Gualtiero Cannarsi, nel di lui caso – Canzoni
Si conclude la serie di DF dedicata agli adattamenti italiani dei film Studio Ghibli: in questo quinto articolo si parla delle canzoni nei film di Miyazaki & soci e della discutibile qualità della loro resa in lingua italiana.
Attenzione: l’articolo si occupa del lavoro di adattamento svolto da Gualtiero Cannarsi per la società di produzione e distribuzione cinematografica Lucky Red. Le opinioni riportate in questo articolo sono personali dell’autore e non coincidono necessariamente con quelle di Dimensione Fumetto.
Si specifica inoltre che le critiche sono intese solo con finalità costruttive e riferite solo all’attività professionale di adattamento: in nessun caso si vuole attaccare a livello personale Gualtiero Cannarsi, che l’autore dell’articolo non conosce personalmente.
Coloro che sono interessati a commentare l’articolo sono gentilmente invitati a farlo qui sulla pagina di Dimensione Fumetto e non su social o forum esterni, così da poter istituire un dialogo costruttivo: lo scopo dell’articolo non è e non vuole essere un’aggressione né all’operato né tantomeno alla persona di Cannarsi, ma un tentativo di ragionamento informato sul lavoro svolto.
L’autore è a completa disposizione per discutere eventuali correzioni e rettifiche al testo.
Nota introduttiva sulla lingua giapponese
Il presente articolo contiene parole giapponesi che sono state traslitterate sempre nel seguente ordine: scrittura originale, pronuncia in corsivo (secondo il sistema Hepburn modificato), e significato in italiano fra virgolette. Ad esempio:
子 ko “bambino”
Gli ideogrammi giapponesi presentano svariate pronunce in base al contesto: ad esempio, l’ideogramma 子 si può leggere ko, shi, su, tsu, kō, ne o in altri modi ancora in base al contesto. Per semplicità e scorrevolezza di lettura, e senza alcuna pretesa di completezza grammaticale, in questo articolo si è preferito di volta in volta usare solo le pronunce pertinenti al contesto.
Lo stesso metodo è stato applicato anche ai significati. Gli ideogrammi giapponesi possono avere più sfumature di senso o anche significati a volte molto variabili in base al contesto: per esempio, l’ideogramma 子 può significare “bambino”, “figlio”, “piccolo”, “pallina”, “particella atomica”, “Topo dello zodiaco cinese”, “nord”, “novembre”, “dalle ore 23 alle ore 1 di notte” o altro ancora in base al contesto. Per semplicità e scorrevolezza di lettura, e senza alcuna pretesa di completezza lessicale, in questo articolo si è preferito di volta in volta usare solo i significati pertinenti al contesto.
Nota introduttiva sull’autore
L’autore dell’articolo è di madrelingua italiana e non laureato in lingua giapponese. Nonostante ciò, la possibilità di vivere in Giappone da diversi anni ha contribuito alla redazione di questo articolo. Le informazioni presenti sono state tutte sottoposte all’opinione di almeno cinque madrelingua contattati separatamente, fra cui il professor Takuya Sakamoto (insegnante di lingua giapponese presso la scuola superiore privata Istituto Meisei di Okayama) e il dottor Kōji Taniguchi, ricercatore e storiografo del periodo Edo presso il Centro per lo scambio internazionale di Okayama. L’autore desidera ringraziare personalmente le persone coinvolte nella scrittura di questo articolo.
Tutte le citazioni sia scritte sia parlate sono state rigorosamente riportate senza alterazioni.
[ Introduzione • Metodo • Titoli • Dialoghi • Canzoni | Reazioni ]
La stragrande maggioranza dei film dello Studio Ghibli ha per protagonisti dei personaggi giovani, giovanissimi, a volte persino bambini, e si rivolge conseguentemente (anche) a un target d’età giovane, giovanissimo, a volte persino di bambini: la conseguenza più immediata di questa scelta di target è la presenza di canzoni. Su 21 + 2 film usciti finora (i 21 canonici più Lupin III – Il castello di Cagliostro e Nausicaä della Valle del vento), quasi tutti presentano nella colonna sonora almeno una canzone (quantomeno per i titoli di testa o di coda), almeno otto hanno delle cosiddette tie-in (canzoni presenti all’interno del film), in almeno cinque i personaggi stessi cantano, e in uno in particolare, I sospiri del mio cuore, la canzone scritta dalla protagonista è il fulcro stesso della trama.
Musica nazionale e nazionalista e internazionale
La presenza delle canzoni nei film Studio Ghibli è certamente dovuta a una doppia eredità culturale di origine sia giapponese sia statunitense.
Il Giappone è infatti un Paese che fa larghissimo uso di canzoni e musiche diffuse a ogni livello sociale e a ogni età a scopo educativo, lavorativo e difensivo, così tante che i giapponesi stessi ci ironizzano su. Si parte dalle scuole dell’infanzia dove i bambini cantano ogni singolo giorno, per poi passare agli inni delle scuole, senza dimenticare la ginnastica mattutina alla radio e in televisione, le musiche di sottofondo personalizzate in qualunque negozio 24/7, le musichine dei semafori per i non vedenti, le allerte per il meteo o i terremoti, e soprattutto il jingle delle 17:00 che annuncia agli impiegati la fine del turno di lavoro: ce ne sono a decine e spaziano dalla musica pop alla sinfonica fino alle musiche inizio Novecento molto nostalgiche e molto Studio Ghibli. Benché la presenza costante di musica nell’aria possa apparire come una cosa festosa e romantica, è in realtà l’ennesima prova del passato militarista dittatoriale del Giappone, in cui l’intera popolazione era gestita come un’enorme truppa che doveva svegliarsi, mangiare, lavorare e dormire a orari prestabiliti.
L’altra eredità è ovviamente quella dei musical animati Disney: non è un mistero che i manga in senso moderno siano nati proprio grazie alla fascinazione di Osamu Tezuka per Bambi, e persino gli anime siano in qualche modo derivativi dalla Disney. Non c’è da sorprendersi quindi per la presenza particolarmente forte e pervasiva della Disney in Giappone, persino nei film di Miyazaki, il quale ha un atteggiamento filosofico e tecnico complementare (non opposto: complementare) a quello di Disney: basti pensare allo stupendo zoom in profondità quando Ashitaka vede per la prima volta lo shishigami nel bosco in Principessa Mononoke, palesemente debitore della tecnica della multiplane camera disneyana.
Nonostante lo Studio Ghibli non abbia realizzato alcun musical vero e proprio, l’abbinamento film per bambini = musica trova la sua origine anche dall’esperienza statunitense, che però i giapponesi hanno modificato secondo il loro stile.
Avendo lavorato a ogni dettaglio delle localizzazioni italiane dei film Studio Ghibli per Lucky Red, Gualtiero Cannarsi si è occupato anche delle loro musiche, lasciando anche qui la sua chiara impronta.
Anticipiamo che, al contrario di quanto fatto in precedenza, dato il tema di questo articolo stavolta non sarà possibile evitare di parlare anche della qualità della lingua italiana utilizzata da Cannarsi. I dialoghi, benché soggetti al tempo diegetico, al labiale dell’attore/personaggio e alla lunghezza temporale necessaria a pronunciare le parole, sono comunque parti in prosa in cui l’adattatore può ancora intervenire (e sappiamo che Cannarsi lo fa, poiché capita spesso che le sue battute sforino il tempo del labiale dei personaggi), ma le canzoni prevedono un limite invalicabile che è quello della musica: non è pensabile uscire fuori dal ritmo, dalla scansione sillabica e dalle direttive melodiche impartite dalla versione originale, a meno che non si voglia esplicitamente tradirla per realizzare qualcosa di diverso.
Due musical
Prima di passare all’analisi dell’adattamento italiano delle canzoni dei film dello Studio Ghibli, come abbiamo fatto per i dialoghi anche in questo caso prendiamo dei riferimenti per valutare come si opera di solito in questo ambito. Se mai ce ne fosse bisogno, ripetiamo ancora una volta che si tratta di confronti puramente metodologici, senza la minima volontà di esprimere giudizi di sorta né paragoni.
Aladdin
Il primo brano è tratto da quello che è ampiamente considerato come uno dei migliori risultati nella storia degli adattamenti italiani: Aladdin di Ron Clements e John Musker. In una puntata del programma radiofonico di Pino Insegno Voice Anatomy, l’ospite Massimiliano Alto raccontò come si svolse la lavorazione del film nel 1992, spiegando quanta incredibile cura e tempo vennero spesi per ottenere il risultato perfetto, nonché l’incredibile circostanza che permise di mettere insieme un cast di doppiatori eccezionali che hanno lasciato performance straordinarie, fra cui quella di Massimo Corvo, doppiatore che Cannarsi stesso apprezza molto.
La versione italiana delle canzoni venne curata da Ermavilo, al secolo Ernesto Brancucci, che si è occupato di moltissimi film Disney per tutti gli anni ’90 e 2000. Per illustrare il metodo lavorativo usato da Brancucci, confrontiamo le versioni in lingua inglese, in lingua italiana e in lingua giapponese della celebre canzone A Whole New World (traduzioni dall’inglese e dal giapponese a cura dell’autore).
Ecco l’originale inglese, “Un mondo tutto nuovo”:
Posso mostrarti il mondo / brillante, luccicante, splendido. / Dimmi, principessa, quand’è stata l’ultima volta che hai lasciato scegliere il tuo cuore? / Posso aprire i tuoi occhi / portarti da una meraviglia all’altra / sopra, a fianco e sotto / in un viaggio sul tappeto magico.
Un mondo tutto nuovo / un nuovo fantastico punto di vista / nessuno che ci dica “no” / o dove andare / o dica che stiamo solo sognando.
Un mondo tutto nuovo / un posto affascinante che non ho mai conosciuto / ma quando sono quassù in alto / è chiaro come il cristallo / che adesso sono in un mondo del tutto nuovo con te (adesso sono in un mondo del tutto nuovo con te).
Incredibili viste / indescrivibili sentimenti / planando e facendo le acrobazie senza preoccupazioni / attraverso un infinito cielo di diamante.
Un mondo tutto nuovo (Non osare chiudere gli occhi) / centomila cose da vedere (trattieni il respiro, adesso viene il bello) / sono come una stella cadente / sono arrivata così lontano / non posso tornare indietro da dove sono venuta.
Un mondo tutto nuovo (A ogni curva una sorpresa) / con nuovi orizzonti da rincorrere (Ogni momento è memorabile) / li inseguirò ovunque / ho tempo da buttare / lasciami condividere questo mondo tutto nuovo con te.
Un mondo tutto nuovo (Un mondo tutto nuovo) / è dove saremo (è dove saremo) / un inseguimento eccitante (un posto splendido) / per te e me.
Questo è invece il testo italiano di Il mondo è tuo:
Ora vieni con me / verso un mondo d’incanto. / Principessa, è tanto che il tuo cuore aspetta un sì. / Quello che scoprirai / è davvero importante / il tappeto volante ci accompagna proprio lì.
Il mondo è tuo / con quelle stelle puoi giocar / nessuno ti dirà / che non si fa / è un mondo tuo per sempre.
Il mondo è mio / è sorprendente accanto a te / se salgo fin lassù, poi guardo in giù / che dolce sensazione nasce in me (c’è una sensazione dolce in te).
Ogni cosa che ho / anche quella più bella / no, non vale la stella / che fra poco toccherò. / Il mondo è mio (Apri gli occhi e vedrai) / fra mille diamanti volerò (la tua notte più bella) / con un po’ di follia e di magia fra stelle e comete volerò.
Il mondo è tuo (Un corpo celeste sarò) / la nostra favola sarà (ma se questo è un bel sogno) / non tornerò mai più, mai più laggiù / è un mondo che appartiene a noi.
Soltanto a noi (per me e per te) / ci aiuterà (non svanirà) / solo per noi (solo per noi) / per te e per me.
Infine, il testo giapponese di A Whole New World (in giapponese la canzone mantiene esplicitamente come titolo quello inglese):
Ti mostrerò / un mondo splendente. / Principessa, ecco il fiore della libertà. / Apri gli occhi a questo vasto mondo / e lasciati andare / su questo tappeto magico.
Un grande cielo / le nuvole sono bellissime / nessuno che / ci contenga / o ci leghi stretti.
Un grande cielo / gli occhi sono abbagliati, però / il cuore batte / perché tu mi mostri per la prima volta (questo stupendo mondo).
È troppo bello / non ci posso credere / le stelle splendenti / sono come diamanti, no?
A whole new world (apri gli occhi) / un mondo nuovo (non aver paura) / le stelle comete sono piene di sogni meravigliosi.
Un meraviglioso (mare di stelle) / un mondo nuovo (continua così) / solo noi due insieme / troveremo il domani.
In questo modo (in due) / un meraviglioso (mondo) / troverò (con te) / per sempre.
Dal confronto fra le tre versioni emerge con chiarezza quanto lo scopo della Disney era quello di mantenere in tutto il mondo alcuni concetti fissi basilari che si ripetono invariati: il libero arbitrio, il tappeto magico, volare, il mondo nuovo, le stelle, la luce, il diamante, essere insieme.
Tutte e tre le versioni inoltre presentano almeno una immagine fortemente poetica ed evocativa: in inglese il «cielo di diamante» (metafora per “cielo stellato”), in italiano realizzare che gli oggetti materiali sono insignificanti di fronte alla vera felicità («Ogni cosa che ho […] non vale la stella»), e in giapponese il «fiore della libertà» (approfittando della scena in cui Aladdin coglie fisicamente un fiore per Jasmine).
Infine, la grammatica, la scorrevolezza della lingua e il rispetto della sillabazione originale vengono mantenuti costanti; in particolare l’edizione italiana riesce a non forzare nemmeno un solo accento, rendendo il testo della canzone perfettamente naturale. È effettivamente un risultato notevolissimo.
Si tratta quindi di tre versioni non solo simili nei contenuti, ma soprattutto accomunate da:
- conservazione delle stesse parole chiave inalienabili che lo spettatore deve recepire per forza
- conservazione dell’atmosfera poetica
- conservazione dei valori tecnici del testo
il che rende tutte le versioni di Aladdin, canzoni e parlato, molto omogenee fra loro.
Frozen – Il regno di ghiaccio
2013: 21 anni dopo Aladdin, Lorena Brancucci, la figlia di Ermavilo, si occupa delle canzoni del film Frozen – Il regno di ghiaccio. Stavolta però l’apprezzamento non solo non è unanime, ma anzi riceve pesanti critiche per le libertà prese nell’adattamento, e in particolare proprio per le canzoni. Osserviamo questo aspetto confrontando anche stavolta i tre testi della stessa canzone, anche stavolta un duetto romantico: ecco la versione inglese di Love Is an Open Door (“L’amore è una porta aperta”):
Tutta la mia vita è stata una serie di porte in faccia / e poi all’improvviso ho sbattuto contro di te.
Ho cercato per tutta la vita il mio posto / e forse è stata la conversazione durante la festa, o la fonduta al cioccolato…
Ma con te (ma con te ho trovato il mio posto) vedo il tuo volto / e non assomiglia a niente di quanto conoscessi finora.
L’amore è una porta aperta! / L’amore è una porta aperta! / L’amore è una porta aperta! / Con te (con te) / con te (con te) / l’amore è una porta aperta.
Voglio dire, è folle (cosa?) / che abbiamo finito i rispettivi (sandwich) / Non ho mai conosciuto nessuno / che pensasse proprio come me. / Flic! Flic di nuovo! / La nostra sincronia mentale / non può avere che una spiegazione: / tu (e io) / siamo (fatti) / per stare insieme.
Dì addio (dì addio) / al dolore del passato, / non dobbiamo più provarlo!
L’amore è una porta aperta! / L’amore è una porta aperta! / La vita può essere molto di più / con te (con te) / con te (con te) / l’amore è una porta aperta.
In italiano il brano diventa La mia occasione:
Ho sperato molte volte in qualcosa per me / come un fulmine sei comparso tu.
Non avevo mai trovato un posto finché / all’improvviso una speranza, o qualcosa di più.
Ma se noi (ma se noi stiamo insieme) mi sento bene / ed è facile adesso che io so…
Che occasione ho! / Che occasione ho! / Che occasione ho! / Con te (con te) / con te (con te) / che occasione ho.
Non trovi strano (cosa?) / sentirsi davvero (simili). / È bello accorgersi (che sono uguale a te). / Flic! Flic di nuovo! / Abbiamo fatto un duetto / che sembra proprio perfetto: / tu (ormai) / lo (sai) / più di me.
Dì addio (dì addio) / alla malinconia, / tutto cambia ora che io so…
Che occasione ho! / Che occasione ho! / E non ti lascerò / mai più (perché) / lo so (che tu) / sei tutto ciò che ho.
Infine, il testo in giapponese intitolato とびら開けて Tobira akete “Apri la porta”:
I giorni che non avevano nessuna uscita / d’improvviso sembrano cambiati.
Nei giorni che non avevano nessun posto per stare / continuando a cercare ho trovato questa persona che…
Li cambia! (Ti ho incontrata e) tutto è / come il primo batticuore!
Dato che siamo in due / apri la porta e / salta fuori! / Adesso (adesso) / già (già) / dato che siamo in due.
Dimmi (eh?) / cosa ti piace? (I sandiwich!) / E che a me no! / Noi / ci assomigliamo, vero? / Ah, l’abbiamo detto insieme! / Il modo di pensare, / il modo di sentire… / infatti, vero, ci assomigliamo, eh?
Dai giorni solitari (Dai giorni solitari) / in cui ero da solo/a, / già ora allontaniamocene.
Dato che siamo in due / apri la porta e / salta fuori! / Adesso (adesso) / già (già) / dato che siamo in due.
In 21 anni il modo di adattare richiesto dalla Disney all’adattatore italiano pare essere cambiato radicalmente: a parte un paio di minime forzature nel cantato per rispettare accento e lunghezza del verso (in particolare in «Come un fulmine sei arrivato tu»), le differenze maggiori stanno nel cambio di atmosfera poetica, nell’abbandono quasi totale della traduzione parola-per-parola in favore di quello senso-per-senso e, di conseguenza, soprattutto nella mancanza delle parole chiave.
I riferimenti al contesto (il cibo e la festa), che erano stati almeno in minima parte mantenuti in tutte le lingue maggiori, compreso il giapponese, sono stati del tutto eliminati dalla versione italiana, rendendo la canzone più universale però anche più sconnessa dal film (lo stesso succederà con Let It Go/All’alba sorgerò), ma soprattutto il problema principale è che non c’è la parola chiave di tutto il film: le porte. Il tema di Frozen non è affatto l’amore familiare, bensì sono le porte.
Per tutto il film non si vedono altro che porte reali e metaforiche: Elsa e Anna separate da porte, Anna e Hans cantano aprendo e chiudendo porte, Elsa chiude anzi sbatte porte fisiche e metaforiche, Anna apre la porta della stalla con Kristoff, Hans chiude le porte della prigione con Elsa e della sala con Anna, le canzoni contengono le parole “porte/portoni”, lo stesso scambio di battute conclusivo del film è sulle porte («Amo le porte aperte!» «Non le chiuderemo mai più»), per non parlare poi di quante ante e finestre varie si vedono. Sostituendo l’idea della “porta” con quella (pur congruente) di “occasione”, Lorena Brancucci ha completamente eradicato dai suoi testi il concetto portante di Frozen senza metterne nemmeno un riferimento minimo, presente in tutte le altre lingue maggiori, compreso il giapponese, e così facendo ha in qualche modo alterato lo spirito originale del film, dando agli spettatori italiani una versione che è del tutto coerente in sé, ma spogliata proprio di quella che era una delle sue caratteristiche principali.
Le canzoni dei film Studio Ghibli
Come si comporta invece Cannarsi con le canzoni dei film Studio Ghibli? Che tipo di metodo o logica segue? Fondamentalmente la stessa che ha dimostrato per i dialoghi: traduzioni più o meno parola-per-parola col metodo A-A’ che poi però declina secondo il suo personalissimo parere. Di nuovo escluderemo volontariamente dall’analisi il film Pom poko, che pure contiene una canzone, per gli stessi motivi esposti nell’articolo precedente.
La tomba delle lucciole
Il primo esempio viene da La tomba delle lucciole, in cui i fratelli Seita e Setsuko tornando a casa sotto la pioggia cantano una canzoncina. Ecco com’era nella sceneggiatura originale giapponese:
雨雨ふれふれ 兄ちゃんが / じゃのめでおむかえ うれしいな / ピゥチピゥチチャゥプチャゥプ ランランラン〜
Ame ame fure fure ani-chan ga / janome de omukae ureshii na / pyuchi pyuchi chapu chapu ran ran ran…
“Pioggia pioggia cadi cadi, mio fratello / viene a prendermi col janome, che felicità / [onomatopee della pioggia]”
Nella prima versione italiana del 1995 il brano era stato tradotto così:
Pioggia pioggia cadi cadi, mio fratello è qua / con l’ombrello lui è venuto e mi riparerà / goccia a goccia cade cade e bagna la città / chi è sotto l’ombrello sempre asciutto resterà.
Quindi Francesco Prandoni, pur stimatissimo da Cannarsi, al tempo non solo modificò il testo per adattarlo alla metrica, ma addirittura inventò una seconda strofa che in originale non c’era. Questa invece è la versione di Cannarsi:
Pioggia pioggia cadi cadi, il fratellone mio / col parapioggia m’è venuto incontro, che gioia. / Plic plic ciac ciac, trallallà…
Per prima cosa c’è da dire che la canzone non è originale del film, bensì è la filastrocca popolare infantile Amefuri che Takahata ha usato nel film modificata, poiché in realtà il soggetto venuto con l’ombrello non era «il fratellone», bensì la mamma, e dopo le onomatopee delle gocce di pioggia la seconda strofa ha parole diverse rispetto a quelle di Prandoni (il bambino aiuta la mamma portandole la borsa della spesa). Ecco come suona la canzoncina originale:
La versione di Cannarsi restituisce fedelmente la seconda parte della canzoncina, usando fra l’altro onomatopee italiane invece di quelle originali, ma nel suo adattamento sceglie delle parole che non solo sono opinabili (come abbiamo visto nel precedente articolo i suffissi onorifici non si traducono necessariamente né modificano i sostantivi, bensì cambiano il tono del testo), ma soprattutto si scontrano con la ritmica della canzone, costringendo i doppiatori a una performance vocale con gli accenti sballati e i versi di lunghezza impari. Ecco qua il risultato:
Il testo originale infatti prevedeva versi da 8/8/5 + 8/5 sillabe, e così pure aveva fatto Prandoni nel 1995, mentre invece Cannarsi preferisce sacrificare la cantabilità del brano sul presunto altare della fedeltà lessicale ottenendo versi da 8/8/7 + 12/3, sballando completamente la metrica. Anche unendo le sillabe che hanno dei dittonghi vocalici in successione si ottiene comunque un conto di 8/8/6 + 11/2, comunque irrispettoso della metrica originale.
