Il re leone – Il problema di Simba: l’arco di trasformazione del personaggio
Secondo articolo dedicato a Il re leone, un film bellissimo in cui però la chiarezza tematica della trama viene sacrificata sull’altare della grandeur hollywoodiana.
Dimensione Fumetto dedica una settimana di analisi critica a Il re leone, uno dei franchise più importanti, famosi e definenti dei Walt Disney Studios.
In questo secondo articolo: pregi e difetti dello storytelling de Il re leone del 1994 con un’analisi dell’arco di trasformazione di Simba.
Come mai Scar ha rovinato Simba per sempre
Io amo alla follia Il re leone: l’animazione, la musica, i colori, l’idea degli animali umanizzati, il fatto che potessi identificarmi a pieno con Simba da cucciolo.
La storia è l’Amleto, ma in una versione in cui i protagonisti sono delle adorabilissime macchine di morte piene di zanne e artigli. Una versione dell’Amleto in cui padre e figlio si vogliono bene. Non c’è solo l’onore da vendicare. C’è l’amore. L’amore per uno dei padri migliori che l’animazione conosca.
Al tempo mi feci comprare l’album di figurine del film, e poi partecipai a un concorso della Mattel spedendo un disegno del leoncino Simba per avere in cambio un’audiocassetta della colonna sonora, che è andata a ripetizione nell’autoradio dei miei genitori fino a che non andò misteriosamente perduta.
(La ritrovai cinque anni dopo dentro il cassetto del lucido per scarpe).
Questo amore per Il re leone però non era tutto rose e fiori.
Anche da bambino, e ripeto da bambino, non da adolescente puntiglioso che si sente intelligente a vivisezionare i film della propria infanzia, c’erano scene che volevo solo saltare, o ritirarmi fra i cuscini del divano fino a che non erano finite. Come la chirurgia magica ultrainvasiva di Ariel ne La sirenetta , o Belle che entra nell’ala ovest in La bella e la bestia.
Solo che, invece che per paura, quelle scene le evitavo per il disagio. Per la sensazione che qualcosa fosse fuori posto.
I tre dialoghi maledetti
No, non parlo di plot holes, quelli e l’adolescente puntiglioso che li va a trovare. Da bambino non mi posi mai il problema se Nala e Simba fossero fratellastri o se i leoni fossero effettivamente in grado di controllare il clima.
(Anche se sarebbe stato un interessante concetto per i videogiochi della serie Kingdom Hearts).
Parlo dei momenti che, nel nome di una resa estetica e drammatica, diciamo hollywoodiana, hanno distorto il tema e la morale del film, e ci sono riusciti così tanto che la maggior parte delle persone crede Il re leone sia un film sul “prendersi le proprie responsabilità”, ovvero che Simba deve concludere il proprio periodo sabbatico trascorso a ciucciare bacarozzi assieme a un cinghiale e un suricata e riprendersi il proprio posto sulla Rupe dei Re, quando invece, di fatto, la storia vorrebbe insegnare il completo opposto.
Peccato ci siano tre dialoghi che urlano in faccia allo spettatore questa morale percepita. Purtroppo, sono proprio i dialoghi che accompagnano tre delle scene più intense del film, ovvero:
- La comparsa del fantasma di Mufasa
- Il rincontro fra Simba e sua madre
- La confessione di Scar
Queste tre scene, nonostante la loro resa cinematografica magistrale che le rende fra le più celebri del film, in realtà lo depotenziano perché remano contro al cosiddetto “arco di trasformazione del personaggio” di Simba, che era invece messo in moto dalla scena più intensa di tutte, cioè ovviamente quella del leoncino che si struscia addosso al corpo del padre morto, e che introduce il vero tema portante del film: il superamento del trauma.
L’arco di cambiamento positivo, breve lezione
Prima di proseguire nell’analisi delle tre scene citate, è necessario illustrare almeno brevemente in cosa consiste quel succitato concetto estremamente complesso che è l’arco di trasformazione del personaggio.
