Gringo: il mondo con gli occhi di Tezuka
Oltre 600 pagine di fumetto del “Dio dei manga”, per una storia incompleta (?) che lascia in bocca un po’ di amaro e una certa angoscia.
Una delle storie che il Maestro ha lasciato incompiute alla sua morte (avvenuta nel 1989).
Una storia dichiaratamente dedicata alla giapponesità, al rapporto tra i giapponesi e gli altri popoli, tra la loro cultura e quella dei posti dove si trovano a vivere, alle caratteristiche più tipiche degli uomini del Sol Levante e del loro ancestrale isolamento.
Non per niente il protagonista si chiama Hitoshi Himoto, “il giapponese”, come si può leggere dagli ideogrammi che compongono il nome, e come dice lo stesso Tezuka nelle quattro pagine che chiosano l’opera, e che forse sono le più toccanti e significative, visto che toccano anche il tema della sua malattia.
Quattro pagine autobiografiche in cui il Dio dei Manga, prendendo spunto dalla sua situazione di malessere (che lo porterà alla morte) approfitta per descrivere le caratteristiche culturali e antropologiche del popolo giapponese.
In particolare perché siano sopraffatti e ossessionati dal lavoro.
Tezuka trova nella povertà ancestrale la causa di questo rapporto malato del popolo giapponese con l’affermazione di sé, per cui sembra normale che tutti quelli che non lavorano non abbiano il diritto di vivere. Una estremizzazione del chi non lavora non fa l’amore che Celentano cantava nel 1970, che ancora ha una enorme presa sulla società nipponica.
Così Hitomo è l’archetipo del giapponese, ossessionato dal lavoro e dal successo, appassionato di sumo e di sake, che non fa niente per integrarsi se inviato all’estero, continuando a comportarsi come se quello che c’è intorno a lui non lo toccasse. Per questo si merita l’appellativo di gringo, straniero.
Perché è straniero ovunque, rimanendo sempre del tutto estraneo a quello che succede intorno a sé, focalizzato sul suo risultato, interessato solo alle sue passioni. Tra cui non secondaria quella della giapponesità. Himoto è gringo anche in casa sua, al punto che la moglie occidentale a volte è più giapponese di lui. Si è completamente adeguata a vivere alla giapponese, al punto di essere diventata una esperta nella cerimonia del thè e di essere completamente succube del comportamento del marito. Ed è gringo anche nel villaggio tipicamente giapponese nato a opera di nostalgici nel bel mezzo dell’America Latina.
Mi è capitato di lavorare in una ditta giapponese, ed è vero quello che scrive Tezuka nel tratteggiare l’origine della sua opera: i giapponesi sono rinchiusi tenacemente nella loro comunità, frequentano pochissimi stranieri e formano piccole colonie dalle quali non escono mai. Hanno un rispetto che rasenta la sottomissione nei confronti di chi li sovrasta nella scala gerarchica, e non si fanno domande.
Nella ditta eravamo oltre trecento italiani e quattro giapponesi, e nessuno di loro si integrava mai, neppure nelle pause o nelle battute scambiate durante una discussione di lavoro. Inoltre, pur trovandosi in pochi in una cultura completamente diversa e a migliaia di chilometri da casa, i loro rapporti erano fortemente formalizzati.
Poi dal giovedì alla domenica uscivano tra loro ammazzandosi di sake, se lo avevano, altrimenti andava bene qualsiasi alcolico purché in quantità industriali, dimenticando anche le gerarchie aziendali e le differenze che invece sembravano insormontabili sul luogo di lavoro.
La storia di Gringo è quella di un ex lottatore di sumo, che ha rinunciato alla sua passione, in parte perché obbligato dal fisico non proprio scultoreo, nonostante l’ottima tecnica, e che ha riversato tutta la sua competitività nella carriera di dirigente nella ditta Edo. Per fare carriera sta girando le filiali estere, mostrandosi senza scrupoli per il manager rampante che è.
Però in questo modo si scontra con gli altri squali sia delle ditte concorrenti che all’interno della sua stessa azienda. Nonostante il suo carattere e il suo apparente atteggiamento da duro, si fida di un suo sensei, e questo ne compromette tutta la carriera. Tezuka sottolinea tutti gli aspetti negativi di una economia globale, in cui il Giappone era già protagonista, tutta basata sulla carriera, sulla mors tua vita mea, con il fatto che chiunque altro è un gringo da sfruttare, popolo, amico, nemico, uomo o donna che sia. Insieme agli atteggiamenti negativi del popolo giapponese che Himoto incarna.
Sumo e thè servono a mantenere i contatti con il Giappone che è stato lasciato, e nel quale si spera di tornare, così ricco e potente, anche se disumanizzato. E continuamente quello che c’è intorno richiama il protagonista a restare fedele a se stesso. Anche i personaggi che sembrano più improbabili.
Quando sembra avvicinarsi alla redenzione, purtroppo la storia finisce. Arrivato nel villaggio degli anacronisti giapponesi che, come i soldati nelle isole del Pacifico, non vogliono accettare che la guerra sia finita e l’impero del Sol Levante ne sia uscito sconfitto, e per quarant’anni inventano notizie sulla guerra, paradossalmente deve conquistarsi il diritto di rimanere nel villaggio, perché questa volta sono la moglie e la figlia a renderlo gringo.
Ma non ne vedremo mai la fine. Proprio quando la storia sta virando al positivo, quando Himoto sta riconquistando la sua giapponesità, i suoi valori, la fedeltà alla famiglia, la tenacia e insieme la solidarietà, purtroppo il racconto si interrompe. Proprio all’inizio della catarsi, dopo che le persone che hanno contribuito a portarlo nel punto più basso e difficile della sua vita sono sparite, quando attraverso il sumo sta venendo fuori altro dal cuore e dalla testa del protagonista, oltre allo squalo della Edo, e rimane l’amaro in bocca per l’opera forzatamente incompiuta.
Mi ha fatto pensare un po’ alla storia di Leopardi, come me la raccontò la mia professoressa di italiano al liceo: proprio quando sta uscendo dal pessimismo cosmico che ne ha caratterizzato tutta la vita, quando finalmente sembra che ci sia una virata nella sua poetica e nella sua visione della vita, è la morte dell’autore a interrompere tutto.
Hikari propone questo “ultimo” Tezuka che, benché incompleto, dimostra tutta la sua divinità. In crescita sempre, fino alla fine, sia nelle tematiche, che nel disegno. L’intensa caratterizzazione dei personaggi, l’intreccio mai banale, la suspense del thriller, i (rari) momenti di comicità, mai eccessiva o sguaiata rendono il piacere della lettura superiore all’amarezza per la fine inattesa e improvvisa.
Grazie ancora, Maestro!