Questo testo almeno è effettivamente fedele? Beh, sì o no. Analizziamo il testo originale:
- 雨雨ふれふれ Ame ame fure fure “Pioggia pioggia cadi cadi” (verbo all’imperativo)
- 兄ちゃんが Ani-chan ga “Fratello maggiore-chan + (particella che indica il soggetto)”; poiché -chan indica familiarità fra il parlante e il fratello, si sottintende che è il fratello del parlante, quindi “mio fratello maggiore”
- じゃのめでおむかえ janome de omukae “andare a prendere col janome“
- うれしいな ureshii na “felice, vero?”; se l’aggettivo non ha alcun sostantivo a cui si riferisce diventa un semi-sostantivo e quindi “che felicità, vero?”
蛇の目 janome vuol dire “occhio di serpente” ed è uno specifico pattern tradizionale degli ombrelli di carta giapponesi, quindi per sineddoche “uno janome” indica “un ombrello”. Ora, considerando che Prandoni aveva scelto la parola “ombrello” mentre invece Cannarsi ha scelto “parapioggia” (e nessuno dei due ha tenuto la parola janome, e sì che stando a Cannarsi «rispettare l’originale di un’opera è rispettare l’intelligenza del pubblico» contro la «pigrizia intellettuale»), ci si potrebbe chiedere se gli ombrelli tradizionali giapponesi di carta si dividono per condizioni metereologiche come quelli occidentali (parasole e parapioggia): la risposta è no, perché si dividono per materiale e poi per funzione. Per prima cosa si dividono fra ombrelli di carta trattata (spalmata con sostanze oleose idrorepellenti), carta non trattata e seta; i primi si dividono a loro volta in 野点 nodate (non da passeggio, ombrelloni da fissare a terra per cerimonie del tè all’aperto), 番傘 bangasa (da passeggio, di alta qualità, con bastone centrale di bambù) e 蛇の目傘 janomegasa (da passeggio, per tutti i giorni, decorati a occhio di serpente), mentre i secondi sono gli 日傘 higasa (da paseggio, da sole), e i terzi i 舞傘 maigasa (non da passeggio, per danze o spettacoli teatrali).
Quindi, che cosa ha spinto Cannarsi a mettere in una filastrocca per bambini piccoli la parola “parapioggia”, francesismo oggi poco comune peraltro composto da quattro sillabe e quindi più difficile da usare nella canzone rispetto a “ombrello”, parola di tre sillabe molto comune (33 milioni di risultati contro i 900’000 di “parapioggia”)? La scena di pioggia, la carta oleata, l’ispirazione del giorno, una richiesta di qualcuno? Che cosa l’ha spinto a non conservare la prima parte della precedente traduzione di Prandoni, fedelissima e perfettamente musicale? Perché non ha lasciato janome, che era l’effettiva parola pronunciata nel film? Non lo sappiamo, ed ecco il punto: non è importante, conta solo che è una opinione/decisione/scelta sua o altrui e quindi totalmente soggettiva, poiché non era l’unica scelta possibile, e in questo caso neanche la migliore.
Una possibile spiegazione all’uso della parola «parapioggia» viene dalle due battute immediatamente precedenti alla canzone, che concludono un dialogo in un negozio:
Seita: Non ce l’avrebbe un ombrellino?
Commerciante: Se ho un ombrello, eh? Ah, ma certo!
Come mai Seita parla di «ombrellino»? Si tratta di una applicazione da manuale del metodo del tabellone, perché in originale lo scambio di battute è:
Seita: 番傘ないですか? Bangasa nai desuka? “Non c’è un bangasa?”
Commerciante: 傘はないなぁ… あっ!そや! Kasa wa nai naa… Ah! Soya! “Kasa non ce ne sono… Ah! Quello!”
Ecco svelato il mistero: nel giro di 10 secondi di film si usano i tre termini distinti bangasa, kasa e janome per parlare di ombrelli, e poiché «ogni variazione deve essere rispettata» allora Cannarsi deve aver deciso di assegnare alle tre parole tre sinonimi di “ombrello”, una parola che in giapponese può essere chiamata in molti modi mentre invece in italiano non ha praticamente sinonimi. La decisione è comprensibile, ma il risultato no, perché il bangasa non è affatto un «ombrellino», anzi è un ombrello grande e di qualità, solitamente più grande del janome che invece è un tipo più quotidiano e un po’ più piccolo di un bangasa. In pratica, non sarebbe stato inaccettabile usare per bangasa, kasa e janome rispettivamente qualcosa del tipo “bell’ombrello”, “ombrello” e “ombrellino”, che almeno danno una (vaghissima) idea del concetto originale.
Per concludere l’argomento, segnaliamo anche l’altra parola culturalmente rilevante nel dialogo nel negozio: come dice in originale il commerciante, Seita non sta comprando semplicemente un «fornello», bensì uno 七輪 shichirin, ovvero uno specifico tipo tradizionale di griglia a carbonella, salita agli onori delle cronache mondiali grazie a un infelice tatuaggio della cantante statunitense Ariana Grande. Naturalmente è perfettamente comprensibile la scelta di Cannarsi (o di chi per lui) di adattare queste parole giapponesi, che hanno un retroterra culturale troppo vasto per poter essere spiegate sul momento in un film, con delle rispettive parole italiane comprensibili al pubblico di destinazione, certo, ma non era forse proprio questo il metodo di Alessandra Valeri Manera?
I sospiri del mio cuore
Il testo che la protagonista del film Shizuku scrive per la canzone Country Road, originariamente scritta in inglese da John Denver e resa celebra da Olivia Newton-John, è una delle chiavi della storia e del nascente amore fra i protagonisti di questo romanticissimo film del compianto Yoshifumi Kondō. Nonostante la sceneggiatura sia di Hayao Miyazaki, il testo della canzone è stato scritto dalla figlia del produttore Toshio Suzuki, all’epoca diciannovenne e vicina d’età alla protagonista di 14 anni.
Il testo giapponese in effetti riflette una grande semplicità di scrittura unita a vaghi sogni sul futuro e incertezze tipici dell’adolescenza:
Ho fatto un sogno in cui vivevo / da sola, ma senza paura. / Proteggo la me stessa forte / che ha messo da parte la solitudine.
Country road, / se continuo ad andare / per questa strada / mi porta / a quella città. / Credo sia così, / country road.
Per quanto i tempi possano essere scoraggianti / non mostrare mai lacrime. / In qualche modo / il passo si affretta / per cancellare / i ricordi.
Country road, / anche se questa strada / continuasse fino alla mia città natale / io / non ci vado, / non ci posso andare, / country road.
Country road, / domani / il mio solito io / vuole tornare / non può tornare: / addio / country road.
Il testo è chiarissimo: Shizuku vuole intraprendere un percorso di vita (concetto espresso anche dal co-protagonista Seiji), ma questo percorso è una “strada di campagna” e quindi incerta e tutta curve. L’unica cosa che sa è che non vuole tornare (metaforicamente) a casa, bensì prendere una strada diversa, ovvero vuole costruire qualcosa di suo. Perfettamente in linea con la trama del film.
Anche lo stile di scrittura è di una semplicità rara: praticamente è un testo in prosa, più che in versi. Anzi, affiancando davvero l’un l’altro i versi della canzone si ottiene letteralmente un testo in prosa percepito dai madrelingua come perfettamente scorrevole.
Come è stato adattato questo testo di rara semplicità da Cannarsi? Così:
Ho fatto un sogno / in cui vivevo / tutta sola, ma / senza timore. / Trattenendo la solitudine / la me stessa forte / senza tradire andrò.
Country road, / la strada qui / se poi la / seguirai / a quella città / condurrà infine / sento così / country road.
Anche quando ti senti più sola / assolutamente lacrime non mostrar, / e a quel che pare il passo tuo / più spedito marciare andrà / per i ricordi cancellar.
Country road, / la strada qui / in terra natia / conduca o no / io si sa / non c’andrò mica / non va così / country road.
Country road / domani vedrà / il mio io, lo stesso già / vuoi tornare / tornar non potrai / addio sarà / country road.
Siamo ai limiti della comprensibilità, o forse oltre i limiti se non ci si sofferma attentamente spendendo tempo per capire i versi, quegli stessi versi che in originale erano platealmente semplici (non semplicistici: semplici).
Cosa significa «Country road domani vedrà il mio io lo stesso già»? Se si mette la virgola dopo «il mio io», allora significa “Country road (soggetto) domani vedrà il mio io, lo stesso [che ha] già [visto]”, oppure si può leggere come «[il] domani (soggetto) vedrà il mio io, lo stesso [che ha] già [visto]”, o forse in altre maniere ancora. Molto ambiguo, e se anche in una poesia/canzone l’ambiguità è spesso un pregio, in questo caso non era l’effetto ricercato nel testo originale.
Quanto alla lunghezza dei versi, sia gli originali sia gli italiani sono tutti scritti in metro libero e compresi fra le tre e le dieci sillabe: nella maggior parte dei casi le sillabe combaciano, anche se per differenze di pronuncia e accento i versi italiani finiscono a volte per incastrarsi in maniera opinabile sulla musica costringendo la cantante ad allungare o affrettare le parole. Ecco qua:
Al di là della più o meno chiarezza dell’italiano e dell’abbinamento parole-musica, che alla fine sono comunque questioni interpretative personali come per qualunque poesia e canzone, il problema però è un altro: è la solita mancanza di fedeltà fra l’originale e l’italiano.
Per prima cosa in originale, a parte per il sogno citato all’inizio, Shizuku parla sempre ed esclusivamente al presente: è una scelta esplicita, non c’è alcun verbo al passato e nessuno al futuro o anche solo che lasci presagire il futuro. Anche quando si dice «se continuo ad andare su questa strada mi porta a quella città», non c’è la certezza che la strada arriverà in città o devierà prima, si sa solo che qui e in questo momento la strada va in direzione della città. In originale il verso recita:
- この道 Kono michi “Questa strada” (manca la preposizione perché il linguaggio è estremamente colloquiale, un discorso fra sé e sé)
- ずっとゆけば zutto yukeba “persistentemente [nella condizione esplicitata dalla parola successiva] se vado”
- あの街に ano machi ni “a quella città”
- つづいてる tsuzuiteru “portando” (uso standard della forma gerundio come presente se non accompagna specificatamente altri verbi)
Quindi letteralissimamente è, appunto, «se continuo ad andare su questa strada mi porta a quella città», e poi chiosa con きがする ki ga suru “ho il presagio che, credo sia così”, confermando che se la strada va o non va in città è solo una sua momentanea sensazione. Non c’è affatto quel futuro che invece è assicurato nel testo di Cannarsi, in cui «la strada qui se poi la seguirai a quella città condurrà infine»; la presenza di «sento così» non sembra togliere alcuna forza all’assunto precedente, che invece conteneva un termine certo e definitivo come «infine». Si perde inoltre il dualismo degli aggettivi “questa/quella”, che rappresentavano quello che si sa già (la strada) e quello che ancora non si conosce (la città).
Altra discrepanza c’è nella parte «a quel che pare il passo tuo più spedito marciare andrà per i ricordi cancellar», che in originale era un semplicissimo
- 心なしか kokoronashika “In qualche modo”
- 歩調が速くなっていく hochō ga hayakunatte iku “il passo si affretta”
- 思い出 omoide “i ricordi”
- 消すため kesu tame “per cancellare”
Quindi «In qualche modo il passo si affretta per cancellare i ricordi»: Shizuku sta allontanandosi da alcune dolorose esperienze del passato che l’hanno fatta piangere, come specificato dal verso precedente, e quindi inconsciamente allunga il passo. Non c’è alcun dubbio. In italiano le parole diventano «a quel che pare il passo tuo più spedito marciare andrà per i ricordi cancellar»: cioè? Cos’è «a quel che pare»? A chi pare?
Il peggio si raggiunge nel finale: gli struggenti versi «Country road, anche se questa strada continuasse fino alla mia città natale, io non ci vado, non ci posso andare, country road. Country road, domani il mio solito io vuole tornare: non può tornare, addio country road» diventano nella versione di Cannarsi «Country road, la strada qui in terra natìa conduca o no, io si sa non c’andrò mica, non va così country road. Country road domani vedrà il mio io, lo stesso già vuoi tornare tornar non potrai: addio sarà, country road». Oltre all’ultimo soggetto ambiguo (country road o il domani) di cui abbiamo già parlato, concentriamoci qui su «io non ci vado, non ci posso andare»: in originale il testo mostra come Shizuku si imponga risolutamente di non “tornare a casa”, ma in italiano diventa «io si sa non c’andrò mica, non va così», ma come «si sa»? Chi è che lo sa? È una domanda retorica perché è ovvio che non si torna a casa? Non è forse una decisione maturata volontariamente da Shizuku?
Peggio ancora è il «non va così»: è vero che in giapponese 行けない ikenai può significare anche “non è così che va (il mondo)”, ma letteralmente significa “non posso andare” e si riferisce esplicitamente al verso precedente 行かない ikanai ovvero “non vado”, coniugando in due maniere diverse lo stesso verbo con lo stesso soggetto esplicitamente pronunciato (僕は boku wa “io”). È il secondo dualismo perduto dopo “questa/quella”, e anticipa il terzo e forse più metaforico dualismo perduto, ovvero “città/città natale”: se nel primo ritornello apprendiamo che Shizuku vuole andare verso あの街 ano machi “quella città”, nel secondo scopriamo che lei teme che quella città possa rivelarsi nient’altro che proprio la sua 故郷 furusato “città natale”, chiarendo la difficoltà del suo percorso che vuole allontanarsi da qualcosa e teme di ricascarci. Certo, stando a qualunque dizionario furusato indica non necessariamente la città, ma anche il luogo, la zona, la terra natale; è vero però anche che gli ideogrammi stessi esplicitamente usati nel testo al posto delle sillabe (come si usa di solito, perché essendo più ambigue lasciano maggiore libertà interpretativa) significano letteralmente 故 furu “origine, causa” + 郷 sato “villaggio, paese”, non lasciando alcun dubbio sull’interpretazione della parola. Scegliendo il sinonimo «terra natìa» Cannarsi eradica questo raffinato collegamento interno ed eradica anche l’ultima possibilità per gli spettatori italiani di comprendere il valore di questo testo poetico duale, speculare, caratterizzato da due forti poli che sono la certezza per il presente e l’incertezza per il futuro.
Ecco che quindi persino un testo apparentemente semplice e lineare come quello di Country Road conteneva comunque delle bellissime e profonde idee poetiche, che la versione italiana (al netto di un linguaggio e un cantato opinabili) non riesce nemmeno lontanamente a conservare.
Il mio vicino Totoro
C’è poco da dire sulle canzoni de Il mio vicino Totoro: sono esplicitamente fatte per i bambini piccoli, molto piccoli, piccolissimi. Si tratta di un fatto oggettivo e incontrovertibile: analizzando parola per parola i copioni integrali dei film di Hayao Miyazaki, si è scoperto che Il mio vicino Totoro comprende esclusivamente termini comprensibili entro i 4 anni d’età, ovverosia non c’è una sola singola parola del film che un bambino giapponese di media cultura entro i 4 anni non comprenderebbe. Per la cronaca, il film di Miyazaki che contiene le parole più difficili è Si alza il vento, in cui comunque si usano solo ed esclusivamente parole che i bambini giapponesi imparano a scuola entro i 12 anni (come dicevamo nel precedente articolo sui dialoghi a proposito di 桁 keta “lungarone”, che si impara appunto in seconda media). Ecco la tabella completa:
Titolo | Durata | Fascia d’età |
---|---|---|
Il mio vicino Totoro | 86 minuti | dai 3-4 anni |
Kiki – Consegne a domicilio | 102 minuti | dai 4-5 anni |
Laputa – Castello nel cielo | 124 minuti | dai 4-5 anni |
Porco rosso | 93 minuti | dai 5-6 anni |
Ponyo sulla scogliera | 101 minuti | dai 5-6 anni |
La città incantata | 124 minuti | dai 5-6 anni |
Nausicaä della Valle del Vento | 116 minuti | dai 6-7 anni |
Principessa Mononoke | 133 minuti | dai 10 anni |
Il castello errante di Howl | 119 minuti | dai 10 anni |
Si alza il vento | 126 minuti | dai 12 anni |
Sarebbe sufficiente questa tabella per chiudere qui e ora definitivamente qualunque argomentazione a favore della presunta complessità e aulicità della lingua di Miyazaki: in almeno la metà dei suoi film, la capacità linguistica richiesta è letteralmente sub-elementare, da analfabeti. Persino quello che Cannarsi stesso definisce giustamente il suo film più colto, ovvero Principessa Mononoke, non presenta alcuna particolare difficoltà per bambini madrelingua già dai 10 anni in su, e infatti viene mostrato nelle classi di lingua giapponese per stranieri poiché offre al contempo un bel film, uno spaccato culturale del Giappone e ampi spunti di discussione, il tutto con un linguaggio al massimo da scuola media e giudicato dai giapponesi stessi così gentile da essere «evidentemente femminile».
Ovviamente ci sono delle specifiche eccezioni, fra cui sporadici termini difficili, o inusuali, o tecnici, o aulici o rétro, oppure le già citate battute para-nonsense di ispirazione letteraria di Fujimoto in Ponyo sulla scogliera, ma quelli sono momenti puntuali in cui Miyazaki usa certi termini appositamente perché vuole che spicchino sugli altri, oppure perché esplicitamente non vuole che il pubblico capisca, e quindi non rientrano nel novero dei casi.
C’è un piccolo corollario da aggiungere. Il fatto che Miyazaki usi un lessico, uno stile e una grammatica da bambini ovviamente non pregiudica in nessuna maniera la qualità della sua scrittura, anzi è il contrario: riuscire a esprimere concetti straordinariamente potenti, profondi e universali persino con una lingua minima lo rende un regista, uno sceneggiatore, un comunicatore, un artista ancora più clamoroso di quanto non sia già considerato. Ecco la grande qualità di Miyazaki: saper dire molto con poco a tutti, persino ai bambini piccoli.
A proposito di bambini piccoli e tornando al tema delle canzoni, in particolare i bimbi sotto i tre anni già riescono a cantare a memoria さんぽ Sanpo (in italiano Passeggiata) e quelli sotto i due anni già la riconoscono, a riprova definitiva e inappellabile del suo testo estremamente semplice, della melodia estremamente lineare, e del ritmo estremamente elementare. Con la colonna sonora de Il mio vicino Totoro, e in particolare con il brano Sanpo, il compositore Joe Hisaishi si è assicurato in Giappone e non solo quella iconicità assoluta, trascendente e immortale che hanno solo Happy Birthday to You, Fra’ Martino campanaro e pochissimi altri brani al mondo.
Ora, tralasciando il brano となりのトトロ Tonari no Totoro (in italiano Il mio vicino Totoro), che pure presenta varie criticità (come ad esempio l’uso del termine «fantasma» per indicare Totoro, che abbiamo già spiegato essere errato) oppure il discutibile verso «Che splendida gioia ti verrà!» in cui si usa il verbo “venire” che indica l’arrivo di malattie e disturbi vari (al contrario delle cose gioiose, le quali invece arrivano, non vengono), concentriamoci direttamente sul testo di Sanpo/Passeggiata. In originale era così:
あるこうあるこう / わたしはげんき / あるくのだいすき / どんどんいこう
さかみち、トンネル、くさっぱら / いっぽんばしにでこぼこじゃりみち
くものすくぐって、くだりみち
あるこうあるこう / わたしはげんき / あるくのだいすき / どんどんいこう
きつねもたぬきもでておいで / たんけんしようはやしのおくまで
ともだちたくさん、うれしいな / ともだちたくさん、うれしいな
Il testo della canzone è di Rieko Nakagawa, scrittrice per l’infanzia celeberrima in Giappone grazie alla sua serie di libri Guri e Gura, autentico long seller fin dagli anni ’60. Conoscendo molto bene il modo di esprimersi dei suoi piccoli lettori, per la canzone Sanpo la Nakagawa ha proposto un testo nemmeno semplice, di più: scorretto. I pochi versi, completamente scritti in sillabe, sono infestati di errori di grammatica (ad esempio, invece del corretto あるくことがだいすき aruku koto ga daisuki “mi piace camminare”, la Nakagawa scrive あるくのだいすき aruku no daisuki, di medesimo significato, ma usato nel linguaggio infantile di base) e di lessico (invece del corretto くさはら kusahara “prati” ne usa la distorsione くさっぱら kusappara), in generale mancano molte preposizioni e copule, e salta la distinzione stessa fra soggetto e complemento oggetto, essendo fondamentalmente una lista di sostantivi.
Al netto degli errori volontari, il testo letteralmente significa:
Camminiamo, camminiamo / io sto bene / mi piace tanto camminare / continuo a camminare.
Salite, tunnel, prati, / ponti dritti e strade di ghiaia sconnesse, / passa sotto la ragnatela, discesa!
Camminiamo, camminiamo / io sto bene / mi piace tanto camminare / continuo a camminare.
Volpi e procioni, uscite / esploriamo il bosco fino in fondo. / Ci sono tanti amici, che felicità! / Ci sono tanti amici, che felicità!
