Dylan dog 365, una recensione al cardiopalma

Il bello di Dylan Dog è che non sai mai cosa aspettarti. Quale altra serie in Italia può passare nel giro di due mesi dalla pochezza al capolavoro? È che quando ci provi, puoi fare cilecca ma puoi anche prenderci alla grande. Dylan Dog 365 è la storia di come si può fare un centro perfetto senza fare troppo rumore.

C’è una lezione che Alan Moore lascerà all’umanità intera, e non è come abusare di sostanze psicotrope.

La sua lezione più grande, che il Bardo ha ripetuto in decine di interviste, è che i lettori vanno trattati con rispetto. Più precisamente, il rispetto va alle loro qualità intellettive: i lettori non vanno trattati come dei deficienti cui va spiegato ogni singolo passaggio della trama. I lettori, al contrario, vanno stimolati con storie che rappresentino una sfida per il loro intelletto, che magari si facciano rileggere più volte, e che non per forza devono essere completamente comprese.

Al sottoscritto generalmente piace essere trattato con rispetto.

Ed è per questo che con la Bonelli il sottoscritto ha sempre avuto un rapporto ambivalente. Della Bonelli ultraclassica, quella che deve spiegare al lettore ogni cosa “per almeno tre volte”, francamente non ho mai saputo cosa farmene. Ma quando la Bonelli la pianta di trattarmi come un deficiente, allora è capace di farmi sentire veramente in gamba.

Lo ha fatto ad esempio con questo Dylan Dog numero 365; e non è una sorpresa, visto che ai testi c’è lo stesso Carlo Ambrosini di Napoleone, la serie Bonelli più bella degli ultimi trent’anni.

Cronodramma

Ambrosini sceglie un tema difficile, quello del rapporto dell’uomo con il Tempo: come lo percepisce, come lo condiziona e come ne è condizionato. Ci scopriamo a leggerla sempre più velocemente, terrorizzati dall’angoscia che prima o poi arrivi lo spiegone a rovinarne l’atmosfera rarefatta ma sincera; e così, dopo un viaggio al cardiopalma in cui la paura che la perfezione di questa storia venga rovinata ti toglie il respiro, giungiamo finalmente all’ultima pagina, solo per scoprire che tutto è andato bene.

Tutto è andato bene in questo primo Dylan Dog del 2017, ed è quindi con animo più calmo e rilassato che possiamo riprenderne la lettura da capo.

Il tema della storia, dicevamo, è il Tempo, e Ambrosini non si fa alcuno scrupolo a dircelo chiaramente. Il Tempo perduto e i crocevia di scelte attraverso il quale si dipana; il Tempo che trascorre e che porta con sé la memoria come un vano fantasma il quale, pur evanescente, sa ancora influenzare il presente.

Il Tempo metafisico, nel senso puro e artistico del termine (evidenti le citazioni di De Chirico in copertina) con i suoi paradossi e le sue sovrapposizioni. Non c’è un solo istante in cui la storia si concede al lettore, che si muove spaesato tra vignette di difficile collocazione cronologica nonostante i rimandi temporali precisi (“un giovedì”). Ambrosini, grazie anche ai disegni di Werther Dell’Edera, che qui allude in maniera quasi pedissequa al maestro Micheluzzi, gioca con lo spaesamento del lettore facendolo attorcigliare dietro l’interpretazione di ciò che accade, senza mai tradirlo buttandola su un facile non-sense.

La storia non manca del classico colpo di scena, che rielabora un cliché senza abusarne. E mentre Dell’Edera ci inganna con una frammentazione del racconto che somiglia a certe tavole di Crepax, Ambrosini ci avvolge nell’abbraccio della sua narrazione onirica da un lato e pragmatica dall’altro.

Al termine della storia, anche se non tutto è chiaro, tutto è cristallino, onesto, senza doppi giochi. Niente della storia è mai spiegato, è semplicemente mostrato ai nostri occhi; e il lettore, come l’Arlecchino della storia, assiste come un testimone a una serie di eventi di cui non riesce a cogliere appieno la portata.

Perché le storie belle non sembrano mai storie difficili. Le storie belle sono sempre storie semplici, che si distendono davanti al lettore, nude e sincere, chiare ma enigmatiche.

Storie belle come questo Dylan Dog 365.

 

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