L’uomo senza talento – Yoshiharu Tsuge e il senso della vita
Il mio primo incontro con Yoshiharu Tsuge è avvenuto circa tre anni fa, una domenica pomeriggio silenziosa e grigia, nel corridoio di un negozio di libri usati di periferia. Nella sezione tutto a 100 yen, fra i volumi ormai vecchi con la carta ingiallita, fra le costine con titoli roboanti e colori accesi, fra le altre persone annoiate, emergeva per contrasto un volume solitario con la copertina color porpora sbiadito con fiorellini grigi, quasi una carta da parati di inizio secolo. Era Akai hana (“I fiori rossi”), il primo dei due volumi con la raccolta delle storie brevi di Tsuge. La prima di queste dà il titolo al volume: senza riuscire a fermarmi, nel giro di pochi minuti avevo letto tutta la novella con enorme stupore. Enorme stupore di trovarmi davanti a un autore così straordinariamente capace di mettere insieme la realtà e la surrealtà sullo stesso piano in maniera così eloquente e insieme criptica.
L’uomo senza talento è la prima opera di Yoshiharu Tsuge pubblicata in Italia grazie all’impegno dell’associazione, casa editrice ed ente culturale Canicola, con sede ovviamente a Bologna. Impegno ripagato: dalla sua pubblicazione nel maggio dell’anno scorso a oggi L’uomo senza talento ha ricevuto il plauso unanime della critica incassando complimenti e premi a non finire, e in particolare il Gran Guinigi Stefano Beani per la migliore iniziativa editoriale allo scorso Lucca Comics & Games. Un piccolo trionfo per una piccola casa editrice che ha portato in Italia un grande autore con una grande opera.
Non c’è nome importante che non tessa le lodi di Tsuge: dai critici come Paul Gravett (organizzatore fra l’altro della mostra Mangasia) ai fumettisti come Igort (amante del Giappone da tempi non sospetti), la fortuna letteraria di Tsuge sembra in qualche modo simile a quella di Irène Némirovsky, anche lei moderatamente celebre in patria per un certo periodo e poi dimenticata fino a una esplosiva riscoperta internazionale, pur con decenni di ritardo, con la sua ultima opera-testamento. L’uomo senza talento risale infatti al 1985, quando è iniziata la pubblicazione a episodi sulla rivista trimestrale COMIC baku, fondata l’anno prima dall’editore Hiroshi Yaku appositamente per ospitare con totale libertà creativa i lavori di Tsuge e sopravvissuta nell’impietoso mercato giapponese per nemmeno quattro anni.
Ci si potrebbe chiedere come sia possibile che un fumetto tanto apprezzato abbia impiegato ben diciannove anni per arrivare in Francia, venti in Spagna e addirittura trentadue in Italia (ed è andata bene, anzi, dato che questi sono gli unici tre Paesi fuori dal Giappone dove L’uomo senza talento è stato pubblicato), quando invece basta andare in una qualunque edicola, fumetteria o libreria per notare la sovrabbondanza di manga che fra un anno saranno già stati dimenticati da chiunque.
Dato che de L’uomo senza talento ne hanno parlato tutti, ma proprio tutti tutti tutti tutti tutti, e che sono già passati quasi nove mesi dalla pubblicazione nel mercato editoriale italiano, ha ancora senso parlare di questo fumetto che ha già ricevuto tutti gli elogi possibili?
La risposta è ovviamente sì, e per almeno tre buone ragioni.
Tratto
La prima ragione è che forse alcuni hanno letto solo la cartella stampa di Canicola senza aprire davvero il fumetto, dato che c’è chi attribuisce a Tsuge «virtuosismo compositivo per l’estrema finezza nel tratteggio e la generosa dovizia di particolari» e chi invece trova «i paesaggi e gli sfondi […] ben dettagliati, disegnati con una cura quasi maniacale».
Eppure basta sfogliare il fumetto per capire chiaramente che la priorità di Tsuge non era la qualità grafica, o quantomeno la qualità grafica nel senso comunemente inteso dal fumetto giapponese, solitamente molto attento alla verosimiglianza delle scenografie al punto di usarne spesso di preconfezionate. Il disegno di Tsuge si esprime verso altre direzioni: quelle dell’espressionismo e del surrealismo, della riduzione del mondo a un miscuglio di zone in luce e zone in ombra.