Il testo presenta alcuni elementi non del tutto familiari al pubblico italiano che invece per i giapponesi sono perfettamente comuni, a partire dallo 一本橋 ipponbashi “ponte formato da un unico elemento lineare” che può essere un blocco di pietra oppure, data l’ambientazione campestre, un tronco. Le “strade di ghiaia sconnesse” in giapponese si dicono con due parole elementari, 凸凹 dekoboko “concavo convesso, ineguale, non piatto” e 砂利道 jarimichi “strada di ghiaia”. L’invocazione a volpi e procioni deriva dal fatto che nel folklore giapponese kitsune e tanuki sono animali senzienti che possono avere contatti con gli esseri umani. Tutti elementi perfettamente noti nel Giappone rurale anni ’50 espressi con lingua basica.
Nella versione di Cannarsi invece il testo diventa:
Camminiam, camminiam / io sto benone, sì. / Mi piace tanto camminar / di buon passo andiam.
Strade in collina, gallerie, distese d’erba, / ghiaia sul sentier, e poi per ponte un tronco c’è.
Si riscende da un sentier / sotto alle ragnatel!
Camminiam, camminiam / io sto benone, sì. / Mi piace tanto camminar / di buon passo andiam.
Volpi anche voi, e tanuki voi, fatevi veder. / Esploriamo, dai, giù fino in fondo al bosco, sì.
Tanti amici ci saran / che felicità! / Tanti amici ci saran, che felicità!
Una traduzione praticamente parola-per-parola. Ora, lasciando all’opinione del lettore se «di buon passo andiam», «distese d’erba» e «fatevi veder» fanno parte del lessico dei bambini di tre anni, e ignorando il fatto che Cannarsi mette in italiano “volpi”, ma non tanuki (eppure «kitsune voi, e tanuki voi» avrebbe avuto le stesse sillabe) è interessante notare come la metrica della canzone è così sballata da costringere sia Cannarsi a mettere qua e là parole riempitive («sì», «poi», «dai»), sia la cantante Roberta Frighi ad alterare il ritmo e l’accento di molte parole.
Gli originali, ordinatissimi versi ripetuti uguali due volte 4/4/4/3 – 4/4/4/3 – 4/4/5 – 5/4/4 – 4/4/5 diventano nella versione italiana degli sballati e asimmetrici 3/3/5/2 – 5/3/4/3 – 5/3/5 – 5/5/5 – 5/3/6 nella prima strofa e 3/3/5/2 – 5/3/4/3 – 4/5/5 – 5/6/5 – 4/3/6 nella seconda strofa, e questo contando con la sinalefe (come una sillaba unica) i dittonghi vocalici, sennò sarebbero state ancora di più. Nessun minimo rispetto della metrica originale. In effetti sul forum del sito Studio Ghibli Italian Fan Page una utente aveva provato a suggerire umilmente che i versi erano incantabili, prendendosene anche la colpa, e come risposta Cannarsi le ha scritto:
In effetti in alcuni casi ho privilegiato gli accenti metrici su quelli tonici, alla maniera della metrica latina, o operistica se preferite.
«Metrica latina, o operistica» in una filastrocca pastorale per bambini di tre anni? Ma di cosa stiamo parlando? Che cosa c’entra la metrica latina con Sanpo? Che cosa c’entra l’opera, soprattutto, che è un medium diverso dal cinema e che risponde a logiche letterarie, musicali, spaziali e contenutistiche estremamente complesse e totalmente distanti nello spazio e nel tempo da questa elementare canzoncina?
Con Sanpo/Passeggiata siamo di fronte a una situazione paradossale in cui il tentativo di restituire con fedeltà linguistica estrema il testo di una canzone mette in secondo piano, o addirittura contraddice il lessico, il ritmo, la cantabilità e il target stesso a cui il brano originale era destinato, perdendo quella che sarebbe potuta essere una straordinaria occasione per far finalmente uscire gli anime da quel ghetto in cui continuano tuttora a vagabondare nel mercato italiano: Il mio vicino Totoro è uscito al cinema per due soli giorni il 12 e 13 dicembre 2015, raccogliendo in totale 260’000 €, ovvero (al netto del prezzo del biglietto maggiorato essendo un cosiddetto “evento speciale”) un numero di spettatori compreso fra i 25’000 – 30’000, che è un risultato esaltante per un film d’essai indipendente, ma certo lontano dalla vera popolarità che questo film meriterebbe, e che forse i fan stessi non vogliono.
Finale: Aria
Forse l’esempio di Sanpo riassume meglio di tanti discorsi il metodo di lavoro usato da Cannarsi e di cui si sono occupati questi cinque articoli: l’amore per la materia è genuino, l’impegno è grande, la buona fede c’è tutta, l’applicazione è zelante, ma poi i risultati lasciano totalmente a desiderare e la pezza è peggio del buco.
Intendiamoci: il lavoro di Gualtiero Cannarsi alla fine dei conti potrebbe risultare migliore di quello di Lorena Brancucci, perché almeno Cannarsi tenta in maniera più o meno riuscita di mantenersi vicino al testo e al senso originale delle canzoni, mentre invece la Brancucci adatta senso-per-senso ottenendo creazioni praticamente ex-novo spesso molto criticate. C’è però da dire che la Brancucci lavora seguendo metodi che, per quanto discutibili, sono assolutamente coerenti e funzionali a quello che deve produrre per l’azienda committente, esattamente come facevano anche Maldesi, De Leonardis, la Valeri Manera e tanti altri adattatori. Seguire il metodo, consegnare il prodotto finito.
Tutto questo Cannarsi non lo fa: nei suoi lavori è palese, dimostrabile dati alla mano, che il suo metodo salta continuamente da un estremo all’altro, spinto da forte soggettivismo, senza trovare mai requie se non nelle sue dichiarazioni, in cui si esprime una certezza granitica sulla bontà del proprio lavoro basato su una supposta “fedeltà” data per scontata. Eppure come abbiamo visto questa “fedeltà” non è sempre presente, nonostante la sbandierata, incrollabile certezza di aver fatto la scelta “corretta”, al punto da dichiarare che se qualcosa «suona un po’ strano […] è giusto/logico/sensato/corretto che sia [così]», come se non potesse esistere nessun compromesso fra correttezza della traduzione dalla lingua di partenza e correttezza della sua espressione nella lingua d’arrivo, come se il lavoro dell’adattatore non fosse proprio la ricerca del compromesso, come se la parola “adattamento” non fosse essa stessa sinonimo di “compromesso”, come se non fosse Cannarsi stesso a dire che «ogni traduzione è un compromesso».
Alla fine il massimo paradosso di Cannarsi è proprio nella mole delle sue dichiarazioni: si potrebbe quasi arrivare a ipotizzare che se non si fosse esposto pubblicamente o comunque non così tanto come fa, se non disprezzasse a parole Internet come «l’illusione della comunicazione» nonostante sia il mezzo che lui stesso usa per comunicare, se non avesse rilasciato dichiarazioni tranchant, se smettesse di usare termini assolutistici, se non mischiasse continuamente il vero col falso, e soprattutto se non insultasse i suoi interlocutori al punto da farli vergognare di aver espresso un’opinione anche se era perfettamente argomentata, se in pratica in questi 22 anni avesse fatto il suo lavoro esattamente come lo ha fatto, ma senza commentarlo continuamente contribuendo a creare il suo mito autocostruito, forse oggi il pubblico degli animefan considererebbe e apprezzerebbe Cannarsi come un adattatore dallo stile certamente riconoscibile, certamente controverso e certamente divisivo, ma tutto sommato ben più accettabile di tanti altri.
Invece non è andata così: nel tempo lo stile di Cannarsi è diventato sempre più sostitutivo dello stile originale dello sceneggiatore, sempre più riconoscibile, ostico, controverso e divisivo agli occhi del pubblico, quello stesso pubblico per cui in teoria lavorerebbe. Forse la più intollerabile dichiarazione di Cannarsi è proprio quel suo celebre «Del pubblico non so, ma onestamente non mi interessa neppure»: si tratta di parole di una gravità sconvolgente per un adattatore, perché lui è pagato da un’azienda a fine di lucro che si occupa di acquistare opere d’arte, originariamente pensate esplicitamente per un certo pubblico, per poterle poi distribuire pubblicamente a un altro pubblico tramite la pubblica vendita di biglietti in luogo pubblico, e che dalla vendita di quei biglietti ricava il profitto con cui paga Cannarsi.
Il pubblico non può non essere l’orizzonte di Cannarsi, perché non sta adattando per sé stesso, non sta scrivendo sul suo diario segreto, non sta tentando un esperimento lessicale. Se Cannarsi usasse i suoi metodi per ricerche private, del tipo “proviamo a tradurre il giapponese 1:1 e vediamo quello che viene fuori”, il risultato potrebbe anche avere un qualche interesse a livello di studio o di curiosità linguistica, ma non a livello di distribuzione per il grande pubblico, cioè il settore in cui lui lavora. A questo si aggiunge il fatto che, come abbiamo visto, Cannarsi non adatta affatto 1:1, né parola-per-parola, né senso-per-senso né in qualunque altro modo omogeneo, ma bensì usando un mix di tecniche che indeboliscono il suo lavoro rendendolo in nessuna maniera più “corretto” di quello degli altri adattatori, anzi se possibile molto più “scorretto”, così scorretto che è gia un caso studio analizzato e denigrato in sedi accademiche.
In effetti il lavoro di Lorena Brancucci è migliore di quello di Gualtiero Cannarsi: entrambi tradiscono in maniere diverse l’opera originale, ma almeno lei non tradisce la lingua di destinazione, non tradisce l’azienda per cui lavora e soprattutto non tradisce il pubblico né gli mente, tutte cose che lui invece fa costantemente.
Nella sua ormai lunga carriera Cannarsi ha avuto la possibilità di affrontare, fra le altre, le opere dello Studio Gainax e dello Studio Ghibli, due fra i massimi vertici se non i massimi vertici in assoluto della storia dell’animazione giapponese: sono opere d’arte straordinarie che hanno fatto ridere, piangere e sognare milioni di persone nel mondo proprio in virtù del loro grande messaggio di valore universale, quello stesso messaggio che Cannarsi sembra fare di tutto per piegare al suo personalissimo punto di vista ogni volta che gliene viene data la possibilità. I suoi interventi scritti e parlati in cui confonde verità e bugie non fanno altro che confermare il suo approccio oltremodo soggettivo.
Ovviamente Cannarsi è perfettamente libero e degno di continuare a scrivere come, dove e quanto vuole, ci mancherebbe altro, ma sono altrettanto liberi e degni anche gli altri di criticare il suo lavoro (non lui: il suo lavoro) come, dove e quanto vogliono, perché l’Arte è un valore per cui combattere.
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Dimensione Fumetto non è una testata giornalistica e non è soggetta agli obblighi di legge in materia di editoria. Tuttavia, in ottemperanza all’art. 8 della legge sulla stampa 47/1948, Dimensione Fumetto ha ugualmente invitato Gualtiero Cannarsi a fornire una sua replica a questo articolo qualora lo ritenesse lesivo della sua dignità o contrario a verità. Con lettera firmata e datata 19/03/2019, Cannarsi ha preferito rifiutare l’invito.
La domanda che mi sorge spontanea alla fine di questa serie di articoli è: come si potrebbe fare per comunicare alla Lucky Red e/o a Cannarsi le possibili lamentele, opinioni e considerazioni?
Cannarsi se ne disinteressa totalmente, ha scritto su AnimeClick che tutto quel che pensa di questi articoli è «Oh beh». Che dire, se non interessa a lui spero almeno che interessi al pubblico e che capisca che sono decenni che viene preso in giro: magari alla sua prossima conferenza qualcuno potrebbe finalmente alzare la mano non per lodarlo, ma per fargli delle domande circostanziate sulle sue interpretazioni assolutamente soggettive dei copioni giapponesi, e avrebbe come base di dati questi miei articoli. Se sono riuscito a mettere la pulce in almeno un’orecchio, allora non ho fatto un lavoro inutile.
Quanto alla Lucky Red e/o a qualunque altra azienda con cui mai Cannarsi dovesse collaborare: spero che prima o poi qualcuno legga, io quello che dovevo fare l’ho fatto.
Un lavoro incredibile ed encomiabile. Mi dispiace solo che il diretto interessato preferisca fare spallucce, restare arroccato nelle sue posizioni dispotiche da radical chic, etichettando in modo denigratorio ogni critica che gli viene mossa.
Ero stato davvero, onestamente felice di leggere il suo commento sotto il primo articolo. Poi è scomparso, o meglio sta su AnimeClick a commentare a distanza di sicurezza senza entrare mai, MAI nel merito, e preferendo offendere me con nomignoli e additare gli articoli come “indignitosi”, continuando peraltro a diffondere le sue menzogne. L’ultima è che Sanpo non è una canzone per bambini, bensì è pensata per essere cantata dagli adulti ai bambini «idealmente da una mammina tipo capa-scout. Si sente proprio»: non solo ricade nel suo solito soggettivismo non dimostrando in alcun modo la sua dichiarazione né come “si senta proprio”, ma la cosa sembra inoltre essere smentita dall’autrice stessa, la quale quando scrive libri illustrati che le mamme leggono ai bambini lo fa in giapponese corretto e non certo usando una lingua totalmente, volontariamente sgrammaticata come in questa canzone.
Fra l’altro ne approfitto per sottolineare per l’ennesima volta che questi articoli sono il frutto di un lavoro corale a cui hanno partecipato decine di persone madrelingua (di cui cinque hanno partecipato costantemente agli articoli 2, 3, 4 e 5, fra cui due insegnanti che ci hanno messo pure nome e cognome e istituto) i quali hanno risposto ai miei dubbi linguistici e culturali e che ringrazio infinitamente, quindi posso dire con certezza assoluta che non mi sono inventato niente, letteralmente. Affermare che questi articoli sono indignitosi equivale a offendere anche e soprattutto loro. Inoltre, prima di essere pubblicati tutti e cinque gli articoli sono stati rivisti da vari collaboratori e dal direttore del sito per essere certi che non contenessero nulla di non verificabile e tantomeno di personale su Cannarsi. Può essere sfuggito qualche errore di battitura o di grammatica, certo, e il mio stile di scrittura può essere più o meno apprezzabile, ci mancherebbe, ma d’altronde questi articoli non sono un trattato di grammatica, il tema dell’italiano di Cannarsi non è stato nemmeno sfiorato (e anzi è stato difeso), e soprattutto se anche gli articoli fossero stati scritti in maniera pessima non cambia il fatto che i contenuti sono stati verificati e contro-verificati.
È dal 13 dicembre che aspetto smentite a quello che ho scritto, e ancora non è arrivato nulla. Le uniche volte che ho rimesso mano agli articoli è stato per alcune correzioni grazie alle segnalazioni di quattro-cinque persone che mi hanno scritto (in privato o nei commenti al sito) per specificare che non è Giorgio Amitrano che mette l’ordine nome+cognome bensì la Feltrinelli, e quindi ho rimosso quella frase, e che c’erano alcuni passaggi poco chiari, che quindi ho corretto e ampliato. Ad esempio, ho corretto proprio oggi l’articolo 4 aggiungendo un pezzettino sulla forma in -masu nel paragrafo in cui si parla di o-hayou gozaimasu de La collina dei papaveri, oppure in questo quinto articolo ho aggiunto il paragrafo sui tre ombrelli bangasa, kasa e janome. Nei commenti al quarto articolo sto dialogando con un utente circa l’etimologia di o-hayou gozaimasu e sto aspettando una sua risposta per trovare una soluzione condivisa. Quanto alle effettive smentite fattuali, ancora nulla.
Questi articoli non sono la biografia di Cannarsi né una sua intervista né una riflessione sul suo italiano: sono dei fact-checking degli adattamenti italiani dei film dello Studio Ghibli. Avrei potuto scrivere sempre «l’adattatore» invece di «Cannarsi» e non sarebbe cambiato niente. Poiché gli articoli si basano su dati pubblici e verificabili (tutti citati e linkati) e non su gusti personali, la sua collaborazione fin dall’inizio non era richiesta. Avevo un’ipotesi e con le fonti ho dimostrato che è vera, ovvero: questi adattamenti sono totalmente soggettivi e per niente oggettivi. Mai, nemmeno in una frase, si parla di opinioni, ma solo di fatti. In effetti però Cannarsi ha già collaborato alla stesura di questi articoli: con le sue parole scritte e parlate, che ho riportato interamente, con fedeltà assoluta e linkate una a una.
Ora abbiamo cinque articoli in cui si confrontano i copioni giapponesi con quelli italiani: se qualcuno ha qualcosa da ridire, che me lo dica in faccia per favore. Io fin dal primo articolo ho scritto nero su bianco che sono qui per confrontarmi, ci sono questi spazi per commentare apposta, se lui o chiunque altro ha qualcosa da ridire può farlo qui, sto aspettando di dialogare. Io la mia mano l’ho tesa: se lui invece di dialogare preferisce andare altrove a dire che io faccio monologhi, beh, non è un mio problema.
Mario Pasqualini, molte delle cose che scrive sono corrette e condivisibili, tuttavia i suoi articoli non sono esenti da imprecisioni e, soprattutto, contengono numerosi dati non verificabili e ci sono anche diverse considerazioni personali, a differenza di ciò che scrive.
Con questo non voglio difendere a spada tratta Cannarsi, il cui lavoro è comunque soggetto a critiche condivisibili, ma voglio farle notare che l’additamento con presa di posizione non obiettiva che si cela nei suoi articoli contiene una denigrazione non troppo velata, spesso alimentata dal sarcasmo; alla fine è una questione di forma (più che di contenuto) ma è comprensibile che la persona presa in esame negli articoli possa snobbare gli stessi alla luce di questo (sommata alla negligenza in alcuni aspetti analizzati).
Sono curioso in merito alle imprecisioni e ai dati non verificabili.
Puoi elencarmeli?
Non sono affatto d’accordo con nessuna delle affermazioni di cui sopra; le quali, peraltro, non sono neppure suffragate da esempi concreti, ma soltanto messe lì a voler denigrare un lavoro senza minimamente giustificarle.
Nell’ordine è immediatemente verificabile che non è vero che:
– contengano “numerosi dati non verificabili” (sono tutti ampiamente verificabili attraverso i link che li accompagnano)
– ci siano “diverse considerazioni personali” (sono formulate ipotesi sul metodo di lavoro di C. e come tali persentate e comunque sempre ampiamente argomentate, come d’altra parte ogni singola affermazione contenuta negli articoli). Le uniche considerazioni personali, al più sono alcune lodi sperticate all’amore di C per gli anime.
– vi sia un “additamento con presa di posizione non obiettiva” e …
– “una denigrazione non troppo velata”: Nessuna denigrazione e nessun sarcasmo; ma solo la puntuale smentita nei fatti di quanto dichiarato da C.
Per quanto possa dare fastidio che “venga messo il sale sulla coda”, è la inveitabile conseguenza di scelte controverse imposte al pubblico (e per lo più rigettate come inadatte per usare un eufemismo) spacciate per oggettive quando non lo sono affatto.
Questo soltanto dimostrano questi articoli, e lo fanno con un amplissimo corpus di argomentazioni a supporto, espresse da persone competenti e da fonti attendibili e autorevoli.
Ho letto tutta la serie di Articoli, davvero ben scritti, approfonditi e con ottime argomentazioni (Alle quali Cannarsi sicuramente non risponderà, perché le argomentazioni stavolta sono molto valide e chi ha scritto l’articolo ha una conoscenza davvero approfondita della lingua giapponese e dei film Ghibli). Concordo con quasi tutto quello che c’è scritto nell’articolo, per esempio nella canzoncina di Una Tomba per le lucciole, perché ha adattato “Ureshii na” con “Che gioià” (Con un fastidiosissimo accento sbagliato) quando in totoro lo stesso “Ureshii na” lo ha adattato con “Che felicità” che ci stava molto meglio?
(Ah, nell’articolo 雨雨ふれふれ è stato translitterato ame ame furu furu, ma c’è scritto ame ame fure fure, l’errore di battitura è in italiano o in giapponese?)
Nella canzone di Totoro comunque ci sono delle cose che Cannarsi non ha sbagliato del tutto, perché 歩くの大好き significa “mi piace tanto camminar” e どんどん行こう sarebbe “andare velocemente” (Ora non ho sottomano il dizionario elettronico, ma se non ricordo male dondon significa anche qualcos’altro, mi sembra di averlo sentito in altre occasioni dalle mie prof di giapponese.)
Comunque è proprio vero che Cannarsi rigira abilmente le opinioni di chi non conosce il giapponese, io prima di iniziare a studiarlo credevo che i suoi adattamenti fossero giusti credendo a tutte le frottole che egli racconta. Prima o poi voglio rivedere tutti i ghibli con i sottotitoli in italiano, ieri mi sono visto un pezzo di Howl, e ho fatto caso che il linguaggio non è per niente così formale come lui vuole far credere.
Recentemente ho visto Mary e il Fiore della Strega, adattato da Massimiliano Alto, mi sembra che abbia reso il film in un italiano molto scorrevole ma allo stesso tempo si sente che è un’opera adattata dal giapponese senza dialoghi incomprensibili alla Cannarsi.
Grazie delle segnalazioni, ho già corretto i fure fure (errore di battitura mio, chiedo scusa) e aggiunto i “tanto” a «mi piace tanto camminare». Dondon è un caso a parte perché il senso generale indica che un’azione si svolge in modo progressivo e progressivamente “sempre di più senza fine”, quindi il senso cambia se stiamo parlando di cose contabili o incontabili. Per esempio, quando si mangia si possono contare i piatti quindi どんどん食べる dondon taberu significa “mangiare sempre di più”, ma nel caso di cose incontabili come i passi どんどん歩く dondon aruku diventa “continuare a camminare” senza fermarsi. Si potrebbe tradurre anche come “andare più velocemente”, ma lì magari un avverbio avrebbe aiutato a contestualizzare, tipo どんどん早く歩く dondon hayaku aruku, avverbio che qui non c’è. In pratica: più che “andare velocemente” forse “andare sempre più velocemente” non è scorretto perché almeno esprime un senso di progressività che è il concetto base di dondon. Nel caso specifico, comunque, secondo me “continuare a camminare” è sufficiente perché indica progressività e perché, come specifica Joe Hisaishi nella partitura, è un brano «a tempo di marcia» che quindi mantiene la stessa velocità.
