Il ragazzo e l’airone: e noi come vivremo? – Idee, impressioni, interpretazioni sull’ultimo film di Hayao Miyazaki

Locandina italiana del film "Il ragazzo e l'airone" di Hayao Miyazaki.A quasi tre settimane dal debutto nelle sale italiane, Il ragazzo e l’airone è diventato un piccolo, grande caso cinematografico. Con oltre cinque milioni e mezzo di euro certificati al 15 gennaio, il 12esimo e forse che sì forse che no ultimo film di Hayao Miyazaki ha già superato gli incassi italiani di tutti gli altri 15 film Studio Ghibli distribuiti nel ventennio 2004-2024 da Lucky Red messi insieme.

I numeri del botteghino sono eccellenti, con oltre 100’000 spettatori (di cui oltre 15’000 prenotati) e oltre 800’000 € di incasso già al primo giorno di programmazione. Non solo: avendo sfiorato i quattro milioni di euro di guadagno nella sola prima settimana, Il ragazzo e l’airone ha battuto il record italiano di incassi nei primi sette giorni di programmazione per un anime, precedentemente detenuto da Capitan Harlock del 2013 (uscito in Italia nel 2014), e poi anche il record generale di incassi per un film d’animazione giapponese in Italia, precedentemente detenuto da Pokémon il film – Mewtwo contro Mew del 1998 (uscito in Italia nel 2000). Veramente un successo straordinario.

O forse un successo nient’affatto straordinario bensì, più semplicemente, proporzionale al successo che Miyazaki ha da sempre in patria e nel resto del mondo e che in Italia purtroppo non aveva ancora mai avuto? È finalmente arrivato nient’altro che il meritato riconoscimento per questo artista eccezionale, in un caso da manuale di “meglio tardi che mai”? In parole povere: non è che adesso incassa tanto, è che prima incassava poco? Sembrerebbe di sì.

Lasciando agli analisti del distributore Lucky Red analisi più dettagliate, ci limitiamo qua a listare in ordine sparso alcune possibili ragioni di questo risveglio d’interesse del pubblico italiano verso Miyazaki: una campagna pubblicitaria di livello non inferiore a quella per un film dal vivo, la distribuzione in numerose copie, la programmazione normale e non limitata ai famigerati “eventi speciali” da pochi giorni e con prezzo del biglietto maggiorato, il cambio di staff di localizzazione italiana sottolineato da un podcast ad hoc, il rinnovato favore del pubblico generalista verso gli anime a seguito della pandemia (in Italia e nel mondo), la vittoria del Golden Globe (il 7 gennaio) come Miglior film d’animazione, il passaparola che ha coinvolto chiunque e non solo gli animefan, lo sfruttamento commerciale del brand Studio Ghibli attraverso un temporary store, e altro ancora. In breve, l’aver trattato Il ragazzo e l’airone con rispetto per quello che è, ovvero un’opera d’arte di alto valore destinata a un pubblico quanto più ampio e popolare possibile, e non come un oscuro prodotto di nicchia incomprensibile e rivolto solo al suo supposto micro-target otaku come troppe volte era stato fatto finora. Finalmente, Lucky Red, grazie.

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Leggi qui la nostra recensione
de Il ragazzo e l’airone!
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E a proposito del succitato Golden Globe dello scorso 7 gennaio, la vittoria di questo premio ha ulteriormente cementato la presenza di Hayao Miyazaki nell’Olimpo dei più importanti registi della storia del Cinema (se mai qualcuno avesse ancora avuto dei dubbi in merito), poiché il cineasta giapponese è una delle sole 15 persone nella storia ad aver vinto coi suoi film almeno quattro dei cinque principali premi cinematografici al mondo (Oscar, Globe, Orso, Leone e Palma), e uno dei soli sei in vita, e l’unico a occuparsi di animazione. A questi si aggiungono i premi locali, come quelli dell’Academy giapponese (Miyazaki ne ha vinti quattro, due dei quali sono come Miglior film – in generale, non d’animazione – per Principessa Mononoke e La città incantata), e quelli specifici per l’animazione, come gli Annie Awards, nella cui LI edizione che si svolgerà il 17 febbraio 2024 Il ragazzo e l’airone è in gara con sette candidature (Miglior film, animazione, regia, colonna sonora, scenografia, storyboard e sceneggiatura).