Tono
Una seconda buona ragione per tornare su Tsuge è il modo in cui viene recepito il suo atteggiamento filosofico. Il fumettista Berliac, che pratica buddhismo zen, rifiuta l’opinione occidentale secondo cui la visione di Tsuge è nichilista e pessimista: il fatto che con L’uomo senza talento Tsuge si sia congedato dal mondo del fumetto e dal mondo degli uomini (fatto metatestuale, perché è quel che accade anche al protagonista dell’opera) non è in sé un atteggiamento negativo e “passivo”, poiché si tratta comunque di una scelta volontaria e quindi “attiva”.
È pur vero però che la parabola professionale, sociale e umana del protagonista Sukegawa è una curva che si avvicina progressivamente e impietosamente all’asse delle ascisse. Dei sei episodi del fumetto, il primo e l’ultimo sono ambientati nel presente, e i quattro centrali sono dei flashback progressivamente sempre più indietro nella vita di Sukegawa, che chiariscono al lettore che la situazione attuale del protagonista è disperante. Quel che è peggio è che la sensazione di estremo disagio sociale, economico e morale provata dal personaggio sulla carta è trasmessa in maniera impietosa anche al lettore: ad esempio le scene con i litigi fra moglie e marito non sono macchiette, sono palesemente spaccati di vita vera tragicamente brutali.
La presa di coscienza avviene nel secondo capitolo, quando la moglie conta ogni singolo soldo speso in un giorno, e il lettore (che era stato precedentemente messo al corrente delle entrate della famiglia) si rende conto della miseria in cui stanno sprofondando. Tsuge non mette mai in bocca ai personaggi battute esplicative come «Siamo poveri»: il lettore se ne accorge da solo facendosi due conti, e questo è ancora più avvilente e spietato. Quando nel quarto capitolo nel giro di due pagine Sukegawa passa dallo schiaffeggiare il figlio sotto la pioggia al canticchiare la canzone di un vecchio spot TV, l’angustia raggiunge livelli intollerabili, quasi illeggibili.

Teatro
Infine, la terza e ultima ragione è che l’apparente semplicità de L’uomo senza talento nasconde una grande profondità di livelli di lettura. Se ogni aspetto possibile del fumetto sembra essere già stato sviscerato, dal succitato buddhismo zen al valore dell’arte, dal rapporto con la natura al ruolo storico dei peti, c’è un altro tema che è stato solo nominato e che invece risulta centrale, forse il più centrale di tutti per l’opera: il teatro.
Per tutto il tempo della lettura del fumetto aleggia una sensazione costante di star assistendo a un’opera teatrale. La scenografia in cui si muove Sukegawa, ovvero quella del fiume Tama con gli indigenti e le baracche, sembra quella de L’anima buona del Sezuan di Bertolt Brecht, lavoro che condivide con L’uomo senza talento non solo l’ambientazione da slum urbano, ma anche il tema di fondo, ovvero l’impossibilità dell’uomo di vivere liberamente la propria condizione esistenziale nella società che l’uomo stesso ha costruito (l’essere buoni nel caso di Brecht e l’essere artisti nel caso di Tsuge). Nel fumetto, né l’uccellatore, né il poeta veramente esistito Ino’ue Seigetsu detto Yanagi-no-ya, né Sukegawa riescono a vivere nella società umana, e quindi decidono rispettivamente di morire, di vivere allo stato selvatico, e di scendere di livello sociale: in tutti e tre i casi, sono tentativi di riavvicinarsi fisicamente alla natura e in questa maniera svanire.
Altri riferimenti teatrali più o meno evidenti sono distribuiti lungo tutto il fumetto, dal lussureggiante giardino dei ciliegi checoviano del terzo capitolo al “concerto” del monaco komusō nel quarto, dove la famiglia del protagonista assiste come pubblico pagante. Ma è soprattutto il secondo capitolo quello più esplicito, in cui Sukegawa partecipa a una mostra di suiseki (pietre artistiche) strutturata in tutto e per tutto come uno spettacolo teatrale, con il botteghino all’ingresso e gli spettatori rappresentati seduti e in ombra a osservare l’attore sul palcoscenico (il maestro che valuta le pietre). L’episodio si conclude in maniera estremamente teatrale, sia perché la moglie mette letteralmente in scena una sceneggiata contro il marito, sia perché coinvolge i due sensi della vista e dell’udito: il primo con le lacrime di moglie e figlio, che cadendo fungono da “sipario”, e il secondo con il rintocco della campana di un tempio buddhista.

