Una tranquilla Ubalda di terrore: Kami no hidari te Akuma no migi te
Torna Quel gran pezzo dell’Ubalda, la rubrica di critica fumettistica dedicata all’analisi di singole pagine di straordinario valore, che questo mese di ottobre è tutta dedicata all’horror: stavolta è il turno della raccolta di racconti del grottesco e dell’arabesco Kami no hidari te Akuma di migi te di Kazuo Umezu.
I precedenti articoli di questa rubrica sono consultabili a questo link.
Attenzione: l’articolo continente immagini forti che potrebbero turbare il lettore.
In fatto di manga, una delle maggiori differenze fra gli occidentali e i giapponesi è che si basano su patrimoni culturali diversi. Se a un occidentale si nomina la parola “manga” probabilmente penserà a qualche titolo come Dragon Ball o One Piece, nei casi migliori a Video Girl Ai e in quelli peggiori alla pedopornografia. Ma se a un giapponese si nomina la parola “manga”, molto più probabilmente salteranno fuori nomi come Osamu Tezuka, Shigeru Mizuki e soprattutto Kazuo Umezu.

In Giappone anche i giovani, anche i non otaku, anche chi non ha letto alcuna loro opera conosce Tezuka, Mizuki e Umezu come personaggi iconici del fumetto locale. Se però ormai Tezuka è un nome da antologia scolastica e Mizuki è alta letteratura, Umezu è invece particolarmente popolare: essendo ancora vivo ha modo di comparire spesso sui mass media e i suoi lavori, benché siano tutto meno che mainstream, hanno raggiunto lo status di icone.
Un video promozionale del Nintendo DS con Kazuo Umezu di fronte alla celebre vetrata di casa sua. Lui è completamente matto: oltre a sfoggiare sempre il solito completino, il fumettista va in giro con una sagoma di cartone di una mano dalla posa impossibile (con il medio e il mignolo piegati e l’anulare disteso), ovvero l’iconico gesto «Gwash!» del protagonista del suo fumetto comico Makoto-chan.
Le opere di Kazuo Umezu sono assolutamente inconfondibili. Classe 1936, dopo aver fatto la gavetta fino agli anni ’60 disegnando fumetti shoujo e di Ultraman su commissione, nei ’70 ottiene il successo con la serie comica Makoto-chan e soprattutto sperimenta l’horror con Nekome kozou (vicino alle atmosfere di Mizuki) e Houryuu kyoushitsu (vicino alle atmosfere di Tezuka). Ma è negli anni ’80 che esplode il suo genio: Umezz si rende conto di essere a suo agio nel genere nero e crea opere incredibili come Watashi wa Shingo (completamente disegnato su texture quadrettate), la raccolta di novelle scolastiche Umezu Kazuo no noroi, e soprattutto il capolavoro assoluto Kami no hidari te Akuma no migi te, ovvero “Mano sinistra di Dio, mano destra del Diavolo”.