Di seguito una tabella riassuntiva con i registi più premiati nel cinema mondiale; il cerchietto ◯ indica vittoria, la crocetta × mancata vittoria.

Regista vivo/morto Academy Award Golden Globe Goldener Bär Leone d’oro Palme d’or
Robert Altman
Michelangelo Antonioni ×
Ingmar Bergman
Bernardo Bertolucci ×
Luis Buñuel × ×
Henri-Georges Clouzot ×
Francis Ford Coppola ×
Cosa-Gavras ×
Vittorio De Sica ×
Federico Fellini ×
Jean-Luc Godard × ×
Akira Kurosawa × ×
David Lean ×
Ang Lee ×
Ken Loach × ×
David Lynch × ×
Louis Malle × ×
Hayao Miyazaki ×
Roman Polański
Satyajit Ray × ×
Martin Scorsese ×
Paolo e Vittorio Taviani ☆/† × ×
Orson Welles × ×
Wim Wenders × ×
Billy Wilder

Insomma, con Il ragazzo e l’airone Hayao Miyazaki non solo conferma il suo specialissimo e universalmente riconosciuto status di auteur cinematografico del massimo livello mondiale, ma riesce anche finalmente a sfondare al botteghino italiano: yoku yatta, maestro Miyazaki.

Per celebrare ulteriormente questo film cruciale e che, chissà, magari porterà a un Third Impact degli anime in Italia dopo il primo di Heidi e il secondo di Neon Genesis Evangelion (e in entrambi i casi Miyazaki era coinvolto direttamente), DF ha raccolto alcune testimonianze da più voci che ne sottolineano gli aspetti artistici, contenutistici, simbolici e morali. Punti di vista diversi che concorrono tutti verso il riconoscimento del valore straordinario di quest’opera straordinaria.

DF desidera ringraziare tutti gli autori qui pubblicati.


Rielaborazione di Alessandro Bacchetta di un fotogramma dal film "Il ragazzo e l'airone" di Hayao Miyazaki.
Rielaborazione di un fotogramma dal film disegnato da Alessandro Bacchetta in esclusiva per DF. Grazie mille!

Mi apro alla chiusura

Troppo spesso nei vari articoli di opinione su Il ragazzo e l’airone ho letto “a parte la qualità visiva…”, o concetti affini. Non si può dare per scontata una meraviglia del genere: gli sfondi dipinti, le animazioni superbe, le costruzioni digitali integrate con sapienza e armonia. A livello grafico siamo di fronte all’eccellenza, e non è detto che ci ricapiterà a breve, o ci ricapiterà in generale, di trovarci di fronte a un cartone animato che unisca una simile perizia tecnica alla grazia e al buon gusto che sono organici al modo di narrare di Hayao Miyazaki.

Premessa grafica conclusa, trovo che Il ragazzo e l’airone sia un film ammantato dalla morte: l’opera probabilmente conclusiva di un maestro che ha superato gli ottant’anni di età, e con pacatezza e coerenza, nonché rispetto per la propria identità e il proprio passato, riflette su quanto l’attende – e su quanto gli è accaduto finora. Non è un film triste né drammatico: parla di fine e inizio, di eredità e identità familiare, di tempo e atemporalità, in quella dimensione “altra” che si interseca e si cuce vicendevolmente alla realtà quotidiana, in cui convivono nascituri e morti, in cui è possibile incontrare, da coetanei, la propria madre defunta.

È un’opera di chiusura che parla di chiusura, con una potenza creativa debordante e strabiliante.

Alessandro Bacchetta


Dettaglio di una scena tratta dagli storyboard di Hayao Miyazaki per il suo film "Il ragazzo e l'airone".
Dettaglio di una scena tratta dagli storyboard di Hayao Miyazaki per il film.