La presenza della campana non è assolutamente casuale: una campana buddhista a dimensione naturale è infatti l’unico attrezzo di scena usato nel teatro Nō, e precisamente nel dramma Dōjōji, che è ambientato proprio vicino a un fiume e in cui compare proprio una donna piena di risentimento verso l’uomo che non la ama: esattamente come ne L’uomo senza talento.
Se i riferimenti diretti e indiretti non dovessero bastare, Tsuge ci tiene a farci capire senza possibilità di errore la centralità del tema del teatro con la scelta delle parole. Da questo punto di vista la traduzione italiana di Vincenzo Filosa, pur corretta e molto scorrevole, si inceppa proprio in alcune parole dalla sfumatura teatrale, come lo enzetsu del maestro di pietre, tradotto in italiano come “discorso”, che però contenendo la parola en- (“recitare”) e data la natura di questo discorso declamato da una sola persona, poteva essere adattato come “monologo”. In particolare il gergo teatrale emerge proprio nel dialogo principale del volume, nel sesto capitolo, quando il libraio, parlando con Sukegawa, gli dice che «Se non sei utile, la gente ti considera un rifiuto. In fondo, essere inutili è come non esistere». Ma la parola scelta in originale da Tsuge non è proprio «inutile», bensì 役立たず yakudatazu, cioè “senza ruolo”. Ruolo teatrale. Quindi, non avere un ruolo è come non esistere. Il titolo stesso dell’opera in giapponese è 無能の人 Munō no hito, dove mu è “niente, nulla” (lo stesso mu dei monaci komusō) mentre nō è “talento”… lo stesso nō del teatro Nō. Il titolo quindi è un gioco di parole che vuol dire sì “L’uomo senza talento”, ma contemporaneamente anche “L’uomo senza ruolo a teatro”: il teatro della vita.
D’altronde la tipologia di fumetto che disegna Tsuge, il gekiga vuol dire proprio questo: teatro. Il genere di fumetto autoriale che dai tardi anni ’50 in poi si contrappone al più frivolo manga è sempre tradotto in italiano come “immagini drammatiche”, ma forse è un calco dell’inglese “dramatic pictures”, perché in giapponese 画 ga vuol dire “immagini”, ma 劇 geki vuol dire “teatro”. Quindi sono immagini drammatiche non nel senso di “contrario di comiche”, bensì drammatiche nel senso di “dramma teatrale”. Gekiga, “immagini drammaturgiche”.
Träumerei
Quando si parla di gekiga e in particolare di Tsuge si usa spesso l’espressione “realismo”, come a indicare che questi fumetti abbiano una maggiore aderenza con la realtà rispetto agli antagonisti manga. Questo può essere vero solo nel momento in cui si riconosce che i gekiga sono più realistici e al contempo anche più irrealistici dei manga.
Se in un manga di Osamu Tezuka uno scienziato costruisce un bambino robot che vola e spara raggi laser, questo può sembrare irrealistico, ma a ben vedere all’interno del mondo narrativo di quel fumetto è perfettamente realistico. Finché rispettano le regole interne della fantascienza, del fantasy, dell’horror eccetera, la stragrande maggioranza dei manga è molto più realistica rispetto ai gekiga cosiddetti realistici; a riprova di ciò in Giappone vengono considerati gekiga anche Tommy, la stella dei Giants di Kajiwara & Kawasaki, Golgo 13 di Takao Saitō e Ultraman di Kazuo Umezz, non certo opere veriste. Questo è tanto più vero nel mondo di Tsuge, dove l’irrealtà irrompe all’interno della realtà e, nel farlo, infrange le regole interne del realismo.

Oltre a coinvolgere la parte grafica e la trama, il senso di fiction si ritrova anche alla struttura narrativa, grazie al continuo utilizzo di storie all’interno delle quali i personaggi raccontano altre storie ad altri personaggi, in un’applicazione fumettistica del teatro nel teatro pirandelliano. L’esempio migliore si trova nell’ultimo capitolo, in cui il lettore legge un libro in cui Sukegawa legge un libro in cui il poeta Ino’ue legge libri, in un effetto Droste potenzialmente infinito e surreale.
D’altronde, il surrealismo e quindi il sogno sono dei dati costanti in Tsuge: in Akai hana, in Neji-shiki e ne L’uomo senza talento è il salto nell’irrealtà (interna al personaggio, esterna al personaggio, o entrambe) che determina lo svolgimento/non svolgimento della storia. Il sogno è un elemento talmente centrale in Tsuge che la rivista fondata apposta per lui COMIC baku porta questo nome non a caso: baku è sì l’onomatopea dell’esplosione (come “boom”), ma è anche il nome di una creatura mitologica che mangia gli incubi e porta i sogni: nell’intenzione dell’editore Yaku, COMIC baku sarebbe dovuta essere la rivista che contiene i sogni dei fumettisti e dei loro lettori. È stata un sogno essa stessa, un sogno che si è interrotto dopo 15 numeri.

Dopo questo eccezionale volume Tsuge ha prodotto solo un altro paio di episodietti autoconclusivi fino alla chiusura di COMIC baku, e poi più nulla: non avendo più una rivista che lo pubblicava non ha potuto (o non ha voluto) trovarne un’altra. Forse era solo la scusa che cercava per abbandonare i fumetti.
Un fumettista così schivo da ritirarsi dal palcoscenico del mondo con un’opera in cui un fumettista schivo si ritira dal palcoscenico del mondo: un riferimento realistico così forte che necessitava di essere calmierato dall’irrealtà. Questo è L’uomo senza talento e questo è il debutto tardivo di Yoshiharu Tsuge in Italia, ma meglio tardi che mai. Benvenuto, maestro.
Yoshiharu Tsuge
L’uomo senza talento
Canicola Edizioni, Collana Jason Molina, 2017
224 pagine, b/n, 15×21 cm, €19.00
ISBN: 978-88-99524-12-8