Mio personalissimo e opinabilissimo parere: qui どんどん potrebbe essere anche essere usato semplicemente in senso onomatopeico, del tipo “andiamo pam pam”, che in italiano suona molto come linguaggio da bambini, ma in giapponese non altrettanto, perché si usano spesso onomatopee all’interno delle frasi e lo stesso どんどん con il significato “via via sempre più” non è altro che un’espressione di derivazione onomatopeica.
Kotobank ( https://kotobank.jp/word/%E3%81%A9%E3%82%93%E3%81%A9%E3%82%93-586783 ), tra le definizioni di どんどん mette anche: 床を荒々しく踏みならす音などを表わす語 (parola che indica lo sbatacchiare a terra dei piedi).
Sono d’accordo, anche questa è una possibilità.
Questo articolo è la degna e ottima conclusione del ciclo dedicato al caso “Cannarsi come adattatore”. Oltre ai doverosi complimenti, devo dire che mi sento chiamato in causa in quanto amo cantare ed ho fatto canto, in un coro per moltissimi anni. La metrica è importante, se non fondamentale, ma ciò che rende memorabile una canzone è anche il, e soprattutto, il testo. Se non è chiaro o risulta poco “scorrevole” o pesante, non riuscirà mai a fare breccia.
Per questo, canzoni con un ottimo ritornello e significati evidenti, come ad esempio “Radio Gaga” dei Queen sono e saranno sempre dei “classici”.
Quando poi si pensa ad una produzione per i più piccoli, è indispensabile creare o adattare canzoni semplici, ma che possono comunque esprimere concetti profondi. Un esempio in tal senso sono alcune canzoni dello Zecchino d’Oro, relativamente alla lingua italiana.
Il fatto che Cannarsi citi in modo errato il linguaggio musicale operistico, che è comunque popolare, ma rivolto ad un pubblico istruito (e quindi adulto), è un atto offensivo degli intenti originali di Miyazaki e lo studio Ghibli, poiché nega a gran parte del pubblico di riferimento (che dovrebbe essere “per tutti”, seguendo le regole della diffusione video) la possibilità di vedere e capire un’opera. E la giustificazione che del pubblico stesso non gli interessa è sconvolgente.
La metrica delle canzoni da lui adattate è pesante e risulta difficile da memorizzare per un adulto (oltre che da cantare), figuriamoci per un bambino!
Mi sono allora chiesto questo: come mai molti di noi hanno accettato, per anni, che lui lavorasse imperterrito in questo modo che definire “libero” è poco? Probabilmente, perché volevamo talmente tanto vedere i film dello studio Ghibli da chiudere un occhio, o meglio, accettare un linguaggio astruso e non rispettoso dell’originale solo perché eravamo rapiti da tutto il resto (i disegni, l’animazione, la colonna sonora, ecc…) Se invece delle opere dello studio Ghibli ci fosse stato, ad esempio, Chi (la gattina, un anime molto carino per bambini con protagonista una micina adottata da una famigliola amorevole di Tokyo), io credo che la carriera di questo signore non sarebbe mai nata. Che poi il problema, come dici molto bene Mario (spero di poterti dare del tu), non è soltanto l’adattamento. Se fosse stato così, ma Cannarsi fosse rimasto in silenzio, seguendo la sua linea personale, non ci sarebbe stato il gran clamore mediatico che si è generato (o perlomeno, non a questi livelli). E invece, lui non fa altro che difendere la sua opera con tanta arroganza e denigrando le critiche costruttive, cosa che dimostra poca capacità critica (una persona davvero intelligente e capace sa accettare e rispondere alle critiche, persino trarne un insegnamento). Riuscire ad ammettere di aver commesso degli errori non è un segno di debolezza, come pare emergere dalle reazioni di Cannarsi al confronto critico, bensì una dimostrazione di “sapersi mettere in gioco”, confrontarsi con chi non la vede come lui, perché, come avevo già scritto in un mio precedente commento ad un altro articolo, la passione sincera applicata senza un metodo univoco crea solo dei pessimi risultati.
Ultima nota di colore, relativamente al l’adattamento delle canzoni nei cartoni. Per curiosità personale, da qualche tempo ascolto celebri brani dei cartoni Disney e non nelle canzoni delle lingue relative alla storia raccontata e mi è capitato, su YouTube, di sentire quelle di Mulan in mandarino con i sottotitoli in inglese, sottotitoli fatti da chi ha postato i video (un ragazzo cinese che parla inglese in modo praticamente perfetto). Alcuni utenti americani hanno hanno lamentato il fatto che il testo tradotto in inglese non fosse fedele in tutto e per tutto e si prendesse delle libertà rispetto al testo originale, ma l’autore ha spiegato loro che quella era una traduzione dal mandarino all’inglese, perché, durante l’adattamento di una lingua, non è possibile eseguire un “parola-per-parola”, dal momento che ogni lingua ha la sua grammatica, modi di dire diversi, espressioni particolari, persino alfabeti differenti. Quello che è importante è rendere il senso in modo che, nella lingua di arrivo, sia identico o comunque fedele alle intenzioni di chi l’ha pensato.
Ecco, un semplice ragazzo bilingue ci ha capito di più di Cannarsi!
Evito di esprimere le mie opinioni personali sui testi delle canzoni adattate da Cannarsi, e sottilineo solo come nell’articolo non si parla nella maniera più assoluta dell’italiano e della scelta delle parole italiane (ad esempio, non viene mai suggerita una parola alternativa a quella usata da Cannarsi né le sue scelte lessicali vengono esplicitamente contestate), ma solo del loro rapporto con l’originale giapponese. Ognuno giudichi come meglio crede.
Mi scuso allora innanzitutto perché, evidentemente, mi sono espresso male. Io non ho mai parlato esplicitamente di parole o termini da usare, anche se la mia chiosa finale sulle canzoni di Mulan poteva effettivamente far pensare a ciò.
Io ho parlato di “metrica” e “scorrevolezza”, che funzionano a prescindere dal testo se la canzone finale risulta orecchiabile e, quasi conseguentemente, cantabile. Un esempio in tal senso è dato dal “dee-re-dee-re” di una celebre canzone dei Queen o, ancora meglio, dal “Assereje” di una nota canzone spagnola, tormentone di qualche estate fa. Tali termini hanno un significante, ma non un significato. Eppure funzionano e restano impresse.
Io parlavo pertanto di “scorrevolezza” e “capacità di memorizzare” una canzone che non dipende dal testo in se (per me può pure essere in aramaico, ma se funziona, allora resta in testa). Un altro esempio, che è rapportabile all’infanzia è “supercalifragilistichespiralidoso”, che non significa nulla, eppure tutti lo conosciamo e lo cantiamo perché FUNZIONA.
Ribadisco che mi dispiace di non essermi spiegato bene, relativamente a cosa veramente volevo dire (ammetto di essermi perso, nel commento precedente, dietro al mio “j’accuse” al metodo cannarsiano, finendo per far confondere il concetto di modus operandi e scorrevolezza con quello delle parole usate).
Per farla breve, stravolgere la metrica per cercare una presunta fedeltà al testo non è un modo di fare un buon lavoro. E se in alcuni casi taluni “sfioramenti” di metrica possono essere compensati dalla bravura del cantante, se tale sforamento non è eccessivo (ad esempio, alcune canzoni del nuovo “Mary Poppins”), in altri casi non è tollerabile, soprattutto se si cerca di creare qualcosa che dovrebbe essere memorabile (inteso come “capace di restare impresso”).
Concludo facendo i complimenti a te e a Dimensione Fumetto per l’ottimo lavoro che svolgete e sono ansioso di leggere altri articoli. Buona giornata!
Tranquillo, ti eri spiegato benissimo e avevo anche molto apprezzato tutto il discoso su Mulan. Contiuna a seguirci!
@Mario Pasqualini: Ho scritto qui il mio ultimo commento alla luce del suo post in cui ha invitato “chiunque abbia da ridire a farlo qui” – ovviamente le mie considerazioni erano su tutti e 5 gli articoli in generale. Per chi chiede un elenco delle “imprecisioni e dei dati non verificabili” a cui ci tengo a sottolineare vanno aggiunte opinioni molto personali dell’autore (non sarò esaustivo, ne metto qualcuno in ordine cronologico):
OPINIONE PERSONALE = frase di Hodor presa come esempio di un buon adattamento: qualsiasi dialoghista si fosse trovato in quella situazione, Cannarsi compreso, si sarebbe comportato più o meno allo stesso modo, perché quella particolare situazione non consente di comportarsi in modo differente… oltretutto il risultato ottenuto non è nemmeno particolarmente buono (ma è una scena difficile da rendere bene), quindi non mi sembra il caso a prescindere di prenderla come esempio; ancor più come premessa non regge. Semmai può essere presa come esempio di un adattamento impossibile che fa inevitabilmente perdere sapore rispetto all’originale.
INESATTEZZA = Quando Gualtiero ha detto che ogni cosa nei dialoghi debba stare nei limiti fissati da un “tabellone terminologico”, non ha mai detto che la sua rigidità non possa avere delle manovre malleabili (e difatti è così: perché l’adattamento non concede diversamente). Semplicemente, se può, tenta che ogni cosa abbia delle corrispondenze (ed è del tutto contestabile la MISURA della rigidità di queste corrispondenze) tuttavia il suo modus operandi prevede solo che la fedeltà e la corrispondenza siano delle TENDENZE, ma è perfettamente consapevole che ogni cosa abbia delle eccezioni. Per esemplificare questo concetto: sulla Principessa Splendente, la prima volta che viene nominato il Mikado, nei suoi dialoghi è chiamato “Imperatore” e successivamente sempre Mikado, questo solo per migliorare la comprensibilità nel pubblico, ma è un processo del tutto consapevole.
Usare tabelle in determinati casi non è sbagliato, serve a rendersi conto di eventuali termini ricorrenti la cui rigidità è talvolta necessaria (è invece contestabile il QUANDO sia necessaria)
IMPRECISIONE = C’è scritto che “il suo lavoro non rispetta in alcuna maniera le regole del mestiere”… presa a sé stante, come frase, non ha nessun significato. Non ci sono vere e proprie regole in questo mestiere o, se ci sono, parte di esse è comunque rispettata nel lavoro di Cannarsi (il labiale e il sync ci sono, le frasi idiomatiche sono ritradotte e adattate all’italiano, la grammatica per quanto contorta è sempre rispettata, ecc.)
SUPERFICIALITÀ = L’asserzione sul fatto che il lavoro di Cannarsi sia una “riscrittura”: sì, lo è, ma vale per tutti i dialoghi di tutti i film. I suoi sono tanto peculiari semplicemente perché tenta di schematizzare l’utilizzo dei termini (TENDENZA), succederebbe a qualsiasi dialoghista se praticasse il suo metodo, ma qualsiasi opera di adattamento è un processo di riscrittura che tiene conto dei gusti personali dei dialoghisti.
SUPERFICIALITÀ = Alla fine del primo articolo viene fatta una battutina dicendo che forse l’unica corrispondenza tra il giapponese e l’italiano sta nella parola “Pizza”… ma quando mai, stando solo ai termini, anche parole come “Onna”, “Haha”, “Jiji”, “Kachou”; “Danchou”; “Kuro”, “Demo”; “Nai”; “Saa” e tante altre, hanno fortissime assonanze o corrispondenze con l’italiano, molto più che con l’inglese per esempio. Quindi sì, non c’è dubbio che il giapponese sia una lingua molto diversa dall’italiano, ma non saprei dire se è una delle più diverse, anche molte strutture grammaticali sono abbastanza simili. Quella sulla pizza è una battutina buttata lì, ma del tutto fine a se stessa e non può avere utilità costruttiva se non quella di stizzire Cannarsi e demotivarlo ad un dialogo costruttivo.
SUPERFICIALITÀ = Mi auguro che nessuno pensi che con quella misera petizione di gente che si è “arruffianata” Gualtiero (o anche no, se credevano nel risultato del suo operato che all’epoca comunque era ottimo) il committente abbia potuto anche solo minimamente trarne la base per decidere di assumerlo. La decisione era chiaramente già a monte (mia idea senza basi, però suvvia…)
SUPERFICIALITÀ = Negli articoli viene contestata l’incoerenza di Cannarsi prendendo in esame lavori di epoche totalmente differenti della sua carriera. Agli inizi Cannarsi non aveva ancora maturato le sue idee, il suo metodo ha iniziato a svilupparlo ai tempi di Abenobashi \ FLCL (2004-2005 più o meno) e ha iniziato ad avere un modus operandi più specifico solo più avanti (questa non è solo una cosa che si può notare chiaramente: lo afferma lui stesso e lo ha anche scritto). Prima di allora si comportava più o meno come un normalissimo dialoghista, parlare di incoerenza in questi termini è del tutto naturale. Le persone cambiano e anche le idee. Lui stesso definisce i suoi vecchi dialoghi “insalvabilii”.
OPINIONE PERSONALE = Il discorso su “pulzella” è condisivibile oppure no, ma si tratta di gusti e percezioni personalissimi. Così come è stata effettivamente soggettiva la scelta di Cannarsi, lo è anche la percezione altrui. Sì, c’erano un sacco di alternative valide, tra queste alternative valide è presente proprio la parola “Pulzella”, l’ho visto e sentito utilizzare in molti contesti senza minimamente associarlo a Giovanna D’Arco. Di tutte le (innumerevoli) cose legittimamente contestabili nei confronti di Cannarsi, non vedo perché tirare fuori proprio questa briciola. Ad uno come Cannarsi potrebbe sembrare quasi non si riesca a trovare argomenti contro di lui e ci si arrampichi sugli specchi (quando in realtà di frasi di cui discutere ce ne sarebbe abbastanza da impegnare tutta la vita…)
OPINIONE PERSONALE = Idem di cui sopra l’opinione su “belloccio”. Sì, se Cannarsi fosse coerente fino in fondo avrebbe lasciato “handsome” o avrebbe rispettato fino in fondo la definizione che il dizionario dà di “belloccio”. Ma anche lamentarsi di “belloccio” è soggettivo. Personalmente mi sembra un termine abbastanza consono, al di là delle definizioni dei dizionari. Dire “un attore belloccio” inteso nel senso inteso da Cannarsi è abbastanza comune nel mio micro-universo. Ancora, ci sono cose ben più gravi di cui lamentarsi, non avrei mai incluso una cosa simile in un’analisi che si limita a 5-6 esempi ad articolo.
IMPRECISIONE = C’è scritto che “l’unica cosa che hanno in comune Maldesi, De Leonardis e Valeri Manera è che tutti e tre avevano un metodo di lavoro molto, molto, molto chiaro e preciso” – beh, ODDIO, opinione del tutto azzardata. Comprensibile definire i loro approcci come “coerenti” oppure “riconoscibili”, ma definirli “metodi MOLTO, MOLTO chiari e precisi” è un’esagerazione da quintale. Erano metodi nebulosi, perché si basavano sulla nebulosità. Su tutti, Maldesi era un’ottimo artista, ma alla fine veramente si basava solo sul suo gusto, come gli girava… aveva un approccio da “regista teatrale” che poteva anche essere lunatico, non aveva un vero e proprio metodo. Ed era anche quest’adattabilità la sua forza.
Difficile trovare traduttori\dialoghisti (non di testi tecnici) con metodi inconfutabilmente coerenti e precisissimi, ma è ancor più difficile trovarlo in chi si fa semplicemente “ispirare”.
OPINIONE PERSONALE = “Le auguro un buon giorno! – Signori, fate il vostro pasto. – Buon appetito!” – ancora, è pur vero che se il metodo di Cannarsi fosse coerente al 100% e andasse fino in fondo “Itadakimasu” potrebbe diventare “ricevo”, ma il fatto è proprio questo: Cannarsi non va fino in fondo nel suo metodo e LO SA. Per questo il suo metodo può essere considerato stupido, perché è comunque un metodo ibrido al pari di quello di qualsiasi altro dialoghista (che lui contesta). È contestabile che lui attribuisca tanta importanza al suo metodo e sminuisca altri buoni lavori non meno coerenti, questo sì. Di fatto, l’adattamento da lui messo in atto in quelle 3 frasi non è comunque scorretto. È una tra tante possibili valide soluzioni quindi, di nuovo, di tutte le cose che si potevano prendere in esame, queste sono assolutamente innocue.
OPINIONE PERSONALE – “Longherone”. Nonostante la parola “Keta” sia un termine più generico indicante qualunque tipo di “trave”, nei manuali tecnici così è riportato. I giapponesi per riferirsi al longherone dicono “Keta” e il personaggio che pronuncia il termine non è un tizio qualunque, ma un esperto di aeronautica. Sarebbero andate bene entrambe le traduzioni. Quindi qui non riesco seriamente a capire quale dovrebbe essere il problema. Forse la forma desueta “Lungarone”? Comunque l’ambientazione è nei primi ‘900.
INESATTEZZA – Negli articoli è scritto: “In 21 anni il modo di adattare richiesto dalla Disney all’adattatore italiano pare essere cambiato radicalmente” – ma perché proporre illazioni simili? Lorena Brancucci fa tutto di testa sua, non c’è nessuna regola o esigenza del committente che sia mai mutata, semplicemente si fidano. Negli anni ’90 c’erano Ernesto e Centonze. I Brancucci ora hanno persino aperto una scuola di “musical nei film” e il metodo che propongono è uno solo. Lorena è convinta di utilizzare lo stesso metodo del padre, ed infatti utilizza lo stesso metodo… le differenze stanno nella creatività e nelle finezze (Lorena è riluttante ad usare il troncamento di vocale, ad esempio, ma non è che sia una regola).
ESAGERAZIONE – Come si fa ad analizzare la rigidità di un metodo applicata ai testi delle canzoni? Le canzoni sono e saranno sempre frutto di circoscritti momenti dati da un’ispirazione provvisoria in cui la metrica è un’ostacolo insormontabile, qualsiasi ragionamento analitico non potrà mai portare alla “Soluzione corretta”: è più semplice giocare una partita a scacchi perfetta. Cannarsi tenta di applicarvici ovviamente il suo metodo ma, ne va da sé, non può rispettarlo alla lettera. Perché è semplicemente impossibile. Si dà per scontato che non se ne renda conto… ma dubito fortemente che Cannarsi definisca i suoi adattamenti delle canzoni come “La Traduzione definitiva”; semplicemente tenta di essere rispettoso dell’originale. Ovviamente è perfettamente comprensibile se non piace, dal momento che lo scopo delle canzoni è quello di… “suonare bene”. (Bene a chi? A quanti?) Comunque Gualtiero Cannarsi scrive: “l’adattamento definitivo non esiste mai, non si può neppure pensare – di nulla, figurarsi delle canzoni.”
Ci sono altre imprecisioni: riscorrendo gli articoli, queste sono quelle che mi sono saltate all’occhio (alcune le avevo già scritte su AnimeClick).
Gli articoli mostrano anche moltissimi punti condivisibili e molte critiche fondate, ma generalmente potevano essere presi in esame strafalcioni grossolani nel suo lavoro, o dal risultato decisamente discutibile a prescindere dal metodo utilizzato; invece ci si è concentrati sul mettere in mostra l’incoerenza in Cannarsi (presunta, ma in parte consapevole) puntando le dita su alcune soluzioni di adattamento che, onestamente, sono validissime alla luce del risultato.
Inoltre una critica perde di credibilità (agli occhi di chi è attaccato) quando sono presenti facilonerie o negligenze, e il fatto che negli articoli ci siano delle frecciatine e delle battutine rende comprensibile il perché Cannarsi non percepisca gli articoli come costruttivi.
Le obiezioni che poni mi sembrano, in tutta sincerità, tutte ricadere nella categoria “opinione personale” e alle cosiddette “imprecisioni” rispondi con delle opinioni (legittimissime per carità) che non offrono nessun contenuto verificabile. Per dire: io un articolo scritto così lo boccerei.
Ah, mancano ancora i cosiddetti “dati non verificabili” di cui parlavi a cui dovresti aggiungermi, a questo punto le “facilonerie e negligenze”.
Scusami sai, ma per come hai impostato il discorso finora, sembra di trovarsi di fronte a un altro di quei “commentatori per conto terzi” che hanno affollato questa serie di articoli.
Ciao, grazie del commento. Ci ho messo un giorno per decidermi a rispondere perché l’ho letto e riletto pensando a come fosse meglio fare: risponderti punto per punto oppure dirti semplicemente di rileggere gli articoli perché tutte, dico tutte le risposte alle tue contestazioni sono già presenti negli articoli. Potrei rispondere copiando incollando pezzi degli articoli, giuro.
Nonostante ciò, alla fine ho scelto di risponderti punto per punto nella speranza di esser quanto più esaustivo.
ANIMECLICK – Quando scrivi «suo post in cui ha invitato “chiunque abbia da ridire a farlo qui”» intendi “suo” di mio, cioè mi stai dando del lei? Perché se è così, no, non ho postato io quel commento. Come potrai vedere coi tuoi occhi scorrendo questi commenti, qui sopra c’è il testo originale datato 13 gennaio ore 16:38 giapponesi, 8:38 italiane. Cortesemente non attribuirmi parole che non ho scritto. Inoltre l’invito a commentare c’è in tutti gli articoli, fin dall’inizio, scritto nero su bianco nel disclaimer che spero non sia stato saltato sempre a pie’ pari.
LA BATTUTA DI HODOR – Esattamente dove scrivo che è un «esempio di un buon adattamento»? Forse perché ho scritto la parola «Funziona»? C’è scritto «Funziona» perché, come argomento nelle righe appena precedenti, la battuta svolge la sua funzione di fornire le vocali e consonanti adeguate al caso. Non ho scritto né “bella”, né “perfetta”, né “ottima soluzione” né qualunque altro complimento positivo o negativo. Cortesemente non attribuirmi parole che non ho scritto. Tantomeno la battuta è stata presa come «esempio» o come «premessa»: sto solo introducendo il discorso adattamento parlando di un caso che è diventato famoso, esattamente come ho scritto. Quanto a «qualsiasi dialoghista si fosse trovato in quella situazione, Cannarsi compreso, si sarebbe comportato più o meno allo stesso modo»: e chi lo nega? Hai letto forse “ah, chissà che avrebbe fatto Cannarsi!” o cose del genere? C’è un pur minimo, sottile riferimento a lui?