La rappresentazione della guerra ne Il ragazzo e l’airone

Il ragazzo e l’airone, così come Si alza il vento con cui forma un affascinante dittico, è ambientato nel periodo dell’ultimo conflitto mondiale. Siamo negli anni finali della guerra del Pacifico e, anche se non sono fornite date ben precise, gli avvenimenti del lungometraggio si dovrebbero svolgere fra il 1943 e il 1945. In queste poche righe si cercherà di evidenziare come il conflitto venga rappresentato e spesse volte implicato, ma sempre, elemento da tenere molto presente, filtrato dall’esperienza fantastico-autobiografica raccontata da Miyazaki nel film e secondario rispetto all’arco narrativo del protagonista Mahito.

Prima di procedere, ci sembra necessario fare delle precisazioni metodologiche e riguardo all’approccio “interpretativo” del lavoro. Una delle caratteristiche più affascinanti de Il ragazzo e l’airone è quella di presentare un “testo” visivamente denso, quasi sovraccarico di influenze e riferimenti, più criptico e meno lineare di molti altri lavori realizzati da Miyazaki, fatta eccezione forse per i cortometraggi che hanno spesso funzionato per il regista da palestra sperimentale. Questa sovrabbondanza e ricchezza visiva crea però anche il rischio di un eccesso interpretativo: senza scomodare Susan Sontag, andrebbe comunque notato come uno dei pericoli principali in cui molta critica rischia di impantanarsi, in primis chi scrive, è quello di appiattire la polifonicità e la fluidità del lavoro a favore di un contenuto letto a senso unico e che rimandi unicamente a elementi esterni al lungometraggio, del tipo “l’airone rappresenta X, la torre invece è Y” e così via. Ciò che segue è quindi solo una possibile pista esplorativa che fa naturalmente riferimento a elementi esterni al lavoro, ma che cerca anche di evidenziare come il tema della guerra del Pacifico, non una delle tematiche più presenti nel lavoro, sia comunque parte integrante di quella complessa rêverie poetica che è Il ragazzo e l’airone.

La celebrata scena che apre il film, l’incendio dell’ospedale dove si trova la madre di Mahito, assieme alla scena successiva, la parata militare, pone le basi e crea delle coordinate all’interno delle quali si svolgeranno le vicende del film. Come è stato fatto notare da più parti, non è chiaro se l’incendio sia stato causato o meno da un bombardamento aereo, o almeno non pare essere stato esplicitato nel lungometraggio. Ciò che conta nell’economia del lavoro è che l’orrore creato dalle “rivoluzionarie” animazioni di Shin’ya Ōhira (rivoluzionarie per un lavoro di Miyazaki, s’intende) funzioni come rappresentazione espressionistica dell’orrore del momento storico in cui il film è ambientato. Le lingue di fuoco deformano le figure che deambulano per le strade, l’oscurità sembra quasi inghiottirle e al centro di tutto questo Mahito corre e capisce di aver perso la madre. Guerra quindi come tenebra, catastrofe e perdita di uno dei genitori, che per un ragazzo è la catastrofe suprema. Al buio con cui si conclude la scena e che chiude Mahito al suo interno, si contrappone l’apertura di quella successiva, più solare e accompagnata da una musica dolce, che ci mostra il passaggio di un carrarmato e di alcuni soldati a cui Mahito e la nuova madre Natsuko si inchinano, togliendosi il cappello per rispetto. Sono queste due scene, opposte tanto per il tono visivo usato, quanto per ciò che rappresentano, le fondamenta su cui si svilupperà il resto della trama e la crescita interiore di Mahito: da una parte il legame con la macchina militare giapponese, una situazione in cui Mahito si trova “gettato”, una non-scelta vista la sua giovinezza, dall’altra la scoperta dell’orrore della morte e della distruzione portate dalla guerra. Vale la pena ribadire ancora una volta che anche se l’incendio in cui muore la madre non è stato causato da un bombardamento (cosa che avrebbe peraltro aggiunto al lavoro un elemento di vittimismo fuori luogo), le atmosfere del disastro richiamano il terrore di qualsiasi conflitto bellico in qualsiasi epoca.

