Intervista a Cristian Posocco – Quarant’anni di manga in Italia
Dalla prima edizione de Il grande Mazinga del 1979 a oggi sono passati 42 anni: quattro decenni di manga in Italia raccontati da Cristian Posocco, publishing manager per i fumetti asiatici di Star Comics.
Anche se forse non molti ne sono a conoscenza, la gloriosa storia editoriale dei fumetti giapponesi in Italia è partita nel 1979 con la primissima, storica pubblicazione de Il grande Mazinga della Fabbri Editori, è proseguta negli anni successivi con titoli di successo come il giornalino di Candy Candy, e ha poi trovato finalmente una sua collocazione editoriale a partire dal 1990 con la rivista Zero della Granata Press contenente Ken il guerriero e Xenon. Ben 42 anni, una vita intera, in cui i manga hanno stregato almeno tre generazioni di lettori, portato alla creazione di emuli locali, influenzato il linguaggio degli autori contemporanei, sviluppato interpretazioni simboliche, fatto arrabbiare tante mamme, accresciuto a dismisura le fiere di fumetto, e sono infine diventati ufficialmente campioni di vendite anche in libreria.
Eppure, i fumetti giapponesi non sembrano ancora essere stati completamente assorbiti dalla società italiana. Ancora oggi il vocabolario Treccani riporta che il “manga” è il
fumetto giapponese di piccolo formato, diffuso anche in Occidente, che contiene storie di vario genere (fantastico, avventuroso, erotico), caratterizzate da forti contrasti passionali tra i personaggi e da un particolare trattamento del tempo narrativo.
Non che non esista anche quello descritto dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ma c’è molto di più.
In questi 42 anni il mercato italiano ha visto pubblicato almeno un esempio di praticamente qualsiasi tipo manga: di ogni possibile genere dall’horror più trucido ai drammi romantici alle passeggiate dei gourmet alle storie di gattini carini, di ogni target dai 7 ai 77 anni (cit.), di ogni tipologia editoriale dagli yonkoma più grotteschi al gekiga più raffinato, e di ogni formato dalle “sottilette” agli spillati alle riviste contenitrici fino alle grandi edizioni di lusso. Un panorama ancora minuscolo rispetto a quello originale giapponese, certo, ma comunque vastissimo e che non si esaurisce nemmeno lontanamente nella definizione del vocabolario Treccani.
Per celebrare e ricordare questi quattro decenni di manga in Italia, Dimensione Fumetto ha intervistato Cristian Posocco, publishing manager di STAR, l’etichetta dedicata ai fumetti asiatici di Star Comics, che nel 2020 è diventato il primo editore indipendente d’Italia per vendite e che sul suo sito web presenta Posocco così:
Nato a Pordenone nel 1976 ma cresciuto a Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, trascorre l’adolescenza tra fumetti, Prosecco e musica – fino al 2006, infatti, lavora nel negozio di dischi dei propri genitori. Laureato in Lingua e Letteratura giapponese all’università Ca’ Foscari di Venezia, dal 2015 è il papà di una splendida bimba. Tra le sue passioni, oltre alla musica e ai manga, annovera l’enogastronomia: ha infatti conseguito, nel 2015, un Master in Cultura del cibo e del vino presso l’università Ca’ Foscari.
Musica, fumetti e buona cucina: sembra che Posocco sappia molto bene come godersi la vita.
L’autore desidera ringraziare Cristian Posocco per la sua disponibilità.
I fumetti giapponesi sono arrivati in Italia negli anni ’80, quando il pubblico giovanile era già sensibile a robottoni e orfanelli per averli visti negli anime televisivi: non casualmente i primi, pochi manga disponibili al tempo erano quelli dei relativi anime che andavano in TV. Che rapporto credi ci sia fra i due media, e come è cambiato negli anni?
Gli anni ottanta, dal punto di vista dell’editoria manga, sono stati un decennio piuttosto frammentato e confusionario. La televisione era la regina assoluta dell’intrattenimento, mente l’editoria a fumetti stava andando in crisi. Periodici per ragazzi a parte, c’era l’idea che il fumetto fosse ormai un medium vecchio e superato.