Nella scienza dello storytelling è assodata fin dai tempi di Aristotele la teoria per cui una storia debba essere divisa in tre atti:
- Presentazione del protagonista e del suo mondo ordinario. Arriva l’incidente scatenante (inciting incident) che disturba il mondo ordinario, rende palese la fonte del conflitto e provoca più tardi il primo punto della trama (first plot point) in cui il protagonista decide, o è costretto, ad abbandonare il mondo ordinario.
- Il protagonista combatte contro il conflitto, inizialmente in modo fallimentare, poi verso il punto centrale (midpoint) inizia a mettere in pratica le conoscenze necessarie per avere la meglio. Purtroppo non è ancora pienamente capace o chiaro nelle sue intenzioni, e nel terzo punto (third plot point) la forza antagonista ha la meglio e il protagonista è lasciato nel peggiore degli stati emotivi e fisici.
- Il protagonista trova l’espediente o la determinazione necessaria per superare la forza antagonista. Risolve il conflitto e ritorna al mondo ordinario con nuove capacità e disposizione d’animo.
Questa teoria, appena sintetizzata in modo peggio che indecente, ha diverse declinazioni. Su Dimensione Fumetto ne abbiamo già discusso in modo più approfondito in riferimento a Tarzan, ma stavolta ci soffermeremo su una delle varie declinazione della teoria, ovvero la corrispondenza fra un conflitto esterno e un conflitto interiore del protagonista, declinazione analizzata nel dettaglio nel libro Creating Character Arcs di K.M. Weiland.
In tutte le buone storie, il protagonista non combatte mai solo un conflitto esterno, ma anche uno interno, che sono indissolubilmente legati. Magari uno degli antagonisti sa come condizionare il protagonista facendo leva sui suoi dubbi, o è il conflitto del personaggio a indurlo a compiere scelte sbagliate.
Per portare avanti la narrazione, la struttura più usata nelle opere moderne è il cosiddetto arco di cambiamento positivo, in cui il protagonista riesce a superare il suo conflitto interiore e quindi conseguentemente a divenire abbastanza capace e lucido da risolvere quello esterno.
La Weiland definisce le due forze di questo conflitto come menzogna condizionante e verità liberatrice. La prima mantiene il morale del protagonista in uno stato di miseria o al massimo apatia, la seconda riesce a renderlo altruista e consapevole delle proprie scelte e priorità.
Il seguente grafico approssimativo esemplificare la teoria nel caso generale.
Il seguente invece è un esempio su un caso pratico: Toy Story, uno dei più noti film d’animazione di sempre, quello che è stato capace di tirare fuori l’impossibile da una storia su giocattoli viventi senza mettere in mezzo Babbo Natale.
Due film in uno
Il re leone, però, è la prova che queste teorie non vanno prese alla lettera.
Nonostante anche questo film presenti una struttura in tre atti, questi non hanno affatto il rapporto di durata e importanza che hanno di solito. Ne Il re leone, infatti, metà del film è spesa nella backstory, ovvero nella narrazione degli eventi antecedenti alle azioni del protagonista, e il secondo atto inizia solo con il litigio di Simba e Nala, in cui Simba finalmente inizia a a contemplare l’idea di tornare alle Terre del Branco. Cioè a un’ora dall’inizio del film e a mezz’ora dalla fine. Tutto quello che viene prima è “solo” ambientazione, presentazione dei personaggi e storia pregressa. La serie di eventi che imposta la personalità del protagonista.
Una premessa cosi grande che contiene un film per conto proprio, La disavventura al Cimitero degli elefanti , in cui il piccolo Simba attraversa un vero e proprio mini-arco narrativo. Incuriosito da parte del perfido zio Scar sui territori fuori dalle Terre del Branco, e sicuro della propria carica di principe, Simba trascina la sua amica Nala al Cimitero degli elefanti in cui rischiano di farsi sbranare dalle iene, ed è solo l’intervento di Mufasa a salvarli. Simba torna a casa con la coda fra le gambe e Mufasa gli spiega, con calma, che non deve più correre tali rischi, perché la sua morte farebbe soffrire tutti.
Un arco narrativo in cui Simba perde il character flaw dell’arroganza e impara un paio di lezioni importanti.