IL METODO DEL TABELLONE – Lui, non io, lui ha annunciato scandendo parola per parola che usa il metodo del tabellone. Ho riportato le sue parole esatte. Avrebbe potuto dire “Nei limiti del possibile cerco di rispettare le ricorrenze”, e invece no, è stato oltremodo drastico. Poi nella realtà dei fatti non lo fa e/o sui forum scrive che è solo una linea guida e non un metodo rigido? Peggio ancora, perché come ho scritto letteralmente decine di volte in tutti gli articoli, se almeno avesse avuto un metodo chiaro e netto sarebbe stato inappellabile. E invece no: il punto è proprio questo, la chiamiamola duttilità del suo metodo, una volta fa una cosa e una volta un’altra e poi nelle interviste ne dichiara una terza. Quanto al tuo esempio del Mikado: ah, cambiare nome serve «per migliorare la comprensibilità nel pubblico»? Credi davvero che chiamare un personaggio prima con un nome e poi con un altro lo renderebbe più comprensibile al pubblico? Ipotizziamo che fosse stato usata sempre la parola “Mikado”: magari non tutti capivano cosa fosse, ma dalla trama avrebbero comunque capito che era una qualche roba nobiliare; se invece fosse stata usata sempre la parola “Imperatore”, tutti avrebbero capito fin dall’inizio. Così invece il personaggio prima viene chimato in un modo e poi nell’altro: a che serve? A far sapere al pubblico che in giapponese “Imperatore” si dice “Mikado”? Anche fosse, e ora che lo so cosa mi cambia? Cosa fisicamente la cosa apporta al film? Nulla, solo confusione. Immagina se in un film di James Bond la regina venisse chiamata a volte “regina” e a volte “queen”, così, giusto per far sapere allo spettatore che in inglese “regina” si dice “queen”: grazie dell’informazione, ma nell’economia del film a che serve? Ripeto la domanda: nell’economia del film a che serve?
LA REGOLA DEL GIOCO – La regola dell’adattamento c’è eccome: «processo per cui il corpo fonico della parola straniera viene adattato alle possibilità fonologiche della lingua ricevente, mediante la sostituzione dei fonemi stranieri con fonemi il più possibile simili nella loro sostanza fonetica». Quindi: parole quanto più simili nel rispetto delle possibilità della lingua di destinazione. Come questo intero ciclo di articoli ha dimostrato con troppi esempi per essere citati, Cannarsi non è fedele al giapponese e non è fedele nemmeno all’italiano, argomento che NON è stato trattato (e anzi è stato difeso, articolo 4: «Da anni Cannarsi viene ingiustamente contestato per via della forma del suo italiano»), perché come dice lui nei suoi adattamenti i personaggi «non parlano italiano, ma IN italiano» cioè usando termini italiani, ma cercando di essere più rispettosi verso la lingua di partenza che verso la lingua di arrivo. Gli altri adattatori potranno essere stati irrispettosi della lingua di partenza, ma almeno erano rispettosi della lingua di arrivo: Cananrsi è irrispettoso sia della lingua di partenza sia di quella di arrivo. Questa è la negazione dell’adattamento.
IL GUSTO DEGLI ALTRI – «L’asserzione sul fatto che il lavoro di Cannarsi sia una “riscrittura”: sì, lo è, ma vale per tutti i dialoghi di tutti i film». L’ho negato? Anzi, non ho forse scritto tre interi paragrafi nel quarto articolo proprio per illustrare che ogni adattatore riscrive in maniera più o meno profonda? Comunque io non generalizzerei a tutti i film: dipende.
LA PIZZA – Quella della pizza era evidentemente una battuta, dato che tutte le parole musicali o gastronomiche sono le stesse per ovvi motivi. Quanto agli esempi: no, non puoi dire che tot parole hanno un solo significato e poi non dire qual è, devi prenderti la responsabilità di quello che dici. Ad esempio, il mio dizionario elettronico (ridotto, quindi su quello cartaceo troverei ancora più riferimenti) attribuisce alle seguenti parole:
• onna: 7 significati
• haha: 3 significati
• jiji: 6 significati (ed era una delle parole spiegate per Principessa Mononoke nella sua variante jii)
• kachou: 12 significati
• danchou: 3 significati + uno che non è sul vocabolario, ma conosco io perché è slang della yakuza
• kuro: 5 significati come nome e almeno 14 come aggettivo
• demo: tre funzioni (congiunzione, particella e prefisso) e almeno 7 significati
• nai: se ti riferisci al verbo almeno 5 significati, se ti riferisci ai sostantivi almeno 7 significati
• saa: almeno 4 significati più tutti quelli che gli si possono dare nel linguaggio parlato
E mi fermo qui.
Poi: una battuta può «stizzire Cannarsi e demotivarlo ad un dialogo costruttivo»? Una battuta sulla pizza fra l’altro, quindi non su di lui? Non siamo alle scuole elementari, eh.
LA LETTERA – Nell’articolo scrivo: «ci si chiede come sia possibile che 46 sconosciuti qualunque siano riusciti a convincere Andrea Occhipinti a togliere il lavoro a un adattatore professionista che era già stato scelto». Quindi non scrivo che Cannarsi è stato assunto grazie alla lettera, ma che la lettera è stata influente, ha convinto appunto, Occhipinti. Cortesemente non attribuirmi parole che non ho scritto. Nessuno nega che Cannarsi abbia già lavorato per Dynamic, Shin Vision, Buena Vista e tutto il resto, c’è scritto solo che Occhipinti è stato convinto dalla lettera, non che abbia deciso per via della lettera. Non è la stessa cosa. Occhipinti stesso ha scritto: «grazie per il suggerimento, faremo del nostro meglio». Lo dice lui, non io. Il verbo “convincere” ti sembra troppo forte? Preferisci “influenzare”, “persuadere”, “condizionare”, “influire”, “suggestionare”? C’è solo l’imbarazzo della scelta, fammi sapere quale preferisci.
I BEI VECCHI TEMPI – Onestamente non so più quante volte l’ho scritto, ma sono disponibile a ripeterlo all’infinito se necessario: questi articoli parlano di adattamento, non di Cannarsi. È la prima frase di tutti gli articoli, nel disclaimer. Il fatto che Cannarsi su AnimeClick continui imperterrito a scrivere da settimane che lui è «l’oggetto dello scritto» è un tentativo deliberato di distogliere l’attenzione dai contenuti dell’articolo per attrarla su sé stesso e dipingersi come una povera vittima. Dato che questi articoli parlano di adattamento, ho citato (e anche questo lo scrivo esplicitamente nel terzo articolo) quatto + uno esempi tratti esplicitamente da periodi diversi per analizzare i metodi di lavoro. C’è scritto. Come ha dichiarato su AnimeClick, oggi Cannarsi non risceglierebbe la parola “trono”? Ottimo, meglio, ma a me interessava mostrare dei metodi di adattamento, non offendere né tantomeno cristallizzare Cannarsi e il suo pensiero. Peraltro dall’articolo si nota appunto che ha cambiato spesso opinione, quindi nessuno lo condanna su niente. Infine, notare che dei quattro + uno esempi, due sono a suo sfavore e tre sono a suo favore, di cui uno neutro, ma di cui comunque riconosco apertamente la bontà. Cosa dovevo fare di più? Il mio scopo non è “demolire Cannarsi” o “far passare una brutta immagine di Cannarsi”, a me di lui non interessa nulla: questi articoli parlano di adattamento, punto.
PULZELLA… – «Il discorso su “pulzella” è condisivibile oppure no, ma si tratta di gusti e percezioni personalissimi». Assolutamente no, no, no nella maniera più assoluta. Devo copiare/incollare sia l’intero paragrafo sul secondo articolo sia l’ulteriore specifica che ho scritto sul quarto? “Pulzella” indica solo verginità, non indica affatto l’età: si può essere pulzelle anche a 90 anni, se vergini. Otome invece indica esplicitamente l’età e solo in un secondo momento indica la verginità, o meglio indicava perché oggi io personalmente lo sento usare da persone che non hanno alcuna sicurezza della situazione fisica della ragazza a cui si riferiscono. Una parola che indica inequivocabilmente una ragazza vergine c’è, è 生娘 kimusume: l’unica volta che l’ho usata in pubblico per indicare delle ragazzine di 12 anni sono stato ripreso esplicitamente e mi è stato fortemente sconsigliato di usarla perché è troppo specifica e non si può usare se non si ha la certezza della verginità delle ragazze. Otome invece è una parola che si usa tutti i giorni per indicare le ragazze, non ha nessun significato pruriginoso e chi vede anime sottotitolati l’avrà anche sentita spesso. Credo francamente di aver già scritto più che a sufficienza su questo tema, per maggiori dettagli ti consiglio di andare a rileggere le parti interessate negli articoli 2 e 4.
…E BELLOCCIO – «Dire “un attore belloccio” inteso nel senso inteso da Cannarsi è abbastanza comune nel mio micro-universo». Nel TUO microuniverso. Nel macrouniverso della Treccani invece no: chi ha ragione?
I METODI – Maldesi lavorava con i suoi gusti personali, mai negato, anzi ho scritto esplicitamente «Maldesi cambiava le battute», non adattava: cambiava! L’ho scritto, eh. Era proprio questo il suo metodo: adattarsi alla situazione senza alcun preconcetto, e lui lo diceva apertamente. Non mi pare di aver scritto da nessuna parte niente di simile a «con metodi inconfutabilmente coerenti e precisissimi», io ho parlato di metodi di cambio artistico, visivo e di target, che erano, senza alcuna minima pretesa di giudizio, dei metodi che i tre adattatori citati usavano in maniera quanto più coerente possibile per sensibilità personale o per richieste aziendali o altro. Cannarsi invece che metodo usa? La soggettività? Ottimo, andrebbe benissimo se poi non predicasse oggettività (parola sua, non mia).
LA COLAZIONE – «Cannarsi non va fino in fondo nel suo metodo e LO SA»: ma chi l’ha negato? Quando? Non l’ho nemmeno commentato il suo metodo, dico solo che dice una cosa e ne fa un’altra. Poi: «È una tra tante possibili valide soluzioni quindi, di nuovo, di tutte le cose che si potevano prendere in esame, queste sono assolutamente innocue»: premesso che non lo sono affatto, ci sono tre interi paragrafi a dimostrarlo, ma comunque sentiamo, dimmene qualcuna di queste “soluzioni non innocue”.
LONGHERONE – A questo punto mi chiedo davvero se hai letto l’articolo. Non scherzo. Copio/incollo: «Segue dettagliata descrizione su come e perché abbia poi scelto di esplicitare il plurale e di usare una variante lessicale di primo Novecento. Ora, il processo di ricerca illustrato da Cannarsi è assolutamente corretto, non c’è alcun dubbio, ma d’altronde essendo lui l’adattatore e non il traduttore, la ricerca del termine più appropriato non è esattamente il suo lavoro per il quale è pagato e per il quale impiega il suo tempo?» Quindi riconosco e plaudo la sua scelta storica di “longarone”, quello che mi lascia basito è 1) il fatto che se ne vanti quando è proprio il suo mesterie, come se un chirurgo si vantasse di aver distinto una vena da un’altra, beh, riconocere le parti del corpo sarebbe proprio l’ABC del suo mestiere come fare ricerche lessicali sarebbe proprio l’ABC del dialoghista e soprattutto 2) il modo spudoratamente falso con cui annuncia che 桁 keta è una parola «che [non] signific[a] schiettamente “longherone”. Anzi, nessun dizionario né giapponese-italiano, né giapponese-inglese e neppure giapponese monolingua ne riporta quell’accezione: è troppo tecnica» quando invece è su tutti i dizionari standard, sia monolingua come riporto sull’articolo 4, sia ITA-JAP (ecco la prova), sia ENG-JAP (ecco la prova), nonché sui dizionari visuali (eccone uno generalista ed eccone un altro specifico tratto da un’enciclopedia visuale per ragazzi). Ritorniamo al solito discorso: le sue dichiarazioni. Perché deve costantemente dire una cosa per un’altra, ingigantendo quello che non è gigante o addirittura raccontando assolute menzogne smentibili con una semplice visita in biblioteca? Questo è irrispettoso nei confronti dello spettatore in una maniera indecente, perché non sta dicendo il vero e probabilmente ne è consapevole.
DISNEY – Questa è la parte del commento che più mi ha lasciato di stucco, come pure mi aveva lasciato di stucco quando ho letto la stessa osservazione dall’utente Saibankan (sei tu?) su AnimeClick. La Disney, la più grande multinazionale mondiale dell’intrattenimento, che SI FIDA dei suoi collaboratori??? Per esportare all’estero un prodotto come Frozen nel quale ha investito 150 milioni di dollari più svariate altre decine di milioni per la promozione??? Quella stessa azienda accusata di eccessiva gerarchizzazione piramidale e di omologazione culturale mondiale, non verifica che le traduzioni/adattamenti siano omogenee alla sua immagine??? Come ti può minimamente venire in mente questa cosa? Hai mai lavorato in un’azienda qualunque? Io lavoro per un’azienda che ha un pubblico molte migliaia di volte più piccolo di quello planetario della Disney, con incassi insignificanti rispetto ai suoi miliardi, eppure ogni singola volta che mi capita di tradurre dal giapponese all’inglese un cartello con su scritto anche solo “Vietato fumare”, devo riconsegnare indietro la ritraduzione in giapponese che viene letta e approvata da non meno di tre persone sopra di me. Ho avuto modo di parlare con una persona che lavora alla Nintendo, la quale mi ha garantito che non solo il prodotto finito (il videogioco), ma anche i post sul blog ufficiale vengono controllari e contro-controllati da numerose persone. Giusto per scrupolo però proprio ieri ho contattato Nunziante Valoroso, adattatore per la Disney soprattutto nel settore spettacoli live e videogiochi, che mi ha confermato che l’azienda vuole indietro le ritraduzioni in inglese degli adattamenti in italiano per verificarle ed eventualmente modificarle, rimandarle all’adattatore che poi le rimanda all’azienda, e il giro continua finché l’azienda non è soddisfatta. Quanto ai testi delle canzoni, Valoroso mi ha detto che l’azienda si è complimentata espicitamente con Lorena Brancucci per il suo lavoro. Ora, dato che l’azienda Disney controlla e dirige eccome i suoi collaboratori, e dato che il metodo di lavoro della Brancucci figlia è molto diverso dal metodo di Brancucci padre, si può secondo te arrivare per deduzione logica alla conclusione che è l’azienda stessa che nel tempo ha cambiato stile (o per sua scelta esplicita oppure perché approva uno stile nuovo diverso da quello precedente)? Attendo una risposta.
LE CANZONI – Le canzoni devono suonare bene almeno almeno almeno alla metrica, e quelle di Cannarsi non rispettano la metrica. Punto. Se almeno rispettassero la metrica, poi potremmo cominciare a parlare di target, vocabolario, rime eccetera, ma se manca la base è inutile.
Sto inoltre aspettando con fiducia critiche e smentite fattuali ai dati esposti, perché finché non arrivano mi posso sentire libero di dire che Cannarsi prende in giro il suo pubblico.
Per esempio le questioni circa l’assunzione di Cannarsi sono, con i dati di dominio pubblico, non verificabili.
Se ritieni che le obiezioni alle imprecisioni da me sottolineate ricadano nel “non verificabile” (critica che ci può stare)… lo stesso vale per molte delle obiezioni espresse in questo articolo. C’è troppo soggettivismo nelle soluzioni di adattamento contestate. (Così come c’è soggettivismo nelle scelte di Cannarsi)
Dimenticavo:
INESATTEZZA: Nel primo articolo viene contestato a Cannarsi l’uso di “intentare”… è corretto il modo in cui lo usa (sì, “intentare” è sinonimo di “intraprendere”), semplicemente è desueto. Anche l’uso della “D” eufonica, non è necessariamente intervocalico: prende origine nelle consonanti finali delle basi latine et (da cui l’italiano e), ad (italiano a) e aut (italiano o), come recita il Treccani “Nell’USO CONTEMPORANEO, sia scritto che parlato, la d eufonica si inserisce IN GENERE solo quando le due vocali sono identiche:” ma non è una regola fissa, nell’italiano desueto veniva abusata. Sussistono ancora termini come “Ad esempio” in cui è tutt’ora utilizzata. Quindi queste sono negligenze d’analisi, nell’articolo, che sarebbe stato meglio evitare.
Quindi un (1) “dato non verificabile”, non plurale. E per quanto ho letto mi pare estremamente dettagliato e argomentato.
P.S. La D eufonica ti verrà cancellata (con la proverbiale matita rossa) da qualunque sito/giornale/saggio che adotti un serio processo di revisione. Parlo per esperienza personale e professionale.
Scusami, mi ero perso questo commento. Rispondo subito.
LA LETTERA 2 – Ripeto che ho solo riportato il mero dato oggettivo. Non c’è scritto “È uno scandalo che Cannarsi sia stato assunto così!” né “Ecco l’Italia!” né “Boicottiamo Lucky Red!” né niente di niente. Non ho invitato alla rivolta, non ho urlato a Cannarsi di mostrare il curriculum, non ho scritto una parola che è una per contestare l’avvenuto, né tantomeno ignoro le precedenti aziende per cui ha lavorato Cannarsi. Io ho scritto che il tutto è PARTITO da una lettera che ha fatto il nome di Cannarsi a Occhipinti, poi immagino le cose siano andate in maniera perfettamente legale, ci mancherebbe e non mi sogno nemmeno di contestare questo. Ma ho il diritto di raccontare fatti pubblici o no?
SOGGETTIVISMO – «C’è troppo soggettivismo nelle soluzioni di adattamento contestate». Esponi esempi concreti per favore.
GRAMMATICA 1 – Allora, in cinque articoli il commento alla lettera è l’unico in cui esprimo dubbi sulla qualità dell’italiano di Cannarsi, che NON analizzo nel dettaglio e su cui poi NON torno affatto quando si entra nell’argomento vero e proprio. Nello specifico, su “intentare”: vuol dire “fare causa”, nient’altro. Certo, nell’uso letterario antico significava “intraprendere” (nemmeno “iniziare”, eh: “intraprendere”), ma siamo nel XXI secolo e solo Cannarsi usa quel termine così. Potresti replicare: come ti permetti di vietare a qualcuno di usare una parola! Non lo faccio, ci mancherebbe, dico però che se nel codice comunicativo dell’italiano contemporaneo ci sono 59’999’999 persone che usano “intentare” solo per dire “fare causa” e solo una persona la usa col suo significato antico per un suo vezzo personale, allora forse quel significato lo vede ormai solo lui. Prego, usasse pure “intentare”, ma in un discorso a) in prosa b) nel XXI secolo c) ad altre persone che usano quel termine in maniera diversa, allora credo francamente che sia fuori luogo. Bisogna prenderne atto, termini che un tempo significavano una cosa oggi ne significano un’altra, quindi o si parla INTERAMENTE come 500 anni fa, e quindi quelle parole in contesto sono giuste, oppure inserire qua e là singole parole di 500 anni fa in un discorso in italiano del XXI secolo le rende fuori contesto e, quindi, sbagliate. Chiedere a qualunque maestra d’italiano delle elementari per conferma.
GRAMMATICA 2 – La D eufonica fra vocali diverse è un errore che viene tollerato (per ora, almeno) solo perché ha una spiegabile origine latina. Ci sono dei casi ormai completamente assorbiti, tipo “ad esempio” che io stesso uso, ma nondimeno in generale è un errore. Anche il pronome “sé” con l’accento è ormai stato completamente non solo accettato, ma anzi è ormai considerato sbagliato non metterlo, perché la lingua evolve. «[La D eufonica] nell’italiano desueto veniva abusata»: hai fatto bene a usare l’imperfetto.
Quindi: 5 articoli, 35’468 parole, 251’637 caratteri, centinaia di link ad altrettante fonti, una quantità enorme di esempi specifici che vengono smontati puntualmente… e tutto quello che hai da contestare sono il mio stile di scrittura, “intentare”, la D eufonica e la battuta sulla pizza? Resto in attesa delle vere critiche (se ci sono) e soprattutto delle smentite fattuali, dati alla mano, delle cose che ho scritto.
ANIMECLICK – Sì, le stavo dando del lei. Se vuoi ti do del tu. Ovviamente parlando dell’invito ad esporre opinioni e confutazioni mi riferivo alla descrizione a inizio pagina, erroneamente mi era parso fosse solo in quest’ultimo articolo. Sono stato ANCHE reindirizzato dal tuo testo copia-incollato da un’altra persona su AnimeClick, ma questa è un’altra cosa.
BATTUTA DI HODOR – Magari leggo troppe cose tra le righe; io dico solo questo, poi decidi tu giustamente se valutare la mia considerazione o cestinarla: un articolo che inizia con quella premessa io non continuerei a leggerlo. Prendere un adattamento di difficile soluzione e dal discutibile risultato a cui tutti i dialoghisti sarebbero costretti a comportarsi nello stesso modo per iniziare a spiegare quale approccio richieda l’adattamento mi sembra sbagliato. È facile leggere tra le righe che, se è stata usata come premessa, l’autore dell’articolo lo consideri un risultato emblematico e significativo. Potrai dire “Esatto, proprio perché tutti sono costretti a comportarsi così spiega cos’è l’adattamento.” No – spiega solo che in certi casi il doppiaggio ha le mani legate e le legherebbe pure a Cannarsi. Ma gli errori e le cose contestabili di Cannarsi non riguardano i casi in cui ha le mani legate, bensì quando può andare a briglia sciolta.
METODO DEL TABELLONE – Se hai già discusso con Cannarsi a tu per tu ti renderesti conto che calca la mano su quel concetto solo per far metabolizzare l’idea in quegli interlocutori che sono generalmente del parere diametralmente opposto al suo (in internet si parla con sconosciuti con cui è bene essere brutali ed estremi per dare un’idea delle premesse, altrimenti ci si perde in fraintendimenti). Il suo metodo, se usato nel modo giusto (il “giusto” è relativo, ma ok), funzionerebbe. Comunque sì, il problema è sicuramente che a volte è troppo rigido laddove non dovrebbe esserlo, l’errore che io stesso gli attribuisco è di non saper dosare con moderazione la rigidità e la flessibilità. Per quanto riguarda il Mikado: sì, quello stratagemma funziona alla perfezione, è largamente rodato, lo usano molti adattatori e grazie a dio per una volta si è messo al servizio del pubblico. Il modo in cui ti approcci verso questo stratagemma è quanto di più sbagliato ci possa essere nell’analisi di un doppiaggio (è un parere mio ovviamente). Dall’altro lato, se la tua percezione è inevitabilmente negativa io non sono nessuno per negartelo.
