Becoming Mecha – Astro Boy ovvero mente, cuore e corpo dei robot
Se Osamu Tezuka è considerato “il dio dei fumetti giapponesi” un motivo c’è e sta nella sua incredibile capacità di creare modelli narrativi tuttora imprescindibili, come ad esempio Astro Boy.
Il seguente articolo è stato scritto per il volume Becoming Mecha – La storia fotografica dei robot giapponesi, che raccoglie gli scatti realizzati per l’omonima mostra fotografica da Paolo S. Cavazza ai mecha toys di Fabrizio Modina, raccontando le tappe fondamentali del genere mecha dell’animazione giapponese.
Dimensione Fumetto ringrazia per la disponibilità l’Associazione Culturale EVA IMPACT per la promozione, e Ilaria Azzurra Caiazza, Filippo Petrucci e Ivan Ricci per l’ideazione e la cura del volume.
“Robot” è forse una delle parole che l’immaginario collettivo maggiormente abbina al Giappone. Dal dopoguerra in poi il Paese del Sol Levante si è senza dubbio guadagnato l’appellativo di leader nel settore della robotica: c’entrano sicuramente le aziende nel campo delle tecnologie che hanno portato avanti la ricerca scientifica, o le fabbriche automobilistiche che hanno investito nell’automazione della catena di montaggio, o anche solo i racconti dei turisti che nelle grandi città nipponiche hanno ammirato i cartelloni pubblicitari con parti mobili e addirittura gli automi che servono come camerieri nei ristoranti.
Più di ogni altra cosa, però, c’entra la continua, istancabile esplorazione artistica del tema del robot svolta non solo ad alti livelli nella fantascienza per adulti, ma anche e soprattutto nell’animazione seriale televisiva per un target giovane o giovanissimo. Nello stesso anno 1963, mentre negli Stati Uniti d’America la Disney guardava a una passato lontano con La spada nella roccia, in Giappone il fumettista Osamu Tezuka guardava a un futuro lontano portando in televisione il suo personaggio Astro Boy (nato come fumetto 11 anni prima e noto in patria come Tetsuwan Atom, ovvero “Atom dal braccio d’acciaio”) in una omonima serie animata che avrebbe iniziato il concetto stesso di anime come lo conosciamo oggi.
Certo, proprio l’anno prima la Hanna-Barbera aveva prodotto le avventure della famiglia Jetson ne I pronipoti, ma lì l’esplorazione dell’improbabile futuro si fermava a un mero livello umoristico. In Astro Boy invece il futuro, per quanto stilizzato secondo i dettami del Metropolis di Fritz Lang, è comunque un luogo altro dal presente, in cui si pongono profonde questioni umane, le quali come sempre in Tezuka diventano questioni filosofiche, a partire dall’incipit stesso della serie.
La sigla e l’incipit del primissimo episodio di Tetsuwan Atom con la scena della morte del piccolo Tobio, che suo padre il dottor Tenma cercherà inutilmente di rimpiazzare con il robot Atom: una trama terribilmente tragica che ricorda anche il Frankenstein di Mary Shelley.
Tezuka ideò infatti il suo robottino come una sorta di versione opposta di Pinocchio. Mentre il Pinocchio di Collodi è una creatura artificiale che diventa un bambino vero, l’Astro Boy di Tezuka è un bambino vero che diventa una creatura artificiale. Opposto anche lo svolgimento della trama: in Collodi la vita è il dono finale ottenuto dopo mille peripezie, in Tezuka la morte è la disgrazia iniziale che fa partire le mille peripezie. Opposto infine il mondo narrativo: contemporaneo alla narrazione e fiabesco quello di Collodi, futuribile e scientifico quello di Tezuka.
Questa inversione tipologica compiuta su una icona assoluta della letteratura universale rende il personaggio di Astro Boy al contempo ancestrale e futuribile, familiare eppure in qualche modo originalissimo, e incarna in sé alcuni aspetti che poi diventeranno centrali nella produzione giapponese di opere per ragazzi.
In primis l’ambiguità del corpo, veramente un topos basilare per manga e anime di tutte le fasce sociali: Astro Boy sembra il figlio del dottor Tenma però non lo è davvero, sembra giovane però non invecchia, sembra debole come un bambino però è forte come una macchina, e sembra esteriormente un maschio però essendo un robot non può per principio essere definito sessualmente.
C’è poi la questione della tripartizione: con il corpo di un bambino umano, il cuore di una macchina e la mente tutta da costruire, Astro Boy è formato da tre parti che sono al contempo diverse fra loro, eppure fuse insieme in un unicum indistinto che segue gli insegnamenti della filosofia orientale dello yin e yang (l’ombra e la luce), in cui l’universo intero e con esso tutti i suoi sottomultipli fino al singolo essere sono composti inscindibilmente da elemente fusi fra loro, così che niente e nessuno è veramente definibile per assoluti e tutto è molto più complesso di quanto sembra. Anche questo espediente della tripartizione si rivelerà centrale per la storia degli anime, in particolare nel genere fantascientifico con serie come The Five Star Stories e Neon Genesis Evangelion che fanno ampio uso di robot tripartiti in corpo, mente e cuore distinti.
Infine, la tendenza pedagogica: da quando Astro Boy viene adottato dal professor Ochanomizu comincia a vivere una vita quanto più simile a quella dei bambini veri, scoprendo sentimenti e comportamenti giusti e sbagliati per la costruzione de sé. In questa maniera il fumetto e il relativo cartone animato diventano in maniera più o meno esplicita dei veicoli educativi per i giovani lettori: un’idea che verrà ripresa da numerosi fumetti episodici per i più piccoli, il più celebre dei quali è Doraemon (di nuovo con un futuribile robot protagonista), nonché da molti cartoni animati, come ad esempio quelli della serie World Masterpiece Theater.
Quasi 70 anni dopo il debutto come fumetto, Astro Boy continua tutt’ora a rimanere una delle più salde e significative icone della cultura pop giapponese nel mondo: modello completo, sintesi filosofica, ispiratore di mondi.