- Essere il figlio del re non ti rende intoccabile
- Fidati di quello che dicono gli adulti
- I bambini non devono fare gli adulti
Il punto 2 ha un che di controtendenza, visto che quasi tutta l’animazione anni ’90 ha come protagonisti dei ragazzini che si rivelano più intelligenti e capaci degli adulti.
Altra cosa controtendenza è la morbidezza di Mufasa nei confronti di Simba dopo che lui ha disubbidito e quasi si è fatto sbranare dalle iene, un atteggiamento magnifico, commovente, che da bambino mi faceva piangere. Un genitore che capisce che il bambino non è responsabile delle proprie azioni e che non deve essere punito, ma fatto ragionare. Quanti di noi possono dire di aver avuto genitori così da piccoli? Date una ciotola con su scritto Migliore papà del mondo a questo gattone. Una ciotola, un tiragraffi, una lettiera. Un’antilope.
Invece Sarabi no. Sarabi madre pigra. Mettere un uccello a guardia di due cuccioli di leone. Un uccello che usano per le esercitazioni di agguato. Un uccello che probabilmente non si sono mai mangiati solo perché sarebbe troppo difficile da spolpare con le loro zanne giganti. Tanto valeva mandarli a spasso da soli.
Hakuna Matata
Il film vero e proprio inizia solo dopo la backstory che prende il personaggio di Simba, lo ripulisce dal character flaw dell’arroganza e gliene innesta uno nuovo, la fuga dal trauma.
Tutti sappiamo di che trauma si tratta. Senza rievocare in maniera troppo vivida l’immagine di un cucciolo di leone che si strofina sul corpo del padre e ancora non afferra l’idea che sia morto (ahi!), ecco che arriva il supercattivo Scar, che invece di sbranare il cucciolo del maschio alfa deposto, come qualsiasi leone per bene farebbe, decide di usare la manipolazione psicologica e convincerlo che la colpa della morte di Mufasa sia sua.
E quindi farlo sbranare dalle iene. Forse per assicurarsi che morisse infelice. Da qui in poi conviene supporre che la manipolazione di Scar sia stata così potente che Simba abbia dimenticato di essere stato portato nella gola maledetta proprio da suo zio. Succede, la manipolazione dei ricordi infantili è un fenomeno reale e frequente, ma non sono sicuro se attribuire a un film Disney così tanti livelli di lettura.
Comunque, fuga dalla gola, dentro il roveto, e poi disperso nel deserto. Simba ha assimilato il character flaw che lo condizionerà per il resto del film.
Subito dopo arrivano Timon e Pumbaa, un suricata e un facocero che lo vedono depresso e gli spiegano che la miglior soluzione ai problemi è… non pensarci! Hakuna matata!
Parte la seconda canzone allegra del film. Che, come la prima, è inquietante se ti fermi a pensare. Se in Voglio diventar presto un re Simba celebra la propria arroganza e il desiderio che suo padre muoia il prima possibile, in Hakuna Matata ci sono due adulti che insegnano al leoncino di non parlare a nessuno dei propri problemi e cercare di ignorarli.
L’arrivo di Nala
La storia ufficialmente inizia solamente con il reincontro fra Simba e Nala. È Nala l’incidente scatenante, inciting incident, ciò che disturba l’equilibrio stabilito:
- Scar tiranneggia sulle terre del branco, e siccome i suoi poteri magici si limitano al vulcanesimo coreografico, le sta lasciando andare a schifio
- Simba ozia con Timon e Pumbaa, usando tutti i suoi poteri magici di fertilità per tenere la foresta verde, piena di insetti psichedelici e priva di qualsiasi altro animale
Ovviamente in questo equilibrio Simba non è veramente felice. Dopo aver scherzato e fatto gare di rutti con i suoi genitori adottivi, si allontana e fa la cosa più naturale che potrebbe fare chiunque soffra di un senso di colpa represso: lo scarica addosso a qualcun altro.
Urla al cielo, al proprio padre, di essere morto, quando gli aveva promesso di stargli a fianco. Incolpare qualcuno per essere morto. È uno dei momenti più penosi e allo stesso più profondi e intensi che si sia mai visto in un film Disney.