La pubblicazione di fumetti giapponesi all’interno di riviste o collane espressamente dedicate, da parte di editori specializzati e competenti e indirizzata a un pubblico specifico, è iniziata con gli anni novanta e ha proposto un mix di titoli legati ad anime famosi e titoli inediti di grido in quel momento in Giappone o già noti oltreoceano. Durante quel decennio il mercato del fumetto si è risvegliato, dimostrando di aver ancora molto da dire, riportando in auge i classici supereroistici statunitensi, rinverdendo la tradizione nostrana con un personaggio storico come Dylan Dog, e dando inizio a un autentico boom del movimento grazie a Dragon Ball e all’invasione dei manga. Diversamente dal decennio precedente, in cui le serie animate giapponesi erano frammentate fra decine e decine di piccole emittenti locali, si era giunti a un accentramento verso programmi contenitore ed emittenti nazionali specializzate, col risultato che il pubblico non era più disperso e disomogeneo, ma molto più unitario, e i manga da cui erano tratte le serie animate di maggior successo potevano godere di vendite importantissime. Il successo delle serie TV diventava quindi una sorta di fondamenta su cui si poggiava con solidità il mercato dei manga, e i risultati strepitosi dei titoli mainstream sostenevano la pubblicazione di titoli meno noti, ma destinati a diventare dei futuri capisaldi.
Negli anni duemila gli anime sono andati scomparendo dai palinsesti e il mercato dei manga ha vissuto l’inizio di una dura contrazione, dovuta sicuramente alla crisi economica generale unita alla sovraesposizione di pubblicazioni nei negozi, ma anche alla mancanza di una “grande vetrina” come quella televisiva. Ora, con l’avvento dello streaming, sia il mercato degli anime sia quello dei manga sono in grande ripresa. Credo che si possa dire senza timore di smentita che i due mondi sono indissolubilmente legati tra loro a doppio filo.
Gli anni ’90 videro la formazione delle prime, consistenti comunità otaku italiane anche grazie alla massiccia programmazione di anime sui canali televisivi privati: i fan e le fan di queste serie TV ne chiedevano alle case editrici le versioni cartacee, e questo fu molto utile in particolare per gli shōjo, arrivati con la rivista Amici. In Giappone la divisione per genere è ancora forte, ma in Italia valgono le stesse categorie di target? Chi sono oggi i lettori italiani di manga?
I target giapponesi non sono null’altro che strumenti di marketing delle case editrici che producono fumetti nel Sol Levante. E sono anche un’approssimazione, perché ogni editore e ogni rivista li interpreta in maniera diversa. Conoscere il target giapponese di un’opera mi dà un’idea a grandi linee sul tipo di pubblico a cui è indirizzata nel mercato d’origine, e su quali siano le possibili strategie degli editori in merito. Conoscere la rivista in cui un’opera è serializzata mi dà molte più informazioni, sia sul pubblico specifico, sia sulle strategie editoriali e di marketing e, di conseguenza, sia sui contenuti che mi posso attendere.
La cultura italiana e il sistema distributivo italiano sono completamente diversi, e ritengo sia una forzatura assolutamente inutile e insensata voler applicare la terminologia giapponese al pubblico italiano. Non porta a niente, se non al flaming e al clickbait… ma capisco anche che questi due fenomeni siano considerati molto importanti dai creator.
Riguardo al pubblico dei manga in Italia, di recente sta avvenendo una crescita notevole del mercato dovuta proprio all’ingresso di nuovo pubblico, col risultato che anche in Italia i target degli editori stanno cambiando. Mi sembra che in questo momento sia possibile individuare tre macro fasce di pubblico. Gli appassionati di lunga data, che seguono i manga da molti anni, hanno fra i 26 e i 40 anni o più, sono molto competenti ed esigenti e sono in grado di apprezzare anche le opere più legate al contesto culturale nipponico – ma, di contro, tendono a storcere il naso (almeno a parole) di fronte ai titoli più mainstream.
I nuovi lettori giovani, che subiscono il fascino del manga ben più di quello dei fumetti provenienti da altre scuole o aree culturali, sono molto attratti dai titoli di tendenza e dalle pubblicazioni mainstream.