LA REGOLA DEL GIOCO – Hai mai provato a fare un adattamento di un testo a scopo labiale? Sono d’accordo sul peccato di Cannarsi: col suo metodo ottiene un risultato né carne-né pesce di difficile equilibrio, ma sul serio mettersi a parlare del “Regolamento dei dialoghisti” è inopportuno. Le regole dei dialoghisti sono solo tecniche (labiali palatali, bilabiali, ecc. vocali aperte e chiuse; accentazioni di frase; lunghe e corte, ecc.) il resto è pura convenzione al massimo definibile come “tradizione”.
IL GUSTO DEGLI ALTRI – Potrei aver letto male tra le righe, ma il tuo tono negli articoli, e anche ora che mi rispondi, è troppo caldo e lascia trasparire frecciatine. Usa ancora questa mia asserzione come preferisci oppure cestinala, ma se ti lasci trasportare è normale che le tue analisi possano ricadere nella “contestazione polemica” e poi si sviluppino nel “litigio”, se quello che cerchi è il dialogo.
PIZZA – Hai capito sicuramente quello che volevo dire, non c’è bisogno di ricorrere allo stratagemma del “pelo nell’uovo”. “onna=donna” “haha=mamma” ecc. intendevo semplicemente che il giapponese ha varie assonanze con l’italiano. Non vedo il senso di fare la battuta sulla pizza se non per lo stesso motivo del punto precedente (frecciatine -> litigio). So che rendono gli articoli più accattivanti e godibili, ma non stimolano al dialogo (mia opinione).
LA LETTERA – Stai quindi dicendo che quelle firme includenti addirittura lo 0.00007% della popolazione italiana possano aver avuto anche solo la benché minima influenza nella sua assunzione? È una deduzione quanto mai… ehm… esagerata? Mi stupisco ogni volta che qualcuno crede al valore di una petizione, ma in questo determinato caso è assurdo, la risposta di Occhipinti è pura formalità di convenzione. Penso non si possa esitare nell’affermare con un certo grado di certezza (benché fino a prova contraria sarà sempre un dato non verificabile) che la decisione di assumere Cannarsi fosse già a monte, qualunque siano le motivazioni (stima, raccomandazione, ecc.) – Certo, anche qui si può parlare di opinioni personali, ed è per questo che espongo la mia perplessità.
I BEI VECCHI TEMPI – No, tu hai scritto “Cannarsi era già Cannarsi fin dai tempi di Neon Genesis Evangelion, in cui però l’inesperienza e il lavoro in staff probabilmente limitarono le sue possibilità” (@AndreaGagliardi: NON VERIFICABILE) e non fai riferimento al fatto che abbia sviluppato il suo metodo più tardi nel tempo. Converrai che non ha il benché minimo senso analizzare il suo metodo quando il suo metodo non esisteva. Stando ai dati di dominio pubblico e a ciò che mostrano i fatti, a quei tempi Cannarsi era un normalissimo dialoghista come tutti gli altri, e giustappunto nessuno si è mai lamentato particolarmente di Evangelion. Tu invece l’hai proprio condannato, ripetutamente, accusandolo di “incoerenza” a pié sospinto. Sì, è incoerente… ma non per i motivi esposti nell’analisi dei suoi primi lavori. Altra mia opinione che potrai analizzare o cestinare: questi articoli danno proprio l’idea che l’obiettivo sia demolire Cannarsi, ritengo tu abbia sbagliato a formularli. Se l’articolo si chiama “GUALTIERO CANNARSI: NEL DI LUI CASO” e non analizza la validità degli adattamenti dei film Ghibili, bensì utilizza esempi quasi esclusivamente per dimostrare che Gualtiero Cannarsi è incoerente… allora gli articoli non stanno parlando dell’adattamento dei film Ghibli, ma di Gualtiero Cannarsi.
PULZELLA – “Otome” può implicare anche la “Verginità”. Sì, le tue considerazioni sono senz’altro valide (alla luce specialmente della presunta rigidità di Cannarsi che avrebbe dovuto prevedere un rispetto etimologico più ferreo) ma poichè le fanciulle nominate sono giovani non-sposate mi sembra semplicemente un adattamento passabile (a prescindere dalle idee di Cannarsi) che poteva lasciar posto a cose più gravi. Chiaramente è una mia idea.
BELLOCCIO – I termini e le regole mutano a seconda di abitudini consolidate e dell’uso che ne fa la gente. Naturalmente, se il volere di Cannarsi è quello di attingere unicamente ai dizionari e all’etimologia, in questo caso sbaglierebbe e si è fatto influenzare dal suo micro-universo dando le cose per scontate. Ma la parola di per sé può essere utilizzata col significato inteso. Sono le persone a decidere le regole dei dizionari e a cambiarli, non i dizionari a decidere per le persone. È stata l’abitudine ad aver generato le parole desuete e arcaiche, ed è stata sempre l’abitudine a cambiare la regola della S sorda in “casa”; “cosa” o “inglese” che tutt’ora nei dizionari è riportata nel modo “superato”.
I METODI – Hai scritto che Maldesi, Manera e De Leonardis avevano un metodo MOLTO, MOLTO, MOLTO chiaro e preciso. Non lo era: era un’inclinazione.
Ma per loro fortuna non si sono mai messi a parlare di “regole metodiche” (un metodo molto chiaro e preciso implica necessariamente questo).
LA COLAZIONE – Ad esempio la frase della tomba per le lucciole “A dire che ti spiace tanto se poi verrai spazzata via dalle bombe non vorrò saperne” è probabilmente una (o la) peggior tipologia di frase in cui si possa incappare nei suoi testi, nonché emblematica di tutti i suoi “peccati” al pari del “Dio-Bestia”. Non capisco perché lasciarla in un trafiletto e non approfondirla, lo meritava più di qualsiasi altra frase. E in generale vengono prese in esame frasi passabilissime ma che hanno il “peccato” di essere incoerenti in base alle dichiarazioni di Cannarsi, quindi tutto l’articolo ruota sul dire “Vedi quanto sei incoerente, Cannarsi?” – anziché sul valutare la validità a sé stante delle soluzioni caso per caso. Oppure poteva essere presa (mia opinione) una qualunque delle mille frasi con passivanti arbitrari resi costanti, o con dislocazione che in originale non è una vera dislocazione (si trovano ovunque in qualunque suo film) e in generale elaborare il concetto secondo il quale la struttura italiana ha corrispondenze diverse nel paragone della struttura giapponese e l’abitudine di un popolo (che Cannarsi considera ingiustamente un parametro non valido poiché troppo soggettivo) muta il modo in cui una sentenza è percepita. A mio dire, volendo togliersi di torno determinate disquisizioni sulla cultura giapponese, poteva essere molto utile prendere in esame Porco Rosso, film ambientato in italia con personaggi italiani, maggiormente esente da determinate giustificazioni culturali dei singoli personaggi all’interno della storia, nonostante i personaggi, parlando giapponese ed essendo stati scritti da giapponesi, siano a loro volta giapponesi. Anche lì poteva essere, ad esempio, analizzata la distinzione linguistica dei pirati che si amalgama ingiustamente con tutto il resto, anche laddove non sono presenti parole astruse (a detta di Cannarsi ve ne sono, ritengo valesse la pena analizzare un aspetto di questo tipo anziché perdersi in “buongiorni” e “pulzelle”. Chiaramente sto esprimendo un mio gusto.)
LONGHERONE – 1) se ne vanta perché molti suoi colleghi purtroppo non sono così, non fanno ricerche e adattano a caso – 2) “Keta” non significa solamente longherone, tant’è che la sua traduttrice aveva scritto “trave”. È una parola che decontestualizzata può avere tanti significati, questo intende Cannarsi. Longherone, invece, no. MA giustamente da noi il “Keta” usato in questo contesto ha un nome più specifico che significa solamente quello, ed è “Longherone”. È molto accessibile venire incontro a dichiarazioni così semplici, non capisco perché ti ostini a metterci un muro come se avessi le antenne sempre ritte sui piedi di Cannarsi per percepire quando inciampa gridando “È inciampato!” anche quando sta semplicemente facendo una dubbia mossetta arzigogolata col piede.
DISNEY – Invece è così, la Disney (o meglio, i suoi supervisor) si fidano della Brancucci. Non ho mica scritto che il testo non viene controllato, ma scusa, come hai potuto pensare avessi potuto sottintendere una cosa simile? Il testo lo leggono, quindi se qualcosa non va bene possono dirlo e imporre il loro volere. Ma quel testo viene steso attualmente da Lorena Brancucci che tenta di applicare né più né meno il medesimo stile del padre e può fare (e fa) TUTTO quello che le pare. Ovviamente se scrive “cacca-culo” i supervisor lo leggono e le dicono “Scusa Lorena, ma cos’hai scritto?” – Ma non c’è la Disney che le viene a dire come fare il suo lavoro: “No, Lorena, su Let it Go cambia di volta in volta il ritornello con altre parole sempre diverse” – “No, Lorena, adesso il metodo è cambiato: aggiungi note a caso, non usare più i troncamenti di vocale.” (tra l’altro se non sbaglio in un’intervista Lorena stessa ammetteva di non amare i troncamenti) p.s. – Se i supervisor della Disney fossero rigidi ed esigenti, non approverebbero i suoi lavori.
Se noti un “metodo” vero e proprio di Lorena che sia diverso da quello del padre (@AndreaGagliardi: NON VERIFICABILE), sono molto curioso di sapere la tua opinione. Ai miei occhi le differenze sono solo queste:
1-Ernesto aveva inventiva ed ispirazione e riempiva i testi di parole singolari e molto ricercate al pari di un Franco Battiato – Lorena è per la maggior parte del tempo svogliata e semplicistica e se può finisce sempre le tronche con banalità (da sempre usate per la loro facilità d’utlizzo, ma mai così tanto) del tipo “Io lo so – sì, lo so – perché poi – io andrò – e verrò – ci sarà! – io son qua! – ecco un no! – sta con me!”
2-Ernesto se può tronca le vocali per rispettare la metrica – Lorena se può evita di troncare le vocali e preferisce cambiare la metrica.
3-Ernesto dava priorità alla musicalità piuttosto che al labiale – Lorena dà priorità al labiale piuttosto che alla musicalità.
4-Ernesto rispettava la metrica – Lorena raramente rispetta la metrica
5-Ernesto tentava di mantenere vivo il titolo in modo che fosse efficacie e riconoscibile – Lorena sacrifica spesso il titolo e la ripetitività dei ritornelli.
Tutto qui. Non vedo altro. Tutte le differenze sono solo una questione di bravura (Lorena sceglie la via comoda).
p.s. – (@AndreaGagliardi: NON VERIFICABILE) tuttora rimane incerto cosa ESATTAMENTE abbia adattato Ernesto, il quale si firmava col nome di famiglia ERMAVILO. Tuttora sono dell’idea che ai testi di Nightmare Before Crhstimas abbiano lavorato le figlie, visto che è nello stile di Lorena al 100%. In caso contrario significa che Ernesto, quando non c’aveva voglia, lavorava esattamente come Lorena.
LE CANZONI – Magra consolazione: almeno rispettano la metrica maggiormente rispetto ai lavori della Brancucci. Quello che dico è che, ancora una volta, hai preso ad esempio le canzoni solo per dimostrare l’incoerenza delle dichiarazioni di Cannarsi. Nelle canzoni se ne va sempre tutto in vacca e viene raffazzonato in base all’ispirazione del momento nei limiti della coerenza con l’originale, è impossibile e insensato valutarlo con gli stessi parametri di un adattamento parlato.
LETTERA 2 – Sì, ma negli argomenti presi in esame si leggono tra le righe delle intenzioni. Magari leggo male tra le righe (come ripeto, quella petizione sicuramente è un dato talmente ininfluente che poteva anche essere omesso). In ogni caso non penso che da quella lettera sia partito un bel nulla. Ma stiamo parlando di opinioni, per cui sorvoliamo.
SOGGETTIVISMO – Li ho fatti, probabilmente nel fervore non mi hai seguito: ad esempio è soggettivo che trovi inefficace il cambio Imperatore\Mikado, io (di mio) lo trovo funzionante. È soggettivo trovare scorrette le frasi del buongiorno della Collina dei Papaveri; Cannarsi ha aggiunto il “le auguro” (per esempio) per calcare la mano sulla formalità distinguendolo dalla forma senza “Gozaimasu” e anche per stare nel labiale, in modo senz’altro soggettivo, com’è giusto che sia (“eh ma Cannarsi dice di non voler essere soggettivo…” – Non ha importanza, se stiamo parlando della validità di un adattamento, questa validità prescinde la coerenza di un individuo). Il fatto che non piaccia il linguaggio aulico e arcaico di Cannarsi (ad esempio il suo uso desueto di “intentare”) è soggettivo, un linguaggio aulico può essere contestualizzato, in determinati casi l’ha utilizzato bene (e nella vita privata può fare quello che gli pare). “Pulzella” è contestabile per inveire contro la costante incoerenza di Cannarsi che va contro quello che si evince interpretando alla lettera le sue dichiarazioni, ma di per sé come termine è passabile, ha solo una sfumatura leggermente diversa rispetto a “Otome” ma è valido. È soggettivo parlare di “metodo dei dialoghisti”, perché è anche soggettivo il metodo che ogni dialoghista decide di applicare. È soggettivo trovare i metodi di Maldesi, Manera e De Leonardis molto chiari e precisi.
GRAMMATICA – Cannarsi usa “intentare” nel senso dell’italiano antico; finché è nel suo linguaggio privato, non vedo perché non possa farlo. Queste sono un sacco di lamentele soggettive. Se fosse mal contestualizzato in un film sarebbe un altro paio di maniche, ma nel privato ognuno fa quel che gli pare; se una persona utilizza parole sconosciute ai più non è un demerito (“Ah, uno così non può dialogare nulla!”) al contrario farebbe ben pensare (seppur non di certo sperare che sia una costante). Ma Cannarsi non parla mica come un medievale, usa solo termini desueti qui e lì. Stesso vale per la “D” eufonica tra vocali diverse.
CONCLUSIONE – Non sto difendendo Cannarsi: condivido molte critiche. Ho semplicemente espresso un feedback sugli articoli; l’ho sintetizzato, oltre che nel primo post, anche qui nelle parti I BEI VECCHI TEMPI e LA COLAZIONE: se volevi vincere un dibattito ideologico secondo il quale Cannarsi sarebbe soggettivissimo hai vinto in partenza… Cannarsi è soggettivo e ha molte incoerenze perché il suo metodo non può essere applicato rigidamente nell’ambito del dialoghismo. Gli articoli puntano per la maggiore sul dimostrare quanto Cannarsi sia incoerente, anziché valutare la validità delle soluzioni a sé stanti (bada: non sto dicendo che non siano stati analizzati anche alcuni casi per la loro effettiva validità). Con questo esprimo la mia opinione. Tutto qui.
«in internet si parla con sconosciuti con cui è bene essere brutali ed estremi per dare un’idea delle premesse, altrimenti ci si perde in fraintendimenti». Ottimo, ho deciso di seguire questa tua strategia, quindi basta indugi, basta commenti chilometrici, basta andare incontro al lettore: pane al pane e vino al vino.
ANIMECLICK – Ah quindi non hai letto i disclaimer o se li hai letti non li hai capiti. Non so cosa sia peggio. Argomento chiuso, non risponderò ulteriormente.
BATTUTA DI HODOR – «Magari leggo troppe cose tra le righe»: sì esatto. È tutto un parto della tua immaginazione. «È facile leggere tra le righe che, se è stata usata come premessa, l’autore dell’articolo lo consideri un risultato emblematico e significativo»: ma niente affatto, c’è scritto chiaramente che l’esempio è stato scelto perché «la questione ha accesso un rarissimo interesse per il mondo dell’adattamento italiano». Ti invito a leggere meno fra le righe e più le righe stesse. Argomento chiuso.
METODO DEL TABELLONE – «Se hai già discusso con Cannarsi a tu per tu ti renderesti conto che» eccetera: ma io non ci devo discutere affatto. Questi articoli non sono un’intervista, questi articoli non sono una biografia, questi articoli non sono un diario, questi articoli non sono un flusso di coscienza, questi articoli non sono un’interpretazione psicologica o filosofica degli adattamenti italiani dei film Studio Ghibli distribuiti da Lucky Red: questi articoli sono confronti fra i copioni giapponesi e i copioni italiani sulla base di prove tangibili. Se non ti è chiaro questo vuol dire che ci sono solo due spiegazioni, e spero scuserai la franchezza delle seguenti parole, ma è così: o sei in buona fede e semplicemente non hai capito il tema degli articoli, oppure sei in cattiva fede e stai continuando a spostare volontariamente l’attenzione su di me, sullo stile di scrittura, sulla grammatica italiana, sui messaggi fra le righe, sul codice d’onore che avrei dovuto avere nei riguardi dell’adattatore eccetera per depistare il vero tema degli articoli. Decidi quale delle due opzioni è quella corretta, posto che è per forza una di queste due. «Per quanto riguarda il Mikado: sì, quello stratagemma funziona alla perfezione»: secondo te. «È un parere mio ovviamente»: sì esatto e non aggiunge nulla di costruttivo alla discussione, dato che qua stiamo parlando di fatti.
LA REGOLA DEL GIOCO – «mettersi a parlare del “Regolamento dei dialoghisti” è inopportuno»: infatti ne parli solo tu, mai detta una cosa del genere, io ho citato la definizione di “adattamento”.
IL GUSTO DEGLI ALTRI – «Potrei aver letto male tra le righe»: sì esatto. Argomento chiuso.
PIZZA – «Hai capito sicuramente quello che volevo dire, non c’è bisogno di ricorrere allo stratagemma del “pelo nell’uovo”»: no guarda, le tue «fortissime assonanze o corrispondenze con l’italiano» sono solo parziali, a volte molto parziali. Esempio, on’na:
1) donna (essere umano)
2) femmina, sesso femminile
3) amante (illegale)
4) fidanzata (legale)
5) proprietaria (di negozio)
6) figlia
7) moglie
8) costellazione della Ragazza
Oh, sono 8, non 7, meglio ancora, e questo solo per restare nella pronuncia on’na dell’ideogramma 女, perché se usiamo le altre pronunce escono fuori altri significati. Ora, questo vuol dire che on’na non è che siccome significa principalmente “donna” allora in contesto può significare anche “proprietaria”: no no, significa proprio anche “proprietaria”, tipo 店の女 mise no on’na non è “la donna del negozio” o “la donna nel negozio”, no, è proprio “la proprietaria del negozio”. Ovviamente significa principalmente “donna”, ma non solo, non è così scontato. «[Le battute] rendono gli articoli più accattivanti e godibili, ma non stimolano al dialogo (mia opinione)»: sì, è una tua opinione. Argomento chiuso.
LA LETTERA – «Penso non si possa esitare nell’affermare con un certo grado di certezza (benché fino a prova contraria sarà sempre un dato non verificabile) che la decisione di assumere Cannarsi fosse già a monte»: talmente a monte che infatti prima della lettera avevano assunto un altro. Non sto dicendo e nemmeno penso che la Lucky Red abbia assunto sulla base della lettera, ma che la lettera li abbia in qualche modo influenzati nella decisione. L’italiano è una lingua chiara. Argomento chiuso.
I BEI VECCHI TEMPI – «Converrai che non ha il benché minimo senso analizzare il suo metodo quando il suo metodo non esisteva»: no, non convengo affatto. Esempio: se sto analizzando gli affreschi della Stanza della Segnatura di Raffaello, 1) non sto parlando di Raffaello, ma del suo lavoro, e nemmeno di tutto il lavoro, ma di una parte del suo lavoro che mi interessa analizzare per motivi di studio/lavoro/passione, inoltre 2) può capitare benissimo di trovare riferimenti al passato, ad esempio «Ne La scuola di Atene il personaggio tot è proprio in posa come l’angelo nella pala d’altare tot dipinta 10 anni prima, ne consegue che è possibile individuare una continuità nella mano del pittore», quindi altroché se è utile, anzi direi indispensabile analizzare il passato per capire meglio il presente. Spero di essere stato chiaro. Inoltre: qual è «il suo metodo»? Cinque articoli per dimostrare nero su bianco che vengono usati molti metodi contrastanti, e poi mi parli de «il suo metodo» al singolare? I dubbi sulla comprensione del testo aumentano. Argomento chiuso.
PULZELLA – «mi sembra semplicemente un adattamento passabile (a prescindere dalle idee di Cannarsi) che poteva lasciar posto a cose più gravi. Chiaramente è una mia idea»: sbagliata. «”Pulzella” ha solo una sfumatura leggermente diversa rispetto a “Otome” ma è valido»: no. Per l’ultima volta:
– PULZELLA: donna con l’imene intatto
– OTOME: donna sotto i 20 anni
La prima parola indica un dato anatomico, la seconda parola indica un dato cronologico. Non sono la stessa categoria, non sono la stessa cosa, non sono sinonimi, non sono interscambiabili. A ciò si aggiunge la succitata interpretazione personale dell’adattatore che abbina pretestuosamente la cultura Emishi con la cultura Yamato senza alcun senso se non trovare una inesistente giustificazione alla sua scelta lessicale: oltre al danno la beffa. Argomento chiuso.
BELLOCCIO – «la parola di per sé può essere utilizzata col significato inteso»: no. A parte per coloro che mal interpretano “belloccio” credendo significhi “bellissimo”, per tutti gli altri “belloccio” significa “così così, ma passabile”. Quindi l’adattatore ha messo in bocca al personaggio il concetto di «Mio padre era così così, ma passabile», in totale tradimento del testo originale. Argomento chiuso.