Riflessi della guerra in corso si ritrovano in altre parti de Il ragazzo e l’airone, più direttamente incastonati nella narrazione quando appare la figura del padre di Mahito, su cui ritorneremo più avanti. Una volta che l’azione si sposta nel Mondo di sotto, all’interno della torre, la presenza della guerra si fa naturalmente più lontana e astratta. C’è un senso di profonda tragicità che pesa su tutto questo mondo fantastico, almeno nella prima parte del viaggio, dove la morte, attraverso cimiteri, pesci squartati, ombre che arrivano in barca (possibile riferimento a soldati asiatici) e pellicani morenti, sembra permeare il tutto. Quando entrano in scena i pappagalli, però, il tono del lavoro cambia in maniera abbastanza decisa. La società fascistoide di questi uccelli, al cui capo c’è il Duce, pensa solo al cibo, a cercarlo e prepararlo e mangiarlo, e non ha niente a che vedere con l’oscurità funerea dei luoghi fantastici finora descritti. I colori vivaci, le forme tondeggianti e le espressioni stupefatte sui volti dei pappagalli rappresentano una sorta di unicum nell’opus di Miyazaki, che qui dà sfogo alla sua fantasia più infantile per esprimere la stupidità e la superficialità di una società impostata su valori militari e fascisti che non si rende conto di esser tale. Manca loro la consapevolezza, cioè, di esser portatori di azioni solo maligne; tutto il contrario di quanto succede, invece, con il pellicano morente sepolto da Mahito, che è ben conscio del suo tragico destino da cui non può sfuggire.

In un certo senso simile ai pappagalli è il padre di Mahito, ottimista e animato di positività, ma che si arricchisce con la guerra, producendo parti di aerei da caccia, i tettucci trasparenti che molto ricordano gli occhi degli Ohmu in Nausicaä della Valle del vento. Il padre non solo contribuisce direttamente alla macchina bellica giapponese, ma così facendo permette al figlio di vivere una vita relativamente agiata rispetto ai suoi compagni di scuola, che per questo motivo non lo vedono di buon occhio. Proprio dopo un litigio con loro, durante il suo cammino verso casa Mahito si ferisce di proposito con un sasso e si apre una profonda ferita sulla tempia destra. Uno dei punti cardine del lavoro, la ferita funziona all’interno del lungometraggio come una sorta di solve alchemico, e da quel punto in avanti la realtà diviene infatti più fluida e plastica, l’airone in primis. Ma la ferita rappresenta anche un atto lesionista con cui Mahito si “segna” portando su di sé la “malvagità” e l’imperfezione del mondo, forse la complicità sua e di suo padre verso la guerra. Nel finale a cospetto del suo prozio, la ferita e la scelta di Mahito di un mondo imperfetto (dove, come dice il suo antenato, gli uomini si uccidono l’un l’altro) rispetto a quello perfetto e senza malvagità dentro la torre, non solo richiama fortemente il finale del fumetto Nausicaä della Valle del vento, ma ripropone la tensione iniziale in cui convivono l’orrore e il dolore causato dalla guerra. La differenza è che Mahito è ora cresciuto e ha scelto la vita, con tutti i suoi orrori, comprese le guerre.

Matteo Boscarol


Elaborazione grafica con immagini dei protagonisti delle opere "Il ragazzo e l'airone" di Hayao Miyazaki, "Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time" di Hideaki Anno, "Perfect Days" di Wim Wenders e "Troppo facile amarti in vacanza" di Giacomo Bevilacqua.

Il ragazzo e il mondo

Il nuovo film di Miyazaki si presta a una quantità infinita di analisi e interpretazioni, un’opera che può essere letta in modo diverso in base a chi la guarda perché parla in modo diverso a tutte le persone.