Si tratta di un un’opera capitale del fumetto giapponese. Realizzata fra il 1986 e il 1988, il suo impatto è stato fin da subito enorme influenzando tuttora una quantità infinita di autori, come Yoshihiro Togashi (basti pensare all’omonima abilità Nen posseduta da Kortopi e Quoll in Hunter × Hunter), Katsura Hoshino (la mano maledetta di Allen in D.Gray-man), o le CLAMP (il corvo extracorporeo di Seishirou in Tokyo Babylon) solo per citare alcuni di quelli noti in Italia. Non c’è una trama unica: Kami no hidari te Akuma no migi te è composto da cinque episodi distinti e collegati fra loro solo dal protagonista Sou Yamanobe, un bimbo delle elementari che vive con sua sorella maggiore Izumi, la mamma casalinga e il padre dottore. La sua sarebbe una vita tranquilla se non fosse che possiede la facoltà paranormale di vedere il futuro in sogno, o meglio in incubo, dato che per tutta la serie vedrà solo ed esclusivamente immagini raccapriccianti, e mostrerà pian piano in maniera sempre più esplicita altre doti, come il sentire su di sé il dolore di altre persone o la chiaroveggenza al contatto con certi oggetti. Avendo visto o sentito il futuro, Sou cerca di raccontarlo a parenti e amici, ma ovviamente è sempre diffidato come una Cassandra e dovrà mettere riparo lui stesso all’orrore con le sue mani… le sue due mani.
I cinque episodi di Kami no hidari te Akuma no migi te non sono sistemabili in una classifica: sono tutti assolutamente pazzeschi, senza la minima ripetitività e ancora oggi freschissimi dopo quasi trent’anni. Di volta in volta Sou si troverà ad affrontare una maledizione, un demone, un mostro, un assassino e il malocchio: la capacità narrativa di Umezz emerge proprio dal fatto che i temi trattati sono tutto sommato standard nella letteratura nera, eppure appaiono qui totalmente rinnovati. L’horror di Kazuo Umezu è agli esatti antipodi di quello di Go Nagai: tanto il secondo è secco, selvaggio e basato su un orrore che nasce dalle paure più ancestrali dell’uomo, tanto il primo è barocco, raffinato e basato su una messinscena teatrale in cui l’escalation di orrore è cosi paradossale da diventare grottesca, onirica e surreale.
L’immaginazione flamboyant di Umezu è cosi stupefacente (in tutti i sensi) da aver consegnato all’immaginario popolare giapponese alcune delle più celebri tavole della storia del manga. Ne è un ottimo esempio il clamoroso incipit della prima storia, intitolata Le forbici arrugginite.
Attenzione: le seguenti immagini potrebbero urtare la sensibilità del lettore.
[lettura da destra a sinistra]
Una bambina sta dormendo.
Soffre nel sonno, suda, serra gli occhi e dilania la bocca in una smorfia. Sembra avere un incubo, ma d’un tratto…
… e…
… e ancora…
… finché alla fine Sou si sveglia e capisce che stava avendo un incubo, si alza dal letto e chiama la sorella Izumi per accertarsi che stia bene.
Delle forbici che trafiggono gli occhi, dall’interno, e che avanzano penetrando le carni finché non escono completamente tranciando il cranio e squarciando il volto. È più che horror, o meglio è esattamente il concetto primigenio dell’horror cinematografico: manifestare esternamente qualcosa che è all’interno. È una rappresentazione freudiana. È oltre i peggiori incubi di Dalí e Buñuel. È puro surrealismo.
Ancora più della doppia splash page, è la doppia pagina con la sequenza dell’uscita delle forbici ad essere particolarmente celebre in Giappone, al punto da apparire fra i primi risultati cercando “manga” su Google Japan e da essere anche rappresentata su t-shirt molto rock’n’roll.
Il successo della doppia tavola d’apertura di Kami no hidari te Akuma no migi te dipende da svariate ragioni che riguardano numerosi aspetti metaforici, narrativi, grafici e tecnici del fumetto.
Un paio di forbici arrugginite (dure, appuntite, sporche, secche, artificiali, inanimate, usate per mettere in separazione due parti di qualcosa) penetrano un paio di bulbi oculari (morbidi, arrotondati, puliti, umidi, naturali, animati, usati per mettere in comunicazione il mondo esterno con il cervello). Una visione onirica poderosa che, oltre a fungere da inizio della narrazione, è anche palesemente una metafora. Più avanti nella storia ci saranno delle ragioni di trama, ma intanto quest’improvvisa immagine di forbici che forano occhi si presta alle più svariate interpretazioni. Psicosomaticamente potrebbe essere esternazione del dolore, taglio col passato traumatico, rifiuto della propria interiorità, crisi di rigetto, odiare sé stessi, o altro ancora, potrebbe essere un mal di testa, una malattia, un partner che porta via i figli dopo il divorzio, le prime mestruazioni o il primo rapporto sessuale (considerando il sangue che sporca il letto bianco e gli oggetti dell’infanzia sullo scaffale). Oppure, queste forbici potrebbero anche essere metafora dell’arte, dove le immagini forti, come si suol dire, bucano gli occhi, come al cinema; d’altronde proprio la cinematograficità è infatti la principale caratteristica del fumetto giapponese.
Ora, se come dice Tito Faraci nel fumetto lo spazio è il tempo, allora la sequenza diventa ancor più sconcertante perché Umezu usa tantissimo spazio, e quindi tantissimo tempo, per descrivere la scena: ben cinque pagine intere, di cui una splash page e una doppia splash page. Analizzando la sequenza principale vignetta per vignetta diventa chiaro il passaggio del tempo.







Nelle prime vignette della pagina successiva Izumi sta ancora agonizzando, ma ormai il lettore ha intravisto con la coda dell’occhio che Sou stava solo sognando, e quindi la tensione si interrompe, proprio come alla fine di una scena paurosa al cinema.
Ancora più interessante è l’analisi grafica e compositiva della doppia pagina, che rivela come Umezu l’abbia concepita come una sorta di unica grande vignetta omogenea.



Infine, una nota linguistica conseguente all’uso di tutte queste croci e diagonali: in giapponese il cerchio 〇 si usa per indicare approvazione e la croce ✕ disapprovazione; questa croce è chiamata batsu ed è omonima della parola “punizione, castigo, pena”, aggiungendo un forte valore metaforico a quello compositivo.
L’incredibile qualità e quantità dei significati formali e comunicativi di queste due pagine non è un unicum all’interno di Kami no hidari te Akuma no migi te: per tutta l’opera si rincorrono tavole sconcertanti sia per il contenuto sia per come è presentato, con il tipico stile di Umezu basato sull’alternanza fra numerose piccole vignette regolari e immagini a tutta pagina, un uso molto limitato dei retini a fronte di un tratteggio fittissimo che tinge di nero puro le tavole, ombre estremamente drammatiche ed espressioniste, prospettive che sembrano assonometrie cavaliere, e ambientazioni in stile secondo dopoguerra (il massimo della tecnologia visto in un’opera di Kazz è il computer a schede perforate).

Anche se non realizza più serie regolari dal 1995, Kazuo Umezu è ancora in pienissima attività: disegna illustrazioni, partecipa a spot tv, registra ameni album recitati e cantati come i due Yami no album (“L’album dell’oscurita”) del 1975 e 2011, va ospite a programmi televisivi dove dà sfoggio della sua follia, e si impegna al cinema come attore fin dagli anni ’60 e dal 2014 anche come regista con il suo primo film Mother che fonde insieme elementi horror e autobiografici. Mani febbrili che non riescono a fermarsi: mano sinistra per reggere la sagoma «Gwash!», mano destra per disegnare capolavori.