Benvenuti in Giappone 02 – Interno & esterno
Inutile stare a sottolineare quanto la religione sia uno degli aspetti principali dell’evoluzione della società umana, ma possiamo ritrovarne l’influenza anche nei fumetti per ragazzi di oggi? La risposta è ovviamente sì, basta guardare il contenuto oltre la forma.
La storia del genere umano ci insegna che i conflitti non avranno mai fine in un interminabile ciclo di corsi e ricorsi definiti dalle peculiarità dei popoli. Di queste peculiarità, la più forte è forse la religione dato che si propone di dare un senso a tutto quello che esiste (al contrario della scienza che vuole darne una spiegazione), e proprio perché si occupa di tutto quello che esiste la religione occupa un posto principale nella mentalità di un popolo. Non fa eccezione quello giapponese, dove la tradizione religiosa ha forgiato il pensiero di generazioni.
Se però in Occidente le grandi religioni monoteiste hanno influenzato le genti con la loro presenza del divino, in Giappone è stata la sua non presenza a caratterizzare le abitudini degli abitanti, tant’è vero che una buona parte degli stereotipi e dei modi di fare dei nipponici sono spiegabili dalla frase:
In Giappone Dio non c’è quindi nessuno vede il tuo dentro, ma tutti vedono il tuo fuori.
Per quanto possa sembrare spiazzante, a ben vedere questa è quella che, parlando di Giappone, è la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto.
La tradizione religiosa giapponese, ovvero lo Shintou “via del divino” (dove con «via» si intende “percorso iniziatico”, esattamente come il kendou è la “via della spada”) contempla un esteso pantheon di divinità che hanno le proprie storie e i propri intrecci narrativi esattamente come il pantheon degli antichi greci-romani, ed esattamente come per gli antichi greci-romani queste divinità se ne stanno in cielo o in mare o nei boschi e hanno un comportamento umano con umani vizi & virtù e non interferiscono con la moralità degli esseri umani, cioè non vedono dentro il cuore degli esseri umani, cioè per i giapponesi l’essere umano è libero dal giudizio divino. Questi vuol dire che mentre la caratteristica principale del dio delle religioni monoteiste occidentali è proprio il suo essere trascendente e immanente insieme, gli dèi giapponesi sono solo trascendenti e non bisogna rendere conto loro di nulla. Invece, ed ecco il nocciolo della questione, è agli altri che bisogna rendere conto, perché gli altri mi vedono e mi giudicano. Nessuno vede il mio aspetto interiore, ma tutti vedono il mio aspetto esteriore.
L’assenza di Dio, di religioni oppressive e di chiese-marionettiste sembrerebbe il sogno di John Lennon, un mondo senza religioni, e invece paradossalmente la mancanza di un dio superiore con cui confrontarsi ha impedito quel processo storico per cui i cristiani, gli ebrei e gli islamici si sono riconosciuti tutti inferiori a Dio e quindi tutti suoi figli, tutti fratelli, tutti uguali. Che poi questa idea sia costantemente disattesa da continue guerre è palese, ma almeno il concetto c’è. In Giappone invece non c’è un dio sotto il quale tutti gli uomini sono uguali, anzi le diseguaglianze sociali sono terribili e la legge non è uguale per tutti (proprio nel senso forense dell’espressione), il che si è trasformato nei secoli in una ripidissima piramide sociale come in Occidente non si vede dai tempi dei vassalli, valvassori e valvassini. Eppure, l’assenza di un dio a cui rivolgere le proprie grida di dolore ha forgiato la popolazione giapponese alla resistenza a tutto. Se prima le scene post-tsunami nel film Ponyo sulla scogliera mi sembravano assurde e ridicole, con tutte quelle persone sulle navi tutte festanti nonostante avessero appena subito una catastrofe, oggi realizzo che non sono poi così distanti dalla realtà giapponese: i nipponici hanno questo modo di reagire davanti ai problemi con la parola shouganai che letteralmente vuol due “non c’è rimedio”, ma che si usa per dire “eh pazienza” o “che ci vuoi fare” o “ormai è andata così”.