METODO – «per loro fortuna [gli altri adattatori] non si sono mai messi a parlare di “regole metodiche” (un metodo molto chiaro e preciso implica necessariamente questo)»: falso. La Valeri Manera ha espresso chiarissimamente le regole aziendali che seguiva. Inoltre, un metodo è il procedimento seguito nel perseguire uno scopo, nello svolgere una qualsiasi attività, secondo un ordine e un piano prestabiliti in vista del fine che s’intende raggiungere: nessuno nega di cambiarlo di film in film, nessuno dice che si debbano usare sempre le stesse regole. Nessuno tranne uno. Che poi le cambia pure le regole, ma (come ho già scritto mille volte) c’è un divario fra quello che fa e quello che dice, divario che gli altri adattatori citati non avevano affatto.
LA COLAZIONE – «Non capisco perché lasciarla in un trafiletto e non approfondirla, lo meritava più di qualsiasi altra frase»: ottimo, fallo tu allora, aspetto la tua analisi approfondita. Ti snellisco il lavoro fornendoti già adesso la battuta originale: そないなこというとって爆弾でぶっとばされてもしらんで Buon lavoro, aspetto il tuo resoconto tecnico, dato che di «A mio dire…» e di «Chiaramente sto esprimendo un mio gusto» ne ho già sentiti fin troppi. Sto aspettando contributi oggettivi e costruttivi al dialogo.
LONGHERONE – «se ne vanta perché molti suoi colleghi purtroppo non sono così, non fanno ricerche e adattano a caso»: 1) di quello che fanno gli altri non mi importa assolutamente niente, al massimo mi interessa il loro metodo di lavoro come ho scritto e riscritto mille volte, inoltre 2) il fatto che gli altri sbaglino non è in nessuna maniera un’attenuante e non può essere portata come scusa. Non ho già scritto che approvo la scelta di “longherone”? Stiamo ancora qua a parlarne? Sto aspettando contributi oggettivi e costruttivi al dialogo. «È molto accessibile venire incontro a dichiarazioni così semplici»: quali, quelle in cui l’adattatore mente spudoratamente a un pubblico che sa non può verificare le sue dichiarazioni? Sto aspettando un commento su questo, non sul “longherone”.
DISNEY – Mi dissocio da tutto. Mi chiedo con che diritto ti permetti di criticare in questa maniera e con questi toni la Brancucci, professionista stimata, di cui l’unica cosa negativa che ho scritto è che adatta senso-per-senso eradicando quello originale, ma nondimeno mettendone uno nuovo. Come se avessi fatto un discorso sulla sua tecnica, poi. Lei e suo padre adattano in maniera completamente diversa, se non te ne accorgi non ci posso fare niente. Argomento chiuso, e comunque non ci tornerei su dato che:
LE CANZONI – «Magra consolazione: [quelle italiane dei film Studio Ghibli] almeno rispettano la metrica maggiormente rispetto ai lavori della Brancucci». Mi stai prendendo in giro, non vedo altra spiegazione. Argomento chiuso.
SOGGETTIVISMO – «il cambio Imperatore\Mikado, io (di mio) lo trovo funzionante»: tu. «È soggettivo trovare scorrette le frasi del buongiorno della Collina dei Papaveri»: ma hai letto l’articolo? «Cannarsi ha aggiunto il “le auguro” (per esempio) per calcare la mano sulla formalità distinguendolo dalla forma senza “Gozaimasu”»: la forma in -masu è la forma standard, STARDARD, S T A N D A R D del parlato, la prima che si impara il primo giorno di corso di giapponese. Non usare il -masu corrisponde a usare l’infinito, cioè il verbo non coniugato, cioè una cosa che si fa sì e no con parenti e amici e basta, e solo se sono di età pari o inferiore al parlante. In tutti gli altri casi si usa il -masu, di default. Ci sono numerosi altri livelli di cortesia sopra il -masu, se già questo viene adattato con «le auguro un buon giorno» come se stessero parlando con la regina d’Inghilterra, come adattare gli altri? Le cause di questo adattamento sovracortese sono due: ignoranza in buona fede o esagerazione in mala fede. Scegli quella che preferisci, è per forza una di queste due. Se non la pensi così, argomenta con i fatti, non con le opinioni, grazie.
GRAMMATICA – «Cannarsi usa “intentare” nel senso dell’italiano antico; finché è nel suo linguaggio privato»: a casa sua è privato, su Internet è pubblico. Argomento chiuso.
CONCLUSIONE – «Con questo esprimo la mia opinione. Tutto qui»: ah, ok, ma io sto aspettando i fatti. No perché, sai, finché non mi smentisci nei fatti che, per esempio
– sangue Emishi si trova ancora oggi nella popolazione del nord del Giappone, figuriamoci 500 anni fa
– baka non ha affatto solo un significato
– choudai vuol dire “dammi”
– -san non è “signore”
– “inguaiare” è un termine di origine dialettale napoletana
– shishi non significa “bestia” e kami non significa “dio”
– il bangasa non è un «ombrellino»
– qualunque film di Miyazaki non presenta alcuna benché minima difficoltà linguistica per bambini di 12 anni
– usare “distese d’erba” per kusappara spezzando indebitamente a metà una parola unica è come se un giapponese traducesse “colabrodo” come “cola il brodo”
– spesso e volentieri le scelte lessicali si basano su interpretazioni totalmente personali non supportate da niente a parte la propria fervida immaginazione
dicevo, finché tu o altri non mi smentite nei fatti i succitati esempi, allora io potrei anche sentirmi in diritto di dichiarare che questi adattamenti sono pessimi tout court e che l’adattatore sta prendendo in giro da decenni tutti i suoi ascoltatori su internet, nelle fiere, nei corsi, e soprattutto al cinema. Ovviamente io non userei mai queste gravi parole senza una valida giustificazione, ma se nessuno smentisce, beh, forse la valida giustificazione c’è.
p.s. – Perché i post di Pasqualini sono ordinatissimi e bellissimi mentre i miei perdono addirittura l’interlinea verticale?
Ciao. Aldilà del merito della discussione e del fatto che eviti accuratamente di rispondere agli interrogativi scomodi, ti faccio presente che non è Mario a decidere quali commenti vanno o non vanno approvati ma sono solo ed esclusivamente io che passo il mio tempo libero a moderare le offese gratuite che certi fenomeni dell’anonimato da web si prodigano a indirizzare nei confronti del nostro collaboratore, per cui ti invito a non andare su altri siti a scrivere che Mario (o chi per lui) non si degna di risponderti.
Detto questo nessuno di noi è tenuto a dare ragione delle tempistiche di approvazioni dei post, soprattutto quando scritti da chi non ha il coraggio di metterci la faccia come invece fanno i nostri collaboratori.
Non ho mai scritto che Mario non si degna di rispondermi (cosa che, comunque, potrei fare se passassero 6 mesi di tempo, tuttalpiù). Il commento che hai letto l’ho scritto quando mi aveva già risposto. Su AnimeClick ho scritto che “non mi sembra incline al dialogo” e ho anche argomentato le ragioni… lì si parla bene o male degli stessi argomenti ed è stato tirato in ballo l’autore di questi articoli, ma riconosco che sopravanzare considerazioni diverse in sedi diverse non sia equo (Naturalmente, se dovessi dire qui che Pasqualini non mi sembra incline al dialogo, dovrei argomentare la considerazione in una parentesi differente, e preferisco avanzare considerazioni a tempo debito). Non mi sembra un’offesa gratuita, altrimenti anch’io potrei trovare offensivo che mi si dica di parlare senza conoscere le cose.
Allo stesso modo non ero polemico circa il layout dei miei post, la mia era una domanda per capire se c’era modo di editare la grafica dei commenti e non perdere l’interlinea verticale. Al che sorge una domanda: perché vedete acidità anche dove non ce n’è? (oltretutto mi avete anche contestato di leggere tra le righe cose che non sono state dette esplicitamente…)
Perdona l’intromissione, ma certo che ci vuole coraggio per asserire che una persona non è aperta al dialogo quando ha risposto a tutti i commenti, positivi o negativi, finora posti sotto i suoi articoli, talvolta anche con risposte lunghe e argomentate. Ed è ancora più grave fare un commento del genere in separata sede, piuttosto che “in faccia”. Un po’ come il Cannarsi stesso che continua a sfruttare un articolo di Animeclick che non c’entra con quelli di Mario Pasqualini, per mandare frecciatine allo stesso.
Io ho scritto principalmente su AnimeClick, tutto quello che avevo da dire l’ho espresso in entrambe le sedi in momenti differenti (sedi che comunque vengono lette entrambe e sono pubbliche), però riconosco e accetto la critica. In ogni caso non trovo apertura al dialogo se mi vengono ribaditi concetti già espressi non ammettendo replica se non quella oggettiva e un discorso viene liquidato con “Argomento chiuso”.
P.s. – Io provo a rispondere all’ultimo commento di Mario, ma il post salta. Non so se sia un mio problema di connessione.
Il tuo post ultrachilometrico in cui ribadivi le stesse identiche cose non salta affatto: è stato cestinato, puoi ripostarlo se vuoi, ma verrà cestinato ancora. Quando imparerai a discutere dei fatti e non delle tue personalissime opinioni senza una fonte che sia una, allora forse la conversazione potrà continuare.
Ti favorisco subito copiando/incollando l’unico punto a cui non avevi risposto, chissà come mai:
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METODO DEL TABELLONE – «Se hai già discusso con Cannarsi a tu per tu ti renderesti conto che» eccetera: ma io non ci devo discutere affatto. Questi articoli non sono un’intervista, questi articoli non sono una biografia, questi articoli non sono un diario, questi articoli non sono un flusso di coscienza, questi articoli non sono un’interpretazione psicologica o filosofica degli adattamenti italiani dei film Studio Ghibli distribuiti da Lucky Red: questi articoli sono confronti fra i copioni giapponesi e i copioni italiani sulla base di prove tangibili. Se non ti è chiaro questo vuol dire che ci sono solo due spiegazioni, e spero scuserai la franchezza delle seguenti parole, ma è così: o sei in buona fede e semplicemente non hai capito il tema degli articoli, oppure sei in cattiva fede e stai continuando a spostare volontariamente l’attenzione su di me, sullo stile di scrittura, sulla grammatica italiana, sui messaggi fra le righe, sul codice d’onore che avrei dovuto avere nei riguardi dell’adattatore eccetera per depistare il vero tema degli articoli. Decidi quale delle due opzioni è quella corretta, posto che è per forza una di queste due.
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Come hai scritto tu stesso, «Gli interrogativi a cui non rispondo sono cose con cui concordo»: dato che a questo punto non avevi risposto, se ne deduce che concordi nel fatto che questi articoli NON parlano di Cannarsi, che questi articoli sono mere comparazioni fra i copioni giapponesi e italiani, che non c’è nessunissimo personalismo né volontà di attaccare nessuno, e che o non hai capito gli articoli oppure li hai capiti benissimo e proprio per questo cerchi di deviare l’attenzione.
Tenterò di accettare il fatto di veder cancellate argomentazioni per cui avevo speso del tempo al fine di venirti incontro.
Penso di aver sbagliato qualcosa nel formulare le mie parole, proverò quindi ad essere più sintetico e chiaro che posso. Ti chiedo solo di venire incontro a me e provare a capire quello che sto dicendo per un minuto, onde evitare fraintendimenti.
Cannarsi dice che bisogna essere rigidi e oggettivi e bisogna attenersi al dizionario e alle etimologie. Tu costruisci degli articoli al fine di confutare questo metodo: Cannarsi non è rigido, non è oggettivo e non si attiene sempre alle strette definizioni dei dizionari e tu lo dimostri. Non avresti fatto questi articoli se Cannarsi non avesse dichiarato i capisaldi del suo metodo (lo hai anche detto).
Ciò che dimostri non può (perlopiù) essere confutato: perché è vero.
Quello che non consideri è che questo Cannarsi lo sa… non va contro al suo approccio! (va solo contro alla presa alla lettera dei suo principi). Adattare non è un processo matematico (e lui questo non l’ha detto): è sempre soggetto al gusto e ci sono soluzioni che avranno sempre sostenitori e detrattori.
Prendi “Handsome”: qualunque soluzione si fosse adottata sarebbe stata contestabile. In casi simili NON CI SONO SOLUZIONI. Ci sono solo soggettività, gusto, buonsenso, opinioni limitate dall’esperienza personale.
Qualora desideri continuare (in modo piacevole) questa conversazione: proponi qualche soluzione di adattamento alternativa a quelle contestate così, qualora tu lo desiderassi, potremmo discuterne e gradirei utilizzarle come esempi per spiegarti meglio questo concetto a cui tengo molto (avevo riportato alcune soluzioni della “Tomba delle Lucciole” nel mio post che è stato cancellato). Nel caso in cui tu trovassi soluzioni di adattamento correttissime, non è mia intenzione mandare avanti un’ideologia per partito preso e non mi tratterò dal riconoscere i miei errori dandoti ragione (sta a te credere se io sia sincero oppure mascheratamente cocciuto).
«Tenterò di accettare il fatto di veder cancellate argomentazioni per cui avevo speso del tempo al fine di venirti incontro»: tenterò di accettare il fatto che da un mese e mezzo mi vengono contestate cose che sono già esplicitate per filo e per segno in articoli per la cui documentazione e scrittura ho speso mesi e anni di tempo rubato a famiglia, lavoro e hobby al fine di venire incontro al lettore cercando di essere quanto più dettagliato possibile portando quante più fonti possibili. Questa non è una tesi di laurea, io non sono uno studente, sono così fortunato da avere uno una vita e un lavoro e non ho tutto il giorno per scrivere e rispondere e stare su Internet: al tempo usato per gli articoli si aggiungono le ore rubate al sonno per leggere e rispondere a questi commenti infiniti.
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«Ti chiedo solo di venire incontro a me e provare a capire quello che sto dicendo per un minuto, onde evitare fraintendimenti»: ma certo, ci mancherebbe. Leggiamo.
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«Ciò che dimostri non può (perlopiù) essere confutato: perché è vero»: ottimo, quindi riconosci che sono 22 anni che l’adattatore inventa di sana pianta i suoi adattamenti basandosi sul puro gusto soggettivo e sulla pura interpretazione soggettiva dei film, giustificando con plateali bugie il suo operato e facendo leva sulla legittima ignoranza del suo pubblico che, non conoscendo il giapponese, è costretto in buona fede a bersi ogni falsità che scrive nei suoi post infiniti e infarciti di qualunque roba totalmente non inerente all’argomento per confondere le acque. Vedo che ci capiamo, benissimo, andiamo avanti.
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«Quello che non consideri è che questo Cannarsi lo sa… non va contro al suo approccio!»: quindi lui prima dichiara una cosa, e non una-due volte, eh, la dichiarata a pappagallo centinaia di volte per decenni in una quantità abnorme di contributi scritti, video e audio, però poi non la fa. Ma certo, stupido io che non ci avevo pensato.
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«Prendi “Handsome”: qualunque soluzione si fosse adottata sarebbe stata contestabile»: ma assolutamente no. Quello che ho scritto è che “belloccio” comunica una cosa, mentre invece la parola presente nel copione originale giapponese ne comunicava un’altra. Punto. L’adattatore non ha scelto una parola più o meno simile all’originale, no, ne ha scelta una con un senso quasi opposto, “così così, ma ancora passabile”. Se a casa tua “belloccio” vuol dire un’altra cosa sono problemi tuoi.
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«Qualora desideri continuare (in modo piacevole) questa conversazione» sì, dimmi, che devo fare? «proponi qualche soluzione di adattamento alternativa a quelle contestate»: MA NEMMENO PER SOGNO. Mi hai appena dimostrato che sì, sei in malafede, è certo. Mi hai appena dimostrato che hai letto gli articoli e proprio perché li hai capiti stai cercando di metterci contro creando un lui VS io. MA NEMMENO PER SOGNO. Non so più quante volte ho scritto, nei disclaimer che hai bellamente saltato come pure negli articoli, che io non sono un linguista, non sono laureato in italiano né in giapponese, non sono una adattatore, non sono un cantante, non sono niente, sono uno che ha fatto semplicemente fact-checking e per questo mi devo sorbire decine di commenti infastiditi che rubano tempo ed energie a cose ben più importnti della mia vita. Non mi sono mai permesso di dichiarare, mai, che io sarei stato più bravo o più competente di lui. Mai. La cosa non viene nemmeno suggerita «fra le righe» (cit.). A questo punto sono sicuro che tu lo abbia capito e quindi volontariamente vuoi metterci contro di proposito, così che non ti resti altro da fare che aspettare il mio primo passo falso per poter dire “Ecco vedi, non sei meglio di lui”, esattamente come gli altri zelanti commentatori che hanno scritto “Eh, ma guarda, hai fatto un errore di grammatica! Questo smonta tutto il tuo discorso!”, come se fosse quello il punto. Non ho intenzione di prestarmi a questo giochino infantile, infantile come chi si permette di commentare i miei articoli senza averli letti, o peggio ancora avendoli letti senza capirli, o peggio ancora ancora avendoli letti, capiti e quindi proprio per questo contestati non nel merito (d’altronde tu stesso hai appena ammesso che sono incontestabili), bensì attaccando me. MA NEMMENO PER SOGNO. Io non sono gli articoli e gli articoli non sono l’adattatore: se tu e altri non riuscite a capire questa cosa e anzi la aizzate (new entry: le «Pergamene del Mar Morto su Shitarello», mi cascano le braccia, nemmeno i bambini), beh allora è inutile discutere.
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Addio.
Che adattare non sia un processo matematico è quello che andiamo sbandierando da secoli. Che Cannarsi lo sappia non sta a me stabilirlo perché non sono nella sua testa, e lo stesso vale per te suppongo, a meno che tu non lo conosca personalmente (in tal caso illuminaci). Quello che va dicendo in pubblico, però, è ben diverso. Si professa portatore della verità e snobba, talvolta anche in modo piuttosto denigratorio, chiunque gli muova una critica sulla base del fatto che quel che lui scrive, secondo lui, rappresenti la massima fedeltà al testo di partenza, quindi o accetti il risultato del lavoro di Cannarsi o son problemi tuoi perché non rispetti il volere dell’autore del testo originale.
Se lui fosse più aperto a considerare i suoi scritti non come matematico equivalente del testo originale ma come ciò che inevitabilmente sono, ovvero il risultato di suoi ragionamenti personali, talvolta buoni talvolta meno, o comunque imperfetti, non staremmo nemmeno qui a parlarne.
Ripeto ancora una volta: LUI parla della traduzione, dell’adattamento e del testo come cose matematiche, non noi. Lui si pone in questo modo a chi tenta di avere un dialogo con lui. Se poi nella sua testa lui sa che non è così, bene, ma non è quel che dimostra.
Ah, per la cronaca, penso che Pasqualini abbia ripetuto fino alla noia che lo scopo dei suoi articoli era quello di dimostrare che Cannarsi non è fedele come dice di essere, non di certo quello di dimostrare di essere un adattatore piu bravo di lui, quindi la parte finale del tuo commento non so quanto sia in tema, e spero non sia un altro tentativo di distogliere l’attenzione.
@Heavenly29: (mi attacco qui perché non trovo il pulsante “Rispondi” nel tuo ultimo post 22 Gennaio 21:33): Più che distogliere l’attenzione, voglio solo porre l’attenzione sul fatto che contestare una scelta di adattamento prevede necessariamente che ce ne possano essere di migliori, questo ne va da sé, e da lì partire per argomentare. Io ho definito alcune scelte di Cannarsi semplicemente “accettabili”.
Che Cannarsi sia frainteso è un dato di fatto: dopo tutte le volte in cui ci ho parlato (sempre osteggiandolo) ho capito che non è mentalmente chiuso come sembra e non concepisce l’adattamento nel modo matematico in cui può trapelare dalle sue dichiarazioni. Ci tiene nell’enfatizzare quell’approccio di dialogare i film perché non è, effettivamente, praticato da nessun altro (capita forse in pochissimi casi, con copioni come quelli di Rostand o Shakespeare). Normalmente un dialoghista va a briglia sciolta in base all’ispirazione del momento senza remore nello stravolgimento finalizzato all’avvicinamento culturale, è questo IL METODO comune. Certo frasi di Cannarsi come “Se non vi è piaciuto il mio adattamento forse significa che non vi è piaciuto il film” lasciano un po’ il tempo che trovano e sono frasi calde offuscate più che altro dal comune difetto umano di perdere le staffe. Che i risultati di Cannarsi siano discutibili è condivisibile, che sia spesso troppo rigido nell’applicazione del suo metodo è condivisibile (sì, dovrebbe praticare più eccezioni per ottenere risultati più condivisibili), ma il suo intento non è disprezzabile.
«voglio solo porre l’attenzione sul fatto che contestare una scelta di adattamento prevede necessariamente che ce ne possano essere di migliori, questo ne va da sé, e da lì partire per argomentare»: MA IO NON CONTESTO LA SCELTA DI ADATTAMENTO, NON DICO MAI “QUESTO NON MI PIACE” OPPURE “QUESTO SAREBBE DOVUTO ESSERE COSÌ”, MAI, IO CONFRONTO IL COPIONE ITALIANO CON QUELLO ORIGINALE E SCOPRO CHE A PRESCINDERE DALLA TRADUZIONE (ALTRO ARGOMENTO NON TRATTATO) L’ADATTAMENTO ITALIANO SCEGLIE DELLE SOLUZIONI CHE NON VENGONO CONTESTATE IN QUANTO “BRUTTE” O “MIGLIORABILI”, MA BENSÌ IN QUANTO SONO LONTANE, A VOLTE LONTANISSIME, A VOLTE ADDIRUTTURA IN CONTRASTO CON IL COPIONE ORIGINALE. SE SCRIVO TUTTO IN CAPS LOCK LO CAPISCI FINALMENTE O NO?