Piuttosto che aggiungere un’ennesima interpretazione del film in sé, però, vorrei provare a parlare di ciò che questo film ci dice sulla società in cui stiamo vivendo. È curioso come in questo periodo storico, negli ultimi due-tre anni siano uscite opere distinte e distanti per genere, autore, Paese di produzione e medium, tutte però volte a comunicare lo stesso messaggio: Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki, Evangelion: 3.0+1.0 di Hideaki Anno, Perfect Days di Wim Wenders e Troppo facile amarti in vacanza di Giacomo Bevilacqua, tutte storie che in modo estremamente diverso fra loro raccontano di un mondo imperfetto, un mondo ricco di bruttezza, ma in cui si può e si deve ricercare la bellezza. Mahito, Shinji, Hirayama e Linda sono tutti a modo loro stati sconfitti dalla vita: Shinji viene sopraffatto dalla tristezza e dal senso di abbandono, Hirayama maschera con un sorriso l’impossibilità di avere un vero cambiamento, Mahito e Linda si arrabbiano e scappano da ciò che amavano, eppure tutti loro riescono a trovare della bellezza in tutta la bruttezza che li circonda, nei piccoli gesti, nelle persone, nelle abitudini, nella speranza di avere il potere e la volontà di cambiare le cose.

Nel mondo di oggi siamo costantemente sopraffatti da notizie, Internet ci bombarda di informazioni e sono spesso negative, ci ricorda costantemente che siamo circondati da bruttezza, da orrore, e proprio per questo l’arte, da sempre specchio della società, combatte tutto ciò ricordandoci che la bellezza esiste, va solo cercata e trovata.

In una società frenetica che corre costantemente, nascono storie che ci ricordano di fermarci a notare tutto ciò che è bello: sta a noi non lasciarci sopraffare, sta a noi decidere come guardare il mondo, accettare tanto il bello quanto il brutto, non scappare e non chiuderci in noi stessi. Nonostante Internet, la televisione, i social network ci ricordino tutti i giorni che siamo circondati da eventi spiacevoli, alla fine sono proprio questi a far risaltare ancora di più il bello che può e deve essere cercato, perché sta a noi decidere: e noi come vivremo?

Giulia Pasqualini


Fotogramma dal film "Il ragazzo e l'airone" di Hayao Miyazaki.

Su questa pietra: la presenza delle rocce ne Il ragazzo e l’airone

Il Sakuteiki, un antico trattato giapponese sulla progettazione di giardini scritto in linguaggio ermetico forse dal nobiluomo Tachibana no Toshitsuna forse nell’XI secolo, inizia con la frase:

Nell’erigere delle rocce, per prima cosa è necessario essere consapevoli di alcuni punti fondamentali.

Nelle traduzioni del testo sia in lingua giapponese contemporanea sia in altre lingue, l’espressione «nell’erigere delle rocce» viene solitamente resa con «nel costruire un giardino» poiché, come si evince dal contesto leggendo il resto del libro, per l’autore del Sakuteiki le pietre non “fanno parte” del giardino: le pietre sono il giardino.

L’attribuzione di un valore para-sacrale alle rocce è antica quanto la civiltà nipponica e deriva dalla nozione shintoista per cui sassi, pietre e rocce sono delle yorishiro, cioè residenze dei kami (spiriti): circostanza confermata dalla pratica, tutt’ora comune, di cingere le iwakura (rocce in qualche modo misteriose per dimensione, colore, forma, posizione in equilibrio, eccetera) con una corda di paglia di riso decorata con gli shide (le strisce di carta piegate a forma di fulmine), definendo in questo modo un kekkai (area sacra) e dunque rendendole di fatto dei santuari shintoisti a tutti gli effetti anche se non ci sono torii o edifici. Per questo motivo, nei giardini giapponesi le rocce non vengono mai scolpite o modificate in alcun modo perché sarebbe come mutilare la casa degli spiriti: è tabù; possono invece essere composte fra di loro per ottenere vari elementi ricorrenti: sanzon-seki (terzetti di pietre), suhama (spiagge di ciottoli), meoto iwa (“rocce marito & moglie”, per esempio una alta e una bassa), rocce tsuru & kame (che ricordano gru e tartarughe), funaishi (che ricordano navi), e poi cascate, sentieri, ponti vari e altro ancora. Una volta stabilita la prima roccia come punto generatore dello spazio, tutto il resto è secondario e viene di conseguenza o, per dirla col Sakuteiki, «seguendo le richieste della pietra». In breve, le rocce sono oggetti misterici, sovrannaturali, magici.

In maniera forse involontaria o forse decisamente no, Hayao Miyazaki inserisce nel suo film Il ragazzo e l’airone una quantità enorme di pietre in ruoli significativi, talvolta centrali per la narrazione. Numerosissime pietre punteggiano e scandiscono la narrazione.