Inutile stare a piangere, e non lo fanno: durante le alluvioni a Ibaraki dello scorso settembre, delle migliaia di sfollati visti in tv non c’è n’era uno che è uno che versava una singola lacrima. Anche gli anziani che avevano perso tutto, la casa, la terra, i ricordi di intere generazioni, al massimo raccontavano quanto si erano impauriti e preoccupati di riuscire a sopravvivere, ma non erano disperati, non piangevano gridando pietà a un dio e in generale tutti erano già nello spirito di rimboccarsi le maniche e ricostruire. La forza d’animo dei giapponesi è straordinaria, sono dotati di una tempra incredibile e di una volontà fuori dal comune, come i molti fumetti e cartoni animati sportivi mostrano da decenni: gli allenamenti disumani dei personaggi di Mimì e la nazionale di pallavolo o della Signorina in Punta al Top! GunBuster forse non vengono eseguiti davvero dai ragazzi giapponesi (o almeno lo spero per loro), ma sono un riferimento narrativo di primaria importanza per la formazione morale esattamente come lo sono le fiabe in Europa. Da questo punto di vista il culmine dell’insegnamento è dato da Tommy, la stella dei Giants, risalente al 1966 eppure ancora notissimo per l’incredibile e stoica tenacia con cui il protagonista affrontava i più duri allenamenti sotto la neve o indossando telai di molle per rendere più difficili i movimenti e fortificarsi, nonché per essere l’anime dove è stato inventato il cosiddetto chabudaigaeshi o table-flip, cioè l’azione di ribaltare il tavolino a causa di un improvviso accesso di rabbia come viene fatto dal padre di Tommy, e che in Giappone è diventato ormai così proverbiale e così noto da aver generato anche un campionato di ribaltamento del tavolino.
Non sono poi solo gli sportivi a impegnarsi al massimo: il tema del dare tutto sé stessi (evidentemente perché non c’è un dio che ti aiuta) è tipico anche degli shoujo manga, cioè dei fumetti per ragazze, rappresentato in pieno da Maya Kitajima, la protagonista de La maschera di vetro – Il grande sogno di Maya in sequenze impressionanti/deliranti come la preparazione al ruolo teatrale di una immobile bambola di porcellana per il quale Maya si riveste di una corazza di taglienti bambù così da impedirsi i movimenti.
Siccome in Giappone non c’è Dio, fino a prova contraria nessuno conosce veramente le mie vere intenzioni. Proprio per questo la lingua giapponese ha elaborato due paroline di basilare importanza per capire la società nipponica, o quantomeno il modo in cui essa vede sé stessa: hon’ne (“origine + suono = suono originale”) e tatemae (“costruzione + davanti = facciata”) sono le parole con cui i giapponesi identificano quello che veramente pensi di una cosa, ma non lo dici, e quello che dici pubblicamente di una cosa. L‘hon’ne te lo tieni per te, il tatemae è quello che fai quando conversi con gli altri, ed è un’abitudine così radicata da non avere mai, mai, mai la certezza di star parlando onestamente con il proprio interlocutore, a volte anche con le persone più intime e fidate. C’è sempre un tatemae che impedisce di scorgere l’hon’ne, che d’altronde è ignoto a tutti, compreso a Dio che non c’è e alle divinità che non leggono nel cuore. I fumetti e i cartoni animati hanno sublimato spesso questo tatemae: due esempi celebri e vistosi li si ritrovano nella “maschera di vetro” del già citato Il grande sogno di Maya e soprattutto nell’A.T. Field di Neon Genesis Evangelion, che non a caso sta per “Absolute Terror Field”, cioè la barriera invalicabile non tanto per una questione fisica, ma di personale e insormontabile fobia sociale, un elemento cruciale tramite il quale l’anime dello studio Gainax viene percepito dal pubblico giapponese come una storia di formazione più che di fantascienza.