È sempre Nala, inoltre, che termina il primo atto incalzando Simba, accusandolo di rifiutare le responsabilità di re, e gettandolo nel tormento emotivo del secondo atto.
Solo che lei, povera, se solo sapesse che Simba è convinto di aver causato la morte del padre, non direbbe che sta fuggendo dalle responsabilità. Quello da cui sta fuggendo Simba è il senso di colpa.
Ricordati chi sei?
Entra in scena Rafiki, il classico archetipo del mentore manesco e imprevedibile che in un paio di frasi sagaci rivolta la forma mentis del protagonista e lo induce in una visione mistica.
Una visione epica, sontuosa, visivamente originale. Altro che spettri vaporosi, questo leone è fatto di nubi e luce celestiale.
La frase «Ricordati chi sei» è epica, tonante, immortale… ma fuorviante. L’intera scena che non tocca il punto e il dialogo fra il fantasma di Mufasa e Simba è il primo dei tre “dialoghi maledetti”.
Chi è Simba a questo punto? Il leoncino arrogante che se ne va al Cimitero degli elefanti? No. Il leoncino non più arrogante che vediamo per circa cinque minuti prima che succeda il patatrack e divenga un leoncino traumatizzato? Il leone eterno adolescente che cerca di nascondere il suo trauma dietro il comportamento da buffone?
Non sarebbe stato più opportuno che la visione di Mufasa, o Rafiki di persona, a questo punto gli dicessero quello che aveva davvero bisogno di sentire e assimilare? Che era stato un incidente? Che non deve colpevolizzarsi per essere stato un cucciolo inerme e incapace di tendere una zampa forte muscolosa al proprio padre all’epoca dei fatti?
Certo, sarebbe stato meglio per il povero Simba, ma non ci sarebbe stata una frase altrettanto epica come «Ricordati chi sei», niente da poter mettere sulle magliette e le stampe di Mufasa celestiale.
Questa è la prima scena che rovina il character arc di Simba.
Sono stato io?
La seconda delle tre scene vede protagonisti Scar, Sarabi e Simba dopo il ritorno di quest’ultimo alle Terre del Branco. Per screditare Simba, Scar decide di dire a tutti che è stato lui a causare la morte di Mufasa: Sarabi si avvicina al figlio con occhi spalancati e voce tremante e gli dice «No, non è vero!».
Nonostante anche stavolta si tratti di una scena di enorme potenza cinematografica, per Simba è letteralmente il peggiore momento che potesse immaginarsi: solo con la sua accertata colpevolezza di fronte al giudizio di tutti. Un incubo.
E Sarabi in quel momento si comporta più come il personaggio di un incubo che uno reale, visto che non fa domande naturalissime tipo “Come è successo?” o non si chiede come mai un cucciolo riesca a causare la morte di un adulto grande venti volte lui.
Il fatto di stare attribuendo a un bambino (sì, Simba è un leone, ma i leoni in questa storia sono esseri umani con pelliccia e zampe) la colpa di qualcosa che non poteva controllare, non passa minimamente per la testa a nessuno.
Anche fosse stato per davvero un incidente causato da Simba, anche se non fosse mai emerso che Scar era l’effettivo colpevole, anche se Mufasa fosse morto al Cimitero degli elefanti, la colpa non sarebbe comunque stata di Simba, un minore incapace di distinguere il bene dal male, ma al massimo di Sarabi che ha trovato fosse una buona idea far guardare due leoncini dall’uccello maggiordomo.
Ho ucciso io Mufasa!
Fin qui il character arc è ancora salvabile. Immaginiamo che tutti i presenti siano troppo scioccati per fare le domande che chiunque farebbe a uno che dichiara di aver fatto morire il proprio padre.
Scar carica Simba, lo tormenta, i loro poteri magici di leoni frizionano e ciò scatena il temporale, fulmini e incendio. Simba scivola dalla rupe e si ritrova sospeso su un mare di fuoco. Il suo momento più basso. Moralmente e fisicamente. Così finisce il secondo atto.
Il terzo atto inizia con la scena immediatamente successiva, e invece che salvare il personaggio di Simba, lo distrugge.