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«il suo intento non è disprezzabile»: COME DICEVA QUEL TALE «LE COSE PEGGIORI SONO SEMPRE STATE FATTE CON LE MIGLIORI INTENZIONI». DELLE INTENZIONI DELL’ADATTATORE NON MI IMPORTA NULLA E NON LE CONSIDERO, ANZI LO DIFENDO PURE PERCHÈ OGNI DIECI RIGHE SCRIVO COSE DEL TIPO “NATURALMENTE QUESTA SCELTA DI ADATTAMENTO POTREBBE ESSERE STATA CONDIZIONATA DA NUMEROSE VARIABILI PERFETTAMENTE GIUSTIFICABILI” E ADDIRUTTURA NEL QUARTO ARTICOLO SCRIVO CHE (COPIO/INCOLLO) «DA ANNI CANNARSI VIENE INGIUSTAMENTE CONTESTATO PER LA FORMA DEL SUO ITALIANO […] IL PROBLEMA NON È LA FORMA, È IL CONTENUTO». SE SCRIVO TUTTO IN CAPS LOCK LO CAPISCI FINALMENTE O NO?
Mi scuso per essere stato indelicato circa alcune considerazioni sulla tua persona.
Ho capito il tuo tentativo di essere oggettivo dall’inizio. Ma lo trovo sbagliato.
E trovo che tu abbia comunque espresso delle opinioni.
“Ohayo Gozaimasu” non si può tradurre con “Salve”, è troppo corto. Anche volendo, come lo si distingue da “Ohayo”? Le scelte sono opinabili.
“Itadakimasu” si traduce universalmente con “Buon appetito”: in entrambi i casi, si tratta di usanze. Lo sai anche tu che se al telefono diciamo “Pronto?”, nessun inglese ci tradurrà con “Ready?” – La fedeltà culturale di Cannarsi ha dei limiti per sua volontà argomentata.
Tu scrivi “(…)professionisti che invece seguono logiche metodiche e cristalline, i quali sanno bene che qualche piccola concessione alla fedeltà grammaticale o lessicale è il prezzo da pagare necessario per ottenere la massima fedeltà linguistica.” – questa è la descrizione di Cannarsi. Se non che le sue eccezioni e la sua mancanza di eccezioni sono entrambe contestabili, è una questione di misura.
Comunque in certi casi (“Dio Bestia”, “Perdonateci,” l’abuso di formalismi e termini in disuso, ecc.) non è tanto il contenuto quanto la forma.
Taglio corto limitandomi ad argomentare con solo questi esempi perché ho inteso che i miei commenti non sono graditi.
Se sei convinto che sia in malafede non potrò farti cambiare idea.
Copia-incollo quindi solo alcune dichiarazioni recenti di Cannarsi, per far intendere che ci sono molti fraintendimenti alla base del suo modo di lavorare:
–
” -E’ verissimo che trovo che il “dialogo tipo” del doppiaggio italiano, ovvero quello già scevro di strafalcioni da un lato e invenzioni dall’altro, sia del tutto merlettato e didascalicizzato. Pieno di glosse interne. Perché “sennò non si capisce”. E’ una cosa che conosco, perché è stata parte di me.
(…)
Come sempre nel mio operato, il fatto che alla base della mia scelta ci siano delle ragioni che tendono all’oggettività d’analisi NON vuol dire che la mia scelta sia indiscutibile. Sia inoppugnabile o che, peggio ancora, “debba piacere per forza”. Non è così.
(…)
non sono un robot, e per un umano “spogliarsi del tutto” della propria umana responsabilità di scelta individuale è: impossibile, patetico e ridicolo. Non si può, perché persino nel diritto, con tutte le prove oggettive, alla fine il giudizio lo emette un giudice ed è un atto di deliberazione umana, no? Si cerca di fondarlo su dati obiettivi, ma il giudizio resta umano.
(…)
Non pensate che io applichi pedissequamente una regola aurea e omnivalente: non c’è.
(…)
Di mio avrei tenuto Vader, perché si legge “véder”, non “vàder”, giusto? Per dire. Ma per “Kagato” in Tenchi Muyo forse chiederei ancora il permesso per modificarlo. Non esiste un’opera non dico intellettuale, ma intellettiva, senza scelte da prendere. Credo che l’importante sia farlo in piena coscienza e a buone ragioni vedute.
(…)
Non vuol dire che “il dio bestia” debba piacere per forza come adattamento, come scelta. Chi sono io anche solo per pensare a una simile violenza psicologica(…)? Considero ancora quella scelta la migliore (…) per l’adattamento di Mononoke Hime, che io devo pensare proposto a tutti. E’ ancora e sempre e solo una mia scelta, basata sugli argomenti che ho proposto e che ho valutato io stesso.
(…)
E giuro, sono stato contento che l’unica volta in tutto il film che si parla di “inugami” fosse al plurale: gli dei cane. Al singolare sarebbe stato un guaio, eh! Lo so. – “
AVVISO IMPORTANTE PER TUTTI
Questa discussione sta diventando autoreferenziale, circolare e assolutamente stucchevole nel suo non condurre da nessuna parte. Pertanto mi prendo la responsabilità di dirvi che questo è l’ultimo commento che autorizzerò. Mi spiace perché sono sempre a favore del confronto ma qui siamo su un altro piano: potete, se volete, scambiarvi l’indirizzo mail e continuare privatamente.
Senti, basta, ti prego, te l’ho già scritto e riscritto. I tuoi commenti non sono sgraditi: sono inutili. L’adattatore si difende già a sufficienza da solo, cos’altro c’è da scrivere? Stai fancedo quello che i giapponesi chiamano oni mail: tempestare di messaggi infiniti fino a far perdere la pazienza.
Tutte le mie proposte negli articoli, come “Salve” per o-hayou gozaimasu e altre, non sono proposte di adattamento, ma solo di traduzione, ne sono conscio e lo scrivo chiaramente. Se non sai leggere, inutile dialogare.
Mi ha scritto privatamente un lettore: «se [shinotenshiazrael] ha confermato che gli articoli sono giusti e tu hai detto che non intendi proporre adattamenti alternativi dato che non sei un adattatore, ecco, allora non ho capito su cosa inviti a discutere». Se immaginiamo che l’adattamento sia un paio di occhiali con cui osserviamo un’opera straniera, allora lo scopo di questi articoli non è togliere gli occhiali messi dall’altro adattatore per mettere invece i miei occhiali. Io non devo e non voglio sostituirmi al traduttore, non voglio mettere nessun paio di occhiali: voglio togliere gli occhiali. Questi articoli sono fact-checking dal giapponese, e di questo possiamo discutere: è corretto paragonare il medioevo giapponese con quello europeo e usare termini medievali europei per un film giapponese? È corretto usare come sinonimi dei non-sinonimi? È corretto adattare il -masu con il “voi”? Parliamone. Certo sono discussioni tecniche, ma d’altronde questi sono articoli tecnici.
p.s. – Gli interrogativi a cui non rispondo sono cose con cui concordo. Nessuno scrive “concordo” ad ogni singola proposizione che concorda. Riguarda anche per tutti gli aspetti degli articoli di cui non ho parlato, non credi?
Se questo è il tuo metodo ne prendo atto, io generalmente tendo a dire “in effetti hai ragione” oppure “non l’avevo vista in questo modo, mi hai convinto” ma a ognuno il suo.
Sulla questione “Pulzelle”, in effetti la Treccani online dice “Fanciulla non maritata, vergine”. Fanciulla, non donna, o essere umano di sesso femminile, quindi la connotazione anagrafica c’è.
http://www.treccani.it/vocabolario/pulzella/
Continua a leggere:
“È parola che s’incontra oggi raramente, solo in frasi d’intonazione scherz.”
Ok, ma quello è un altro discorso. Dal punto di vista puramente lessicale il significato viene mantenuto
Non è mai stato negato. Copio/incollo dal secondo articolo:
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«I citati sinonimi otome, shoujo, musume e ko sono parole di livelli formali progressivamente più bassi nonostante indichino tutti la medesima cosa: “bambina (sottinteso, vergine)”. Fin qua Cannarsi ha perfettamente ragione, ma il punto è: quanti sinonimi ha l’italiano per indicare il concetto di “bambina (sottinteso, vergine)”? Numerosi: “bimba”, “figlia”, “figliola”, “piccola”, “piccina”, “ragazzina”, “giovinetta”, “fanciulla” per citare solo i più usati, per non parlare delle varianti gentili, offensive, specifiche o tecniche come “creatura”, “marmocchia”, “mocciosa”, “prole”, “infante”, “pargola”, “vergine”, “pulzella”, “madamigella” e altre ancora. Ora, di tutte le parole possibili fra sole quattro varianti richieste dalla sceneggiatura, perché Cannarsi ha scelto proprio “pulzella”? Si tratta di una parola estremamente caratterizzata nel tempo e nello spazio che è diventata paradigma automatico e attributo lessicale di uno specifico personaggio storico preciso, ovvero Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orléans».
—
Poi, copio/incollo dal quarto articolo:
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«mentre in giapponese otome indica in primo luogo la fascia d’età giovanile, in secondo luogo la condizione di nubilato e solo in terzo luogo la verginità, in italiano il termine “pulzella” indica come caratteristica fondamentale la verginità e non è così stringente rispetto all’età: tecnicamente e con tono ironico si può essere pulzelle anche a 80 anni se ancora nubili».
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Al campo semantico solo parzialmente coincidente si aggiunge il fatto che otome è una parola di uso assolutamente comune nel giapponese contemporaneo (147 milioni di risultati su Google), mentre invece “pulzella” decisamente no (123’000 risultati). L’intero film è stato adattato in un falso italiano para-medievale in cui si abbinano forzatamente le credenze degli Emishi a quelle degli Yamato (maggiori dettagli nel secondo articolo), e queste ultime a quelle della cultura cristiana medievale fatta di pulzelle, madame, messeri, Dio eccetera eccetera. C’è proprio uno scontro di culture incompatibili fra loro, un errore madornale alla base stessa di questo adattamento.
Saluti, ho appena terminato la lettura dei cinque articoli che, da non addetto ai lavori, ho trovato molto interessanti ed appassionanti e volevo complimentarmi con l’autore: posso solo immaginare quanto tempo ed impegno possano aver richiesto. Finora guardavo le edizioni italiane dei film Ghibli e mi limitavo a trovarle “strambe”, senza approfondire: capirne i retroscena è stato davvero illuminante.
Grazie mille davvero, sono contento che siano stati apprezzati. Continua a seguirci su Dimensione Fumetto!
Mi accodo alla speranza che almeno le aziende possano venire a conoscenza di questi articoli e pensarci due volte prima di affidare un lavoro a Cannarsi. Complimenti all’autore per la cura che ha messo in questa analisi, sono molto interessanti.
Complimenti davvero per l’ultimo articolo, forse in alcuni casi perfino troppo dettagliato, degna conclusione di un progetto cominciato cinque capitoli orsono, citando parte di un’intervista di Cannarsi da te riportata nell’articolo sul suo metodo «Ti ringrazio innanzitutto per aver seguito con tanta attenzione il testo, è una cosa meravigliosa che in qualche modo dà ragion d’essere al lavoro che un traduttore fa, quindi ti ringrazio. In secondo luogo ti ringrazio per la domanda puntuale, perché mi dà occasione di spiegare un caso che credo sia ben rappresentativo di un intero modo di lavoro» dunque dovrebbe essere lui a ringraziarti più di tutti noi.
Vorrei però commentare in maniera più generale su alcuni argomenti tirati in ballo anche nei commenti, visto che è stato toccato anche il mio campo, sono un semplice laureato in lettere che vorrebbe esprimere la sua opinione proprio come tutti gli altri. Comincio dalla prima e più evidente questione balzata fuori inevitabilmente da una serie di articoli di questo genere, ci tengo a precisarlo, vorrei farlo da persona completamente estranea ai fatti e all’autore degli articoli: tutti e cinque i pezzi NON riguardano Cannarsi bensì i suoi adattamenti.
Ora tali adattamenti essendo un prodotto destinato al pubblico sono altresì suscettibili di essere criticati e giudicati dal pubblico, senza che con essi si intenda giudicare o disprezzare l’autore. Detto questo, l’intento di Mario Pasqualini non mi è sembrato neanche questo, quanto in realtà l’obiettivo di una persona, che ha i mezzi e le conoscenze per farlo, di pubblicare delle considerazioni supportate da fatti con solide basi accademiche (stando alle personalità citate nel trafiletto iniziale) circa il prodotto del lavoro di una persona rivolto al pubblico, con delle pretese mistificatorie. Riutilizzando una metafora usata in precedenza, se sto parlando della Scuola d’Atene di Raffello è inevitabile che vi siano riferimenti a Raffaello pittore e al suo contesto storico-artistico ma non sto giudicando Raffaello come persona vissuta nel XV-XVI secolo, solo una (magnifica) opera d’arte del Rinascimento eseguita da un pittore di nome Raffaello. Allo stesso modo qui si tratta solo degli adattamenti realizzati da un professionista di nome Gualtiero Cannarsi non della sua persona; se il suo nome compare è perché è lui l’autore. Se il titolo può essere fuorviante non si può dire lo stesso del contenuto degli articoli, in nessuno dei cinque mi è sembrato proprio che fosse condotta un’inchiesta a Cannarsi, quanto piuttosto una dettagliata e articolata dimostrazione che il suo lavoro e le sue dichiarazioni sul suo lavoro e sul suo metodo, non coincidono e che il risultato spesso alle orecchie del pubblico, di cui sia io che Pasqualini facciamo parte, lascia a desiderare se non sia addirittura errato. Se è vero che lui è libero di svolgere il suo lavoro come meglio crede, è altrettanto vero che il pubblico è libero di esporre le sue rimostranze per un prodotto, lo ripeto, destinato al pubblico stesso, a maggior ragione se si possiedono le conoscenze e i mezzi per portare il livello di semplici considerazioni ad acute osservazioni che potrebbero migliorare e accrescere la conoscenza e il gradimento di un’opera. Se il testo sembra che suggerisca opinioni malevole sul conto di Cannarsi è suggestione del lettore che vedendo una tal massa di precise argomentazioni a sfavore delle scelte compiute dall’adattatore ne deduce un giudizio universalmente sfavorevole al lavoro di Cannarsi e a Cannarsi stesso, facendo passare in sordina anche delle considerazioni a suo favore (ad esempio la volontà di voler cambiare a ragione il titolo de “La Città Incantata” in “La sparizione di Chihiro e Sen”), e tutto ciò sarà dimostrato anche dal mio commento che darà l’impressione di essere contro Cannarsi e a favore di Pasqualini, quando in realtà personalmente alcuni dei suoi adattamenti non dispiacciono affatto.
Quando si dice che Pasqualini ha voluto insinuare l’incompetenza di Cannarsi con le sue frecciatine ironiche, secondo me non si apprezza l’ironia dell’autore e la si confonde con il sarcasmo, che è la stessa differenza, per usare una bellissima espressione di Hugo Pratt, che c’è tra un sospiro e un rutto. A me sembra che Pasqualini sia sempre stato ironico, e aggiungerei menomale vista la quantità di cose di tutt’altro tono, perché non cerca di divertire gli altri ma ride per se stesso cogliendo la gravità della cosa.
Veniamo ora a delle considerazioni di carattere più tecnico. Vorrei permettermi di dire la mia sul tanto discusso pulzelle/fanciulle. Il lavoro di un adattatore si gioca essenzialmente sulla semantica di due lingue e, disgraziatamente, il metodo del tabellone (si badi il metodo del tabellone in generale non quello adoperato da Cannarsi) preso così, nudo e crudo, annulla proprio tali differenze già all’interno della lingua di partenza. La differenza sostanziale tra pulzella e fanciulla, prim’ancora di carattere storico (Giovanna d’Arco) o anatomico (verginità), è di carattere semantico, pulzella infatti si riferisce ad un campo semantico ben preciso che è quello dell’ambiente cortese-cavalleresco medievale, non so voi ma quando il vecchio Emishi ha detto “pulzelle” ho avuto (e questa sì che è una frecciatina sarcastica) la sgradevole sensazione di lui vestito d’armatura con spada e scudo crociato col sottofondo di flauti dei bardi pronti a narrare un romanzo di cappa e spada. Tutto ciò mi sembra quanto mai lontano dalle intenzioni di Miyazaki, “pulzelle” non va bene non perché è un termine desueto o perché si può riferire a Giovanna d’Arco, non dovrebbe essere nemmeno fra le scelte possibili dell’adattatore perché fa scaturire dei significati obliqui assolutamente inopportuni sia che i personaggi parlino in italiano o italiano.
Sulla questione di “lungarone”. Allora partendo dal presupposto che lungarone è una forma meno usata in italiano (se non proprio errata), e non è perché è desueto come ha detto Cannarsi stesso («”lungarone”, o meglio, come si dice oggi, un “longherone”») oggi si dice longherone o al massimo longarone perché il termine deriva dal francese “longeron” e dal latino “longurionem”, e non è una variante di primo Novecento è il termine stesso che è nato nel primo Novecento. La questione qui è che Cannarsi ha dichiarato esplicitamente che il film in generale e il termine in particolare si presentavano ardui da adattare perché avevano dei significati specifici che lui ha dovuto scovare (lo stralcio della dichiarazione si trova anche su Wikipedia alla pagina di “Si alza il vento”), quando in realtà l’impresa titanica in questione altro non è che il suo lavoro di adattatore (in questo caso, ma è una mia opinione, basta anche tradurre keta con trave e farsi due conti che il campo semantico di riferimento non è l’edilizia ma l’aeronautica, dunque tradurre con longherone ma potrei anche sbagliarmi).
Riguardo la presunta metrica latina di Sanpo. Devo dire la verità, questa dichiarazione di Cannarsi mi ha stupito non poco. Studio metrica latina da più di sei anni e vi posso assicurare che in metrica latina non esistono accenti, figurarsi accenti metrici, al contrario si basa sulla quantità delle vocali (brevi/lunghe) concatenate in una serie di schemi ricorrenti (il metro appunto) che oggi, e solo oggi, purtroppo sono ridotti al mero ritmo e dunque forzati all’accentazione. L’accento è un concetto della metrica intensiva ed è tipico dell’italiano che ha un sistema vocalico qualitativo (vocale tonica, cioè accentata, o meno, da cui derivano le vocali aperte e chiuse) e non più quantitativo. L’accento è contemplato solo nella prosodia latina (si badi prosodia non metrica, con prosodia si intende il modo di pronunciare le parole sia in latino che in italiano). Si ricorre all’accento perché noi moderni purtroppo abbiamo dimenticato e non sappiamo più come leggessero metricamente i latini e ci aggrappiamo all’accento (che è italiano e non latino) che si muove in virtù della quantità delle sillabe. L’ultimo, per quanto mi risulta, a provare un trapianto dalla metrica latina a quella italiana è stato quel genio di Giosuè Carducci nelle Odi Barbare e questo gli è valso il Nobel per la letteratura nel 1906, ma non mi sembra sia questo il caso. Tutto questo sproloquio serve a dimostrare che non esistono accenti metrici né in metrica latina né in quella greca e che la concezione stessa di accento non le appartiene; non saprei quella operistica ma di sicuro il Sanpo di Cannarsi non c’entra niente con la metrica latina.
Infine una mia considerazione personale. Spero vivamente che Gualtiero Cannarsi prenda questi interventi come un’occasione per prendere coscienza dei punti da migliorare e non come un affronto, anche in vista di un suo probabile riadattamento dei dialoghi di Evangelion, se c’è una cosa certa è che lei è un appassionato e tali siamo anche noi ma lei, a differenza nostra, è chiamato, parafrasando una celebre formulazione sul tradurre, a riempire e ad esprimere persino i silenzi di ciò che ormai è da considerarsi arte.
Capitato per caso e ben in ritardo, ho letto anche io gli articoli e (purtroppo) alcuni dei commenti. Vorrei intanto ringraziare l’autore per la qualità dei contenuti, davvero ottima. Detto questo forse non dovrei neanche intrufolarmici ma, sia perché nel lontano passato ho “conosciuto” (per quanto avrei preferito diversamente) Cannarsi, ai tempi dell’uscita di Eva in vhs quindi eoni or sono ormai, sia perché per una serie di circostanze sono vicino ad alcune realtà giapponesi dell’animazione (come tanti altri qua immagino), mi sento di appoggiare in pieno i pensieri espressi finora dall’autore, né più né meno. Non voglio aggiungere niente di personale perché vedo che i flame sono dietro l’angolo e posso immaginare che questo mi metta in automatico dalla parte del torto o almeno dalla parte dell’autore (e quindi del torto per alcuni). Vorrei solo concludere che, per chi si potrà anche stupire di certi toni, già oltre 20 anni or sono, non erano sicuramente diversi…sarebbe divertente andare a ripescare i log…ma evitiamo.
Grande Mario P. Ottimo approfondimento
Anch’io eviterei di ripescare i log, stendiamo un velo pietoso.
Sui «certi toni» usati da 20 anni a questa parte, sappi che si stanno persino inasprendo a livelli preoccupanti. In una recente live organizzata da Movieplayer all’interno del suo festival ”Ultrapop”, Cannarsi ha dichiarato quanto segue (trascrivo letteralmente):
«Se la cultura giapponese è una cultura in cui spesse volte per ringraziare si dice sumimasen che in realtà è un modo per chiedere scusa, a me non interessa se questo suona strano al pubblico italiano. Che gli suoni strano! Che il pubblico si renda conto che la cultura giapponese e quella italiana sono diverse, e se se ne rende conto questo è il più grande obiettivo che la fruizione di un’opera di intrattenimento straniera potrebbe raggiungere. Tutto il resto è parassita. […] Perché mai [lo spettatore] dovrebbe avere la sensazione errata e ingannata di naturalezza quando sta vedendo una cosa che non è sua naturale? No, il contrario! Uno spettatore italiano di un’opera straniera deve percepire in ogni momento che sta guardando un’opera straniera».
Credo che il testo si commenti da solo, senza stare a sottolineare i possibili sottintesi che contiene.
Mi permetto di aggiungere solo che se negli ultimi 5’000 anni di storia della traduzione non è mai successo che un testo sia stato tradotto con lo scopo preciso di farlo sembrare «straniero» probabilmente c’è un motivo, e questo motivo non risiede nella tanta vituperata “tradizione” (Cannarsi ha ragione quando dice che siccome una cosa è tradizionale non vuol dire che sia giusta), ma nel fatto che una traduzione serve a rendere comprensibile un testo incomprensibile: se lo si voleva rendere incomprensibile bastava lasciarlo com’era.