Il mantenimento del tatemae è una necessità sociale assoluta di origine storicizzata come ben spiegato qui: mi limiterò a riportare il dato di fatto che, stando alle dichiarazioni dei giapponesi stessi (e alle storie brevi di Rumiko Takahashi), per gli uomini sposati avere l’amante è più comune che non averla, ma il fenomeno è tollerato perché finché non si danneggia effettivamente la moglie allora la relazione extraconiugale è accettabile. In Occidente si dice che per i giapponesi non esiste il concetto di peccato, ma non è vero: Dio non c’è quindi non esistono i sette peccati capitali cristiani, non esiste il peccato morale, ma esiste il peccato come colpa sociale dovuta al danneggiamento altrui, perché gli altri ti guardano e ti giudicano. Come dice Satsuki in X delle CLAMP, non si uccidono gli altri esseri umani perché poi porteresti danneggiamento ad altri esseri umani rendendoli tristi, e non perché compi un atto orribile che lacera la tua anima come dice il professor Lumacorno in quel corso di catechismo che è Harry Potter e il Principe Mezzosangue.
Se davvero Dio non c’è, per logica non è più il giudizio divino, ma bensì il giudizio umano, il giudizio altrui a definire il comportamento. Per questo i giapponesi tendono a mostrarsi sempre perfetti, e per questo anche le città giapponesi sono sempre pulite e ordinate, fra l’altro tenute pulite e tenute ordinate dai cittadini stessi e non dall’amministrazione cittadina (il che dovrebbe fare da esempio ai cittadini italiani, sempre in attesa che sia “qualcun altro” a svolgere il proprio lavoro). Un’altra conseguenza positiva del peso del giudizio altrui è che la microcriminalità è bassissima, ma in questo caso il rovescio della medaglia è l’inumana e sproporzionata umiliazione pubblica a cui viene sottoposto chi delinque, non solo i criminali, ma anche i ragazzini beccati a commettere piccoli furti. Forse questo dipende dal fatto che, come mi è stato detto una volta, «la base della società giapponese è la vergogna»: si è portati a non delinquere per l’incredibile gogna pubblica a cui si è sottoposti per qualunque sciocchezza. Poiché l’umiliazione con i vicini di casa, con i colleghi, con i compagni di scuola, con i genitori, con tutti gli altri può raggiungere livelli così forti, ecco che tutti tendono a dare il meglio di sé stessi, a impegnarsi di più, a studiare di più, a lavorare di più, in una competizione che porta il Giappone a eccellere a livello mondiale in molti campi, ma che al contempo non trova sfogo nella meditazione o nella consolazione religiose e che sfora nel patologico e nelle relative tragiche conseguenze, molto note anche agli occidentali e ai lettori di fumetti, come sa bene chi legge Bakuman. ripensando allo zio del protagonista.
Per fortuna non tutti sono allineati su questa strada autodistruttiva: Eikichi Onizuka di GTO con aspetto malavitoso e cuore puro offre un modello virtuoso di superamento della convenzione sociale, e un altro insegnante tanto inquietante fuori quanto sensibile dentro è Korosensei di Assassination Classroom, così metaforicamente alieno alla società da essere un alieno vero e proprio. A ben vedere il dualismo fra dentro e fuori è forse uno dei temi in assoluto principali e più caratteristici della narrativa giapponese e, quindi, di fumetti e cartoni animati: i robot dentro umani e fuori meccanici, le maghette che cambiano di età o talento quando si trasformano, e gli orfanelli dall’aspetto angelico benché rosi dal tormento interiore sono esempi di come il mascheramento dell’aspetto interiore, sconosciuto agli dei e agli uomini, sia stato il cardine su cui si è mosso l’intrattenimento giapponese da mezzo secolo a questa parte. Il culmine è rappresentato ovviamente da Neon Genesis Evangelion, che è il culmine di molte cose, e le cui protagoniste Rei e Asuka sono i prototipi e al contempo i modelli perfetti dei tipi di personaggio noti rispettivamente come tsundere (fredda fuori, ma calda dentro) e yandere (brillante fuori e oscura dentro). Una continua recita, un continuo interpretare un ruolo, un continuo giuoco delle parti sul teatro della vita, lo stesso dell’episodio 26, i cui spettatori sono gli altri uomini e non Dio, perché in Giappone Dio non c’è.
Una versione diversa dello stesso testo è pubblicata qui.