Cosa fa Scar? Confessa il fratricidio con perverso compiacimento. Sull’onda della rabbia per la morte del padre, Simba attinge di nuovo ai suoi poteri di leone magico, si alza in volo e atterra Scar, obbligandolo a confessare di fronte a tutti.
Momento scenico? Sì. Specie la parte in cui coprono il volo magico di Simba con il flashback di lui da piccolo che vede il padre morire, me lo immagino volare sull’onda del vento come Tempesta degli X-Men.
Momento catartico? Sì. Se sei di quelli convinti che la soluzione ai propri mali sia dare la colpa a qualcun altro. In quel momento Simba, con gli artigli premuti sulla gola di suo zio gli sta rovesciando addosso tutta la rabbia e la frustrazione che lui aveva rivolto a sé stesso in tutti quegli anni.
Momento risolutivo? No. Simba non sta risolvendo il proprio conflitto interiore, lo sta trasferendo verso un soggetto esterno. Scar ha letteralmente spezzato il character arc di Simba. Si è offerto come bersaglio di colpa e odio, quando quella colpa e odio Simba li doveva abbandonare, non semplicemente esternalizzarli.
Scar fa giusto in tempo a lasciare quest’ultima cicatrice nella famiglia di suo fratello prima di essere sbranato dalle sue stesse iene.
Ho ucciso io Simba
Come concludere il film, con Scar morto male e Simba lasciato solo con la relativa consolazione di non aver perlomeno personalmente gettato il proprio padre giù da una rupe? Con il ruggito di Simba sulla cima della rupe, per mostrarci ora quanto è cresciuto rispetto a quando gli uscivano solo dei miagolii (sai che forza, biologia) e che ora è pronto a ereditare il titolo del padre.
Eppure il resto del film era stato su tutt’altro, ovvero sul grande trauma del parricidio, ma a quanto pare questo trauma si risolva così, in due secondi, e il finale si concentra invece sulla predestinata ascesa al potere di Simba.
La vera conclusione del personaggio di Simba avrebbe dovuto essere liberarsi della colpa di essere stato un cucciolo inerme al tempo, e poter quindi essere un adulto funzionale e responsabile, ma nel nome di queste tre scene-madri, la visione di Mufasa, la reazione di Sarabi, e la confessione di Scar, l’arco di trasformazione di Simba si è spezzato.
La confessione di Scar sarebbe stata irrilevante. Anzi, in questo caso è stata distruttiva.
Mi sarebbe piaciuto davvero amare fino in fondo questo film. Amo Simba, amo la figura paterna di Mufasa, amo l’efficienza maligna di Scar (anche troppo efficiente), tollero i personaggi comici (Zazu, che non aggiunge nulla), tollero l’improvvisa scena romantica, e amo alla follia la naturalità con cui hanno riprodotto il comportamento di un bambino ferito che indugia in un’adolescenza protratta per non dover affacciarsi alla realtà dei fatti.
Avrei solo voluto un finale meritevole per tutti loro.
Il post-trauma
Si potrebbe pensare che tutto ciò sia solo un’analisi pedante di un film che comunque tutto sommato funziona, se non fosse che la prova dell’arco spezzato arriva dalla stessa Disney.
Nel seguito Il re leone II – Il regno di Simba, prodotto dalla Disney nel 1998 per l’home video, il re Simba è divenuto un personaggio di seconda fascia, padre oppressivo, che alimenta il conflitto esterno e che la notte ancora sogna la morte del padre Mufasa e di essere lì senza poterlo aiutare. Il trauma non è minimamente superato e la menzogna e ancora lì, e continua a condizionarlo.
Scar, nella sua sconfitta, ha vinto.
Fare un Il re leone II su Simba che abbandona il senso di colpa sarebbe stato un seguito ben più degno rispetto a una trita commedia romantica su un giovane tenebroso che cerca di sedurre una ragazza per fini personali e poi si ritrova innamorato per davvero.
E poi magari anche metterci i poteri magici dei leoni finalmente palesi. E poi un crossover con Frozen e Vaiana. E poi mettere su gli Avengers della Disney. Dai, che bellezza.
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Grazie, bel commento