C’è una pietra a terra nell’ingresso della casa di Mahito in città, quando scoppia l’incendio nell’ospedale lui si precipita fuori, ma sulla pietra (limite dentro/fuori) fa dietrofront e torna dentro a vestirsi. Un maestoso scalone di pietra affiancato da massi giganti conduce all’ingresso principale della villa materna. Un arco di pietra impedisce a Mahito di entrare nella torre (e più tardi, un altro arco di pietra gli consentirà di entrare). Mahito sale su una grossa roccia sul limitare del laghetto quando viene chiamato in sogno dall’airone con rane e carpe. Mahito usa una pietra cote per affilare il coltellino e costruire l’arco. Un sentiero lastricato conduce alla torre. Sotto la cupola, un mosaico a tesserine lapidee (che rappresenta un Sole identico a quello del mantello da sposa ne La grande avventura del piccolo principe Valiant) è l’ingresso al Mondo di sotto. L’uomo-airone distrae i parrocchetti su un muretto a secco e poi inciampa sull’ultima roccia. Himi abita in una casetta di pietra a fianco a un giardino con lapidi a bassorilievo. Il prozio mantiene l’ordine del mondo con 13 blocchetti marmorei. Il parrocchetto cuoco affila il coltello su una cote rotante. Il Duce costruisce coi blocchetti una torre sgangherata. Il Mondo di sotto crolla come un muraglione in opus quadratum. Il blocchetto rimasto in tasca a Mahito gli consente di mantenere i ricordi. Pietre, pietre, pietre.

Oltre a tutte quelle succitate (e potremmo averne dimenticate alcune), ci sono almeno altre quattro pietre assolutamente cruciali per la narrazione.

La prima è la pietra con cui si ferisce Mahito. In una scena dolorosa al solo vederla o al solo ricordarla, il bambino afferra una pietra e se la scaglia sulla tempia, mozzandosi la vena temporale da cui fluisce abbondante il sangue che cade a terra, come quello di Nahoko in Si alza il vento. Perché lo fa? Nessuno può dirlo, ma possiamo raccogliere i suggerimenti che ci dà il film stesso: Mahito non è integrato con gli altri bambini (lui cittadino loro campagnoli, lui ricco loro poveri, lui riposa loro lavorano, eccetera) dunque è fisicamente solo; Mahito non ha una madre, il padre è assente, la nuova madre non riconosciuta, dunque è emotivamente solo; Mahito ha perso la madre nel fuoco e probabilmente non accetta che il padre partecipi alla guerra con macchine che producono fuoco, dunque è ideologicamente solo; ancora, Mahito non è proprio un “bambino”, ma un pre-adolescente, come ci ricorda il titolo Shishunki (“Pubertà”) del toccante brano di Joe Hisaishi usato come sottofondo per questa scena, dunque è nella fase di crescita che per antonomasia ognuno vive diversamente e affronta da solo. In questa condizione di estrema solitudine provata da Mahito, nella sua percezione sekai kei dove il suo cuore è il mondo e il resto non esiste, non sembra impossibile che si sia dato all’autolesionismo, ovvero un comportamento che può essere volto a provare dolore fisico, tollerabile, allo scopo esatto di distogliersi da quello mentale, intollerabile.

La ferita è inoltre l’origine della bugia e dunque dell’ingresso per via dantesca di Mahito nel suo purgatorio personale, dove s’imbatte nella seconda roccia cruciale del film. Su una penisola (roccia che emerge dal mare), alcuni megaliti accatastati formano una misteriosa “tomba” introdotta dal cancello d’oro con su scritto «Chi mi conosce morirà». Oltre alla straordinaria bellezza visiva e ai possibili significati metaforici di questo spazio così affasciante e inquietante a un tempo, è interessante notare che questo tipo di grandi formazioni rocciose sono solitamente venerate come kami all’interno dei santuari shintoisti, ovvero come sorgenti di vita: i megaliti non sono dunque solo un luogo di ultimo riposo, ma anche di nuova nascita? Sono “tomba” e “culla” insieme, come lascerebbero intuire l’erba fresca e la foga d’entrare dei pellicani che infatti si cibano dei wara-wara?