Bellissimo articolo, di estremo interesse, e a questo punto non riesco a trattenere una domanda che mi è sorta, ed ha insistito per manifestarsi, già dal secondo paragrafo (a dirla tutta dal tuo blog): i giapponesi che relazione hanno con quel concetto per noi comune (anche se largamente sconosciuto) chiamato “felicità” e che è abbastanza uniforme nelle traduzioni delle lingue occidentali? Esiste la parola? Che ruolo ha nell’orientare le scelte di vita?
Grazie!
È un tema molto complesso e tocca vari aspetti, magari ci scriverò su un prossimo articolo; intanto scrivo le prime cose che mi vengono in mente. A livello linguistico, in generale il rapporto fra vocabolari italiano e giapponese non è diretto, con svariate parole italiane che si riducono a una sola giapponese e viceversa. Nel caso della felicità, io personalmente conosco almeno sei parole. 幸せ “shiawase” è forse la parola più simile al nostro concetto di “felicità”, è la prima parola che mi viene in mentre se dovessi tradurre al volo, ma la usano i bambini e le cantanti pop, rappresenta un’idea forse semplice e ingenua di felicità. Il singolo ideogramma da solo si legge ” sachi”, vuol dire pure più o meno “felicità” e si usa come compagno di “amore” come in astrologia, tipo “amore & fortuna” o “amore & successo”: indica più una benedizione divina che altro, quindi una cosa che casca dal cielo (notare quanto 幸 assomigli a 辛 “spezia” e 華 “fiore”, oggi questi rapporti grafici sono ignorati dal 99% della gente, ma spesso il progenitore è comune e infatti 幸 in origine si usava in riferimento ai raccolti abbondanti: grazie divinità della pioggia e del Sole, ho tanto cibo → sono fortunato → sono felice). 幸福 “koufuku” è la parola diciamo ufficiale, la più usata da adulti e cantautori, e combina la benedizione di prima con il secondo kanji che è più legato a un’idea di fortuna, di destino: l’impressione è che grazie alla tua buona sorte hai ricevuto una benedizione… non so se possiamo chiamare questa cosa felicità. 喜び “yorokobi” è un termine più raro, lo usano gli anziani (e io), ma è anche quello che indica gioia nel senso di rapimento interiore e non esteriore dovuto a benedizioni/fortuna. Altrettanto interiore è 嬉々 “kiki”, totalmente in disuso nella lingua parlata quotidiana e usato solo in quella scritta (soprattutto nelle canzoni perché è una parola breve che prende solo due sillabe a verso) e indica qualcosa del tipo “letizia”; quel kanji si usa con altre sillabe per formare il composto 嬉しい “ureshii” che è il comunissimo aggettivo “felice”, però considerando che l’ideogramma indica la letizia forse più che “sono felice” il senso originale era “sono lieto”, ma ormai nella lingua parlata “ureshii” indica “felice” o, se usato da solo, anche “che bello!” o altre espressioni di giubilo. Infine c’è 吉 “yoshi” che però da solo non l’ho mai visto, non so nemmeno se si usa, mentre invece è molto comune nei nomi di persone e luoghi a scopo benaugurante, tipo “sii felice, sii ricco, sii fecondo”, e quindi è la parola più simile al nostro etimo “felix” che indica “che fa” e quindi “che produce, che dà frutto, che è fecondo”. In pratica il mio sospetto è che per i giapponesi la felicità sia un dono in qualche modo legato alla fortuna, e solo in misura molto minore o per nulla una conquista personale. Lo dicevo anche nello scorso articolo sul matrimonio: la felicità arriva in automatico quando ti sposi, cala dal cielo. Il verbo che si usa per la felicità non è nessuno dei nostri “conquistare”, “ricercare”, “arrivare”, “diventare”, tutti verbi che esprimono un moto a luogo, bensì 増えろ “fueru” cioè “aumentare”. Forse, di nuovo, anche la diciamo staticità della felicità è uno dei motivo della benamata tempra giapponese: se ti casca dal cielo bene, sennò pazienza, non c’è niente fa fare se non insistere e andare avanti. Approfondirò.
Grazie mille! Interessantissimo! Secondo alcuni da noi i verbi “augurare” ed “aumentare” hanno la stessa origine, per esempio.