I nuovi lettori maturi, spesso ultra quarantenni, stanno finalmente scoprendo che di quei cartoni animati che tanto hanno amato durante l’infanzia esistono anche i fumetti. Sono particolarmente interessati ai classici e ai recuperi, ma non disdegnano i nuovi best seller – in cui ritrovano per certi versi lo stesso spirito e le stesse emozioni delle opere dei loro ricordi.
Tirando le some, se è vero che in passato sono stato un ortodosso sostenitore dell’importanza dell’osservazione della categorizzazione in target giapponese, ora, osservando la deriva che è stata presa, penso fortemente che sia necessario voltare pagina e guarire dall’ossessione per l’utilizzo della terminologia originale (specie se a sproposito, come troppo sovente accade).
Negli anni 2000 hai lavorato per portare in Italia The Five Star Stories, pubblicandolo in un’edizione assolutamente eccezionale con la stessa cura che si riserva a una grande opera di letteratura in prosa. Pochi anni prima quell’edizione sarebbe stata impossibile: cos’è cambiato nel pubblico o nel mercato in Italia durante questo decennio? Domanda e offerta sono mutati spontaneamente o sono stati in qualche modo forzati dalle linee editoriali di editori e curatori?
Il boom degli anni novanta ha portato a un’esplosione del movimento – che ha delineato progressivamente la geografia delle fumetterie e delle fiere di settore – e parallelamente era aumentato l’accesso alle informazioni grazie alla diffusione di Internet. La fioritura del mercato e dei luoghi di distribuzione aveva dato modo a nuovi editori di affacciarsi su questo settore, e la strategia migliore era cercare di differenziarsi proponendo edizioni mirate al circuito delle fumetterie, più curate rispetto a quelle da edicola, più fedeli ai modelli giapponesi, più indicate a un pubblico che era diventato preparato ed esigente. Più che una forzatura, penso che certi editori e curatori siano stati bravi e pronti a intercettare un mutamento spontaneo e naturale del mercato.
Parlando nello specifico di The Five Star Stories: ci puoi raccontare brevemente come è stato possibile pubblicare in Italia quest’opera di culto e notoriamente di difficilissima acquisizione all’estero?
Questo caso in particolare dipende unicamente da fattori contrattuali. La licenza di quest’opera era bloccata a causa di complessità burocratiche in patria – cosa tutt’altro che rara quando si parla di proprietà intellettuali i cui copyright siano detenuti da diversi licenziatari operanti in diversi settori merceologici – e la nostra fortuna è stata insistere regolarmente nel richiedere informazioni e ribadire l’interesse all’editore giapponese fino a quando l’impasse non è stata sbloccata e la licenza è diventata disponibile.
Eravamo già però entrati nel periodo di crisi del mercato italiano, e resto convinto che senza le complicazioni di cui sopra questa serie sarebbe stata pubblicata in Italia ben prima, e avrebbe presumibilmente ottenuto anche risultati più importanti.
Che sia per ragioni venali, per effettiva apertura mentale o per istinto di sopravvivenza, dagli anni ’10 molte librerie hanno iniziato a vedere manga. Credi che i fumetti vadano considerati come una cosa a parte rispetto al resto della produzione editoriale, o la loro integrazione è solo questione di tempo?
Perché una cosa a parte? I fumetti sono libri, in tutto il mondo è sempre stato così, solo in Italia venivano ghettizzati. Ragioni venali e apertura mentale sono strettamente legati, e un buon ritorno economico è capace di spingere i commercianti a interrogarsi e ricredersi. Gli editori, comunque, hanno creduto e insistito su questo canale distributivo, e ora se ne raccolgono i frutti. Considerando anche che la generazione cresciuta con gli anime giapponesi negli anni ottanta è ora il motore economico del Paese, io vedo il futuro molto molto roseo: contare finalmente su una vetrina importante come le librerie di varia e poter finalmente puntare alla quasi totalità del pubblico potenziale rappresentano due strumenti straordinari perché il movimento si possa imporre definitivamente come una realtà culturale alta, diffusa e de facto, quindi incontestabile.
Secondo me non si torna più indietro, ma certo il fumetto e i suoi operatori devono avere l’umiltà e l’intelligenza di mettersi continuamente in discussione, di non adagiarsi sugli allori, di saper cambiare ed evolversi seguendo l’evoluzione dei tempi, dei mezzi di comunicazione, del pubblico.