figure uscire) che interiore (Holmes è interessato al dottore, come fosse anche lui un esperimento da svolgere), raccontato così, di striscio quasi, senza uso di parole, lasciando la verbalizzazione al lettore.
Londra, il 221 B di Baker Streeet, gli interni, i luoghi reali o quelli immaginari sono tutti pervasi dal tratteggio o dal reticolo, spesso da linee zigzagate con apparente distrazione, mentre Holmes è sempre nero, preciso, netto, elegante, e catalizza l’attenzione, sempre. Un personaggio tanto noto, non ha bisogno di particolare elaborazione, forse, basta la sua personalità a riempire la scena, ma non è da tutti rendere questa impressione attraverso il disegno.
Interessante, inoltre, è notare come il rapporto bivalente Holmes-Watson, che, ricordiamo, ha creato il precedente per moltissime altre coppie letterarie, anche in altri generi, è evidenziato da caratteristiche opposte. Per Holmes ci sono colori scuri, linee spezzate, angoli acuti, spigoli: il naso è aquilino, i capelli neri lucidi tirati indietro dalla “v” della fronte squadrata, il mento è appuntito; mentre Watson nasce da linee arrotondate, il naso è a patata, i capelli chiari e morbidi sulla fronte, il mento smussato. Aspetti esteriori che richiamano il loro carattere, l’interiorità che emerge all’esterno: poco originale forse, ma perfettamente aderente ai personaggi e al loro messaggio.
Perché è evidente che anche gli autori materiali dell’opera amano Holmes: lo rendono brillante, simpatico addirittura, anche se solo come può esserlo una persona perfettamente conscia della propria intelligenza e superiorità rispetto alla media. Il prodotto finale è, dunque, non solo un bel fumetto da gustare, ma anche un omaggio all’opera di Sir Conan Doyle e al suo immortale protagonista.
Ma Conan Doyle odiava Sherlock Holmes, quindi la situazione era del tutto diversa. Ha cercato di ucciderlo perché non lo sopportava più, e il personaggio, dopo questo primo racconto, ha sempre mostrato tutti i difetti che giustificavano tale avversione: per strani e incredibili meccanismi che conosce chi ha provato a scrivere, capita che un personaggio abbia tale e tanta personalità da non dipendere più dalle mani del suo autore e vivere di vita propria. Il rapporto Doyle-Holmes era pessimo: per gli autori di quest’opera invece, Holmes è chiaramente una figura positiva e amabile, e tutto il lavoro fa trasparire gli indizi di questa affezione.
Leggendo i romanzi originali non posso fare a meno di essere d’accordo con lo scrittore, a me Holmes non piace: sempre Recchioni ha dichiarato che non si legge Sherlock Holmes per Conan Doyle, si legge perché si ama Sherlock Holmes. Bene, io non leggo Sherlock Holmes, ma la versione Gualtieri-Rossi Edrighi è pregevole, mi ha conquistato, e in questo caso leggerei Sherlock Holmes per i suoi autori e non per il personaggio.