Più avanti nel film, poi, scopriamo che avevamo sempre avuto davanti agli occhi un’altra pietra, ma non lo sapevamo: è la torre stessa, un gigantesco meteorite caduto decenni prima sulla Terra e “travestito” da edificio rispettabile. I film di Miyazaki, si sa, sono pieni di personaggi e oggetti volanti, a partire da streghe e aerei fino a soggetti fantascientifici, alieni o sovrannaturali come il castello volante di Laputa, il drago Haku o la stella cadente Calcifer: in questo caso invece c’è un oggetto volante acheropita che viene antropizzato, un esito estremo del tipico processo di definizione dello spazio che Miyazaki opera sempre nei suoi film, in cui il palcoscenico della storia è sempre ideato prima ancora della trama, è sempre mostrato attentamente da vari punti di vista, ed è sempre trattato e approfondito al livello di un personaggio al punto da essere soggetto persino a dei propri colpi di scena (come nel finale de Il castello di Cagliostro, o de Il castello nel cielo, o de Il castello errante di Howl).

Infine, c’è la fatidica pietra volante del prozio. Oggetto puramente fantastico ed escapista o grande e complessa metafora, centro della storia o nient’altro che un banale MacGuffin, questa ente enigmatico e onirico a metà fra il monolite kubrickiano e le rocce vive di Pocahontas non può non perplimere e spiazzare lo spettatore la prima volta che compare, essendo del tutto inaspettato e apparentemente “senza senso”. Eppure, poiché tutto è comunicazione e non esiste la non-comunicazione, anche un oggetto “senza senso” non di meno comunica lo stesso con lo spettatore, non foss’altro per la sua bellezza estetica, e sarebbe già abbastanza. Inoltre, a ben guardare, la pietra non ha senso solo fino a quando non siamo noi stessi spettatori (non Miyazaki, ma noi spettatori) a dargli un senso: è un processo gestaltico a cui sono soggette tutte le cose che esistono, solo che alcune godono di un abbinamento cosa-senso immediata perché ne abbiamo già lunga esperienza (vedo un fiore → penso “è un fiore”), mentre altre no perché ci appaiono nuove e incomprensibili (vedo un dipinto astratto → lo fisso perplesso e lo derubrico come “senza senso”). Di nuovo, se mai servisse, osservando gli indizi dati dal film possiamo tentare una Traumdeutung: se la pietra volante è la fonte del potere (della vita) del prozio e dunque rappresenta tutto quello che è importante per lui e che lui vuole proteggere e mantenere nel suo mondo, qualsiasi cosa essa sia, allora ecco che la pietra – fuor di metafora – può rappresentare letteralmente sé stessa, ovvero molto banalmente un peso, un peso che vale la pena portare sulle spalle. Per cosa vale la pena vivere? I propri figli, un lavoro importante, un voto con qualcuno, un desiderio che ci portiamo avanti da bambini, una qualche ricerca: non importa, tutti noi abbiamo un peso sulle spalle che al contempo ci affatica ma ci sprona ad andare avanti, a continuare a vivere. Una pietra di cui «seguiamo le richieste», per parafrasare il Sakuteiki.

Il processo di identificazione di senso nelle pietre de Il ragazzo e l’airone non è in nessuna maniera necessario: la sconvolgente bellezza visiva, l’inventiva narrativa e la naturalezza nella messinscena sono ragioni sufficienti per apprezzare il film. Eppure, esattamente come nei giardini giapponesi, le rocce “parlano” allo spettatore: anche se sono mute, hanno dentro di loro un intero universo, sono su questa Terra da miliardi di anni, hanno già visto imperi nascere e crollare. Le rocce ospitano i kami perché sono immortali, eterne, fuori dal tempo: forse proprio per questo sono così abbondanti in un film che, per ricercato contrasto, racconta la mortalità, finitezza, ciclicità della vita umana.

Mario Pasqualini


Fotogramma dal film "Il ragazzo e l'airone" di Hayao Miyazaki.

Per ogni fine c’è un nuovo inizio: il lutto e la sua elaborazione secondo Hayao Miyazaki

Un bambino edochiano, dopo aver perso la madre, mal sopporta il trasferimento in campagna, la nuova moglie del padre che incidentalmente è anche sua zia materna in dolce attesa, e l’arrivo di un futuro fratellastro. Grazie alla lettura di un libro lasciatogli come ultimo dono dalla madre e al confronto con persone e situazioni nuove, il bambino matura e accetta di continuare a vivere nonostante la complessità della realtà che lo circonda. Se vogliamo, questo è Il ragazzo e l’airone ridotto all’osso, spogliato di tutta la bellezza, la poesia, la fantasia e l’amore che Hayao Miyazaki infonde in ogni sua produzione.

Due elementi sono – o dovrebbero essere – imprescindibili in qualsiasi riflessione su quest’opera: la morte e il libro E voi come vivrete? di Genzaburō Yoshino, da cui è tratto il titolo originale del film. Mahito legge il libro in questione, si commuove perché ne comprende il messaggio, ovvero che in questo mondo tutto è connesso, muove il primo passo nel proprio percorso di crescita verso l’età adulta smettendo di essere un bambino, e il film e la storia cambiano marcia. Mahito comprende inoltre che senza Morte non può esserci Rinascita, come scrisse il poeta di Ube, ovvero l’erede spirituale di Miyazaki che in questa occasione sembra quasi aver influenzato il proprio Maestro: “c’è dello Studio Ghibli in questo film di Evangelion“, direbbero i più giovani.

La Morte e un altro libro erano stati fondamentali anche nella penultima opera cinematografica di Miyazaki, controparte “realistica” de Il ragazzo e l’airone: è interessante notare il fatto che il film in questione, Si alza il vento, trae il proprio titolo ma non la trama da un romanzo di Tatsuo Hori, titolo che a sua volta era ispirato al verso «Le vent se lève !… Il faut tenter de vivre !» dal poemetto Le Cimetière marin di Paul Valéry; allo stesso modo, Il ragazzo e l’airone trae il proprio titolo (giapponese) ma non la trama dal romanzo di Yoshino. Lo strettissimo legame fra questi due film è rafforzato ancora di più dal possibile richiamo dell’espressione “e voi come vivrete?” a quel “bisogna tentare di vivere” nella seconda metà del verso di Valéry, come nota Élie Raufaste sul numero di novembre 2023 di Cahiers du cinéma.

«Vivi!» è la tagline di Principessa Mononoke, forse il film di Miyazaki più violento e intriso di morte.
«Vivi!» è l’ultima frase che la defunta moglie di Jirō Horikoshi, protagonista di Si alza il vento, rivolge al marito.

“E Hayao Miyazaki come vivrà?”, dopo la fine della lavorazione di questo film? Quale lutto ha elaborato con quest’opera? Quello per l’amata madre, per il maestro e collega e amico Isao Takahata, per la propria carriera, per il mondo dell’animazione, per lo Studio Ghibli, per sé stesso? Tutti? Nessuno di questi? Un altro ancora? Forse non c’è alcun lutto da elaborare? Molto probabilmente non lo sapremo mai, ma come il maestro anche noi vivremo le nostre vite tentando di vivere.

Filippo Petrucci

P.S.: il titolo scelto per questa breve riflessione è parte di un passaggio tratto da un terzo libro molto amato da Miyazaki e scritto da un autore verso cui il regista è profondamente debitore.

È una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto, abbandonare tutti i sogni perché uno di loro non si è realizzato, rinunciare a tutti i tentativi perché uno è fallito. È una follia condannare tutte le amicizie perché una ti ha tradito, non credere in nessun amore solo perché uno di loro è stato infedele, buttate via tutte le possibilità di essere felici solo perché qualcosa non è andato per il verso giusto. Ci sarà sempre un’altra opportunità, un’altra amicizia, un altro amore, una nuova forza. Per ogni fine c’è un nuovo inizio.

Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe

Mario Pasqualini

Sono nato 500 anni dopo Raffaello, ma non sono morto 500 anni dopo di lui solo perché sto aspettando che torni la cometa